da Baltazzar | Apr 5, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Testimonianze
La conversione pro-vita di un medico abortista italiano
In principio fu Bernard Nathanson. Parliamo del famoso ginecologo statunitense che al suo attivo collezionò circa 75.000 aborti, fino a quando non si rese conto della umanità del feto e non fece un vero cammino di conversione che lo portò a scrivere il libro “The hand of God” (La mano di Dio). Da quel momento in poi, il suo lavoro è divenuto totalmente a favore della vita nascente. Ma la mano di Dio continua ad operare in ogni continente, e anche in Italia, abbiamo il nostro Nathanson: è il dottor Antonio Oriente. Anche lui viveva la sua quotidianità praticando aborti di routine. Abbiamo ascoltato la sua testimonianza nel corso di un convegno AIGOC, in quanto lui oggi è il vicepresidente e uno dei fondatori della Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici… praticamente una totale inversione di tendenza, rispetto al modo precedente di vivere la sua professione.
La sua testimonianza inizia così: “Mi chiamo Antonio Oriente, sono un ginecologo e, fino a qualche anno fa, io, con queste mani, uccidevo i figli degli altri”. Gelo. Silenzio. La frase pronunciata è secca, senza esitazione, lucida. La verità senza falsi pietismi, con la tipica netta crudezza e semplicità di chi ha capito e già pagato il conto. Di chi ha avuto il tempo di chiedere perdono.
Due cose colpiscono di questa frase e sono due enormi verità: la parola uccidevo, che svela l’inganno del termine interruzione volontaria, e la parola figli. Non embrioni, non grumi di cellule, ma figli. Semplicemente. E questa sua pratica quotidiana dell’aborto, il dottor Oriente la riteneva una forma di assistenza alle persone che avevano un “problema”.
“Venivano nel mio studio – racconta – e mi dicevano: Dottore, ho avuto una scappatella con una ragazzetta… io non voglio lasciare la mia famiglia, amo mia moglie. Ma ora questa ragazza è incinta. Mi aiuti… Ed io lo aiutavo. Oppure arrivava la ragazzina: Dottore, è stato il mio primo rapporto… non è il ragazzo da sposare, è stato un rapporto occasionale. Mio padre mi ammazza: mi aiuti!”. Ed io la aiutavo. Non pensavo di sbagliare”.
Ma la vita continuava a presentargli il conto: lui, ginecologo, i bambini li faceva anche nascere. Sua moglie, pediatra, i bambini degli altri li curava. Ma non riuscivano ad avere figli propri. Una sterilità immotivata ed insidiosa era la risposta alla sua vita quotidiana. “Mia moglie è sempre stata una donna di Dio. È grazie a lei e alla sua preghiera se qualcosa è cambiato. Per lei non avere figli era una sofferenza immensa, enorme. Ogni sera che tornavo la trovavo triste e depressa. Non ne potevo più. Dopo anni di questo calvario, una sera come tante, non avevo proprio il coraggio di tornare a casa. Disperato, piegai il capo sulla mia scrivania e cominciai a piangere come un bambino”.
E lì, la mano di Dio si fa presente in una coppia che il dottor Oriente segue da tempo. Vedono le luci accese nello studio, temono un malore e salgono. Trovano il dottore in quello stato che lui definisce pietoso e lui per la prima volta apre il suo cuore a due persone che erano solo dei pazienti, praticamente quasi degli sconosciuti. Gli dicono: “Dottore, noi non abbiamo una soluzione al suo problema. Abbiamo però da presentarle una persona che può dargli un senso: Gesù Cristo”. E lo invitano ad un incontro di preghiera. Che lui dribbla abilmente.
Passano dei giorni ed una sera, sempre incerto se tornare a casa o meno, decide di avviarsi a piedi e, nel passare sotto un edificio, rimane attratto da una musica. Entra, si trova in una sala dove alcune persone (guarda caso il gruppo di preghiera della coppia che lo aveva invitato) stanno cantando. Nel giro di poco tempo, si ritrova in ginocchio a piangere e riceve rivelazione sulla propria vita: come posso io chiedere un figlio al Signore, quando uccido quelli degli altri?
Preso da un fervore improvviso, prende un pezzo di carta e scrive il suo testamento spirituale: “Mai più morte, fino alla morte”. Poi chiama il suo amico e glielo consegna, ammonendolo di vegliare sulla sua costanza e fede. Passano le settimane e il dottor Oriente comincia a vivere in modo diverso. Comincia anche a collezionare rogne, soprattutto tra i colleghi nel suo ambiente. In certi casi il non fare diventa un problema: professionale, economico, di immagine.
Una sera torna a casa e trova la moglie che vomita in continuazione. Pensa a qualche indigestione ma nei giorni seguenti il malessere continua. Invita allora la moglie a fare un test di gravidanza ma lei si rifiuta con veemenza. Troppi erano i mesi in cui lei, silenziosamente, li faceva quei test e quante coltellate nel vedere che erano sempre negativi… Ma dopo un mese di questi malesseri, lui la costringe a fare un esame del sangue, che rivela la presenza del BetaHCG: sono in attesa di un bambino!
Sono passati degli anni. I due bambini che la famiglia Oriente ha ricevuto in dono, oggi sono ragazzi. La vita di questo medico è totalmente cambiata. È meno ricco, meno famoso, una mosca bianca in un ambiente dove l’aborto è ancora considerato una forma di aiuto a chi, a causa di una vita sregolata o di un inganno, vi ricorre. Ma lui si sente ricco, profondamente ricco. Della gioia familiare, dei suoi valori, dell’amore di Dio, quella mano che lo carezza ogni giorno facendolo sentire degno di essere un Suo figlio.
Sabrina Pietrangeli da www.zenit.org
da Baltazzar | Apr 2, 2013 | Famiglia, Post-it, Testimonianze
di Benedetta Consonni da www.lanuovabq.it

Chiara sta ancora finendo di sparecchiare la tavola, mentre Marco dà un po’ retta ad Anna, 7 anni, ed Eugenio, 3 anni e mezzo. Daniele, 21 mesi, sta riposando nel suo lettino. Così mi accoglie questa famiglia, come se fossi di casa. Niente formalità, ma la normalità di una famiglia la domenica pomeriggio. La loro storia invece è un po’ fuori dal comune.
“Quando sono rimasta incinta per la terza volta – racconta Chiara – davo tutto per scontato, perché sapevo tutto: come si partorisce, come si allatta e così via. Pensavo di dover solo fare un’ecografia per sapere se era maschio o femmina. L’ho fatta e ho scoperto che era maschio, ma presentava un forte iposviluppo. Per cui ci hanno rimandato a un nuovo esame tre settimane dopo, con una ginecologa che solitamente segue i casi più problematici. Ricordo di aver pensato: Gesù cosa mi sto perdendo? Io avevo dato tutto per scontato, mentre il buon Dio mi stava dicendo: Io ti sto dando un figlio, non un pacchetto maschio o femmina, non voglio che ti perdi niente di questa esperienza”.
Il giorno dell’esame approfondito arriva e la ginecologa fa un’ecografia di quasi due ore, che evidenza delle caratteristiche fisiche tipiche della trisomia 18: una manina storta, un pugno sempre chiuso, i piedini storti, la testa leggermente a forma di limone. “Non sapevo neanche esistesse questa trisomia 18 – continua Chiara – praticamente Daniele nella mappa del DNA ha un cromosoma in più, il 18, anziché essere una coppia, ha un bastoncino in più come dice mia figlia Anna. Io pensavo fosse tipo la sindrome di Down, ma la ginecologa mi ha subito fermato: la trisomia 18 viene definita come incompatibile con la vita extra utero. Non si sapeva se Daniele sarebbe arrivato al parto, né se sarebbe sopravvissuto ad esso e comunque la sua vita sarebbe stata di poche ore o giorni, le statistiche parlano di qualche mese per i più fortunati”.
I mesi di gestazione passano e Daniele tiene duro, e con lui tutta la sua famiglia. “Non sapevamo come dirlo ad Anna, che aveva già avuto l’esperienza della mamma che va in ospedale a partorire e torna a casa con il fratellino. Questa volta sarebbe potuto non accadere. Alla trentacinquesima settimana abbiamo fatto l’amniocentesi, perché era necessario scoprire se era effettivamente trisomia 18 per dare ai medici delle indicazioni su come comportarsi durante il parto in caso di complicazioni. Il cariotipo emerso ha confermato tutto. Per cui con Anna abbiamo giocato a carte scoperte e le abbiamo mostrato il cariotipo con il cromosoma in più, facendole vedere il motivo per cui Daniele stava così male e per cui bisognava pregare”. Con serenità e certezza Anna ha risposto: “Chiediamo alla Madonna e a Gesù di cancellargli il terzo bastoncino”. “Pensavamo di non essere riusciti a comunicarle la gravità della situazione” spiega Chiara, ma Anna le ripete “mamma, se Dio vuol far crescere Daniele sano e in salute gli toglie il terzo bastoncino, se no lo fa vivere sereno anche con il bastoncino”. A Chiara non rimaneva che dire “guarda come mia figlia mi richiama al fatto che la certezza è posta su un Altro”.
“Verso la fine della gravidanza – continua Chiara – mi capitava di incontrare delle signore al supermercato che facevano le solite battute di circostanza che si fanno a una mamma: ma che bello, è maschio o femmina, massì l’importante è che sia sano. All’inizio mi veniva quasi da ridere quando mi dicevano: l’importante è che sia sano. Alla lunga però iniziavo a scocciarmi e avevo queste domande: ma sono cretina io che mi sto portando dentro un figlio che non è sano? Perché vale la pena mettere al mondo un figlio? Cosa valgono i dolori del parto se poco dopo un figlio muore?”. A dare la risposta ci pensa Daniele. “In aprile io e mio marito siamo andati agli esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, che avevano questo titolo: Se uno è in Cristo, è una creatura nuova. Quando ho letto il titolo ho sentito Daniele muoversi. Per me è stato un segno, come se mio figlio mi dicesse: mamma io sono questo, valgo perché sono una creatura nuova in Cristo”.
Il 14 giugno 2011, nasce Daniele con parto naturale, pesa 1,8 kg. “Già li ha dimostrato di avere una grande grinta “ commenta orgoglioso Marco “e noi continuavamo a guardarlo per capire se era ancora vivo. L’ostetrica l’ha preso in braccio e l’ha portato un attimo via, ma poi mi hanno richiamato subito perché aveva avuto una crisi respiratoria e siccome non si capiva che direzione prendeva la cosa, era arrivato il momento di battezzarlo. In questo periodo di attesa di Daniele, alcuni amici ci avevano portato acqua del Giordano dalla Terra Santa oppure alcuni ci avevano dato l’acqua benedetta del giorno di Pasqua. Quindi davanti alle ostetriche mi sono messo a fare un mix di tutte queste acque e loro mi guardavano un po’ perplesse. Ho battezzato Daniele. Io non me ne sono accorto, ma dopo il battesimo si è ripreso e ha ricominciato, seppur faticosamente, a respirare”. Continua Chiara “la sera la ginecologa è venuta a vedere come stavo e mi ha detto: ma lo sa cos’è successo questa mattina? Suo figlio non ce la faceva a respirare e il battito iniziava a diminuire e quindi abbiamo chiesto a suo marito se lo voleva battezzare. Il cuore di Daniele aveva smesso di battere, quando suo marito ha pronunciato la frase del battesimo è come se avesse avuto un sussulto e il cuore è ripartito”. Con un po’ di commozione, per Chiara questo è segno del fatto che “a Dio tutto è possibile, anche far arrivare a 21 mesi un bambino incompatibile con la vita. La vita non è definita dalle statistiche, ma c’è un Regista che sa cosa è meglio per noi”.
Tutto questo non toglie la fatica, perché dal 14 giugno 2011 la vita della loro famiglia è cambiata, ma non in peggio, anche se sembra paradossale vivere meglio con un bambino che ha tanti problemi. “E’ come vivere con un figlio che ha sempre tre mesi – spiega Marco – non è autonomo in niente, bisogna sempre imboccarlo, lo devi sempre tenere in braccio, poi ci sono tante visite e controlli, ha problemi all’udito e dobbiamo gestire le sue protesi. Settimana scorsa siamo stati in ospedale per una crisi respiratoria. Anche per Anna e Eugenio non è semplice, perché Daniele occupa tanto tempo alla mamma. Eugenio vorrebbe giocare con lui, ad esempio c’è stato un periodo in cui gli faceva vedere i suoi camion e le macchinine, ma Daniele non reagiva. Noi cerchiamo di aiutare il più possibile Anna e Eugenio, ma questo è un punto su cui devono fare i conti e non possiamo toglierlo loro o fare finta che non ci sia o guardarlo come una sfortuna. Questa è la vita che ci è data da vivere, per noi non è un di meno, ma un di più su tanti aspetti. Abbiamo imparato ad essere più attenti, con Daniele un sorriso è già tanto, ci accorgiamo di cose di cui prima non ci accorgevano e ora facciamo così anche con gli altri”.
Suona una sveglia che ricorda a Marco una cosa da fare per Daniele, Chiara telefona a un’amica per farsi passare a prendere. Vanno insieme ad incontrare una famiglia in difficoltà economica che ha chiesto aiuto al Banco Alimentare. Io resterei ad ascoltarli per ore, ma l’urgenza della vita si fa sentire. Prima di salutarci, Marco chiede alla piccola Anna: “chi è per te il Daniele?”. “E’ speciale, perché è un angioletto vero”.
da Baltazzar | Mar 25, 2013 | Biopolitica, Cultura e Società, Testimonianze
di Matteo Rigamonti da www.tempi.it
In Africa esistono Ong create ad hoc dalle case farmaceutiche per sperimentare pillole abortive sulle donne e diffondere i loro prodotti. La denuncia di don Paolo Pupillo
In Zambia, come del resto in molti altri paesi dell’Africa subsahariana e del Terzo mondo, si combatte ogni giorno una vera e propria “guerra” tra organizzazioni non governative. Perché, di fronte al drammatico problema delle gravidanze non desiderate, che spesso sono conseguenza di violenze e relazioni clandestine, c’è chi combatte per difendere la vita e chi, invece, combatte per soldi, calpestando, di fatto, le vite di molti bambini e delle loro a volte giovani madri. Nel primo caso, si tratta di piccole ong a dimensione familiare che appoggiano i missionari locali nell’arduo compito di educare la popolazione e offrire una speranza di vita concreta a chi decide di tenere il bambino; nel secondo, spesso, si tratta di ong costruite ad arte dalle case farmaceutiche che, con l’appoggio dei governi, sono maestre del fundraising internazionale e non si fanno scrupoli per promuovere i loro “farmaci” e altre soluzioni abortive. Una realtà che don Paolo Pupillo, missionario fidei donum della diocesi di Milano “in prestito” allo Zambia, conosce molto bene e che ha voluto denunciare a Tempi – assumendosi la piena responsabilità delle sue forti accuse – per far sapere come stanno davvero le cose nel suo paese. I missionari fidei donum della diocesi di Milano sono preti di parrocchia letteralmente prestati a diocesi straniere che operano secondo tre principali direttive: l’evangelizzazione, l’autoministerialità (cioè la capacità di condurre parrocchie e comunità cristiane in un cammino di fede) e l’autosostenibilità (ossia il compito di collaborare alla costruzione di opere e progetti che possano stare in piedi anche quando il prete dovesse abbandonare il posto).
Don Pupillo, cosa succede a Lusitu, in Zambia?
Beh, succede più o meno quello che succede un po’ in tutto il Terzo mondo (e non solo, purtroppo). Ci sono diverse ong che esercitano pratiche abortive, promuovendone la diffusione e trattando con i governi per un semplice interesse primario, ossia quanto ci guadagnano. Basta andare sui loro siti o visionare i volantini per accorgersi di cosa si tratta: dietro alle apparenti buone intenzioni (come, per esempio, la prevenzione di gravidanze indesiderate e la salute riproduttiva) si nascondono tutti i rischi e gli effetti collaterali non dichiarati. Un esempio? Il programma anticoncezionale (che è solo uno tra i tanti) denominato “family planning” della ong Marie Stopes International Zambia, che i vescovi zambiani hanno bene in mente da almeno un anno. In Zambia, vede, abortire e far abortire è ormai diventato un business. Mentre il governo dovrebbe analizzare la complessità del problema e trovare valide soluzioni alternative, ma non lo fa. Perché preoccuparsi, del resto, quando c’è qualcuno che fa il “lavoro sporco” al posto tuo?
Quali fattori storici e culturali sono all’origine del problema delle gravidanze indesiderate?
Da noi le gravidanze indesiderate, che per lo più coinvolgono ragazzine troppo giovani oppure famiglie forse già troppo numerose, hanno spesso a che fare con violenze carnali o relazioni clandestine con persone benestanti come politici e dirigenti. E, come se non bastasse, il codice d’onore non scritto locale tutela in maniera sproporzionata la parte lesa (la donna) e il colpevole, che sovente è condannato a pene soltanto simboliche. Ma i problemi più seri nascono quando si cerca di interrompere la gravidanza autonomamente con pratiche abortive poco sicure e dolorose.
L’intervento delle ong, dunque, non è da leggersi come qualcosa di positivo?
Il problema di rendere meno rischiosa una pratica scellerata come l’aborto, specie se clandestino, è reale. Ben vengano, pertanto, migliori condizioni sanitarie. E sicuramente c’è bisogno anche di una legislatura più “garantista” per la vita e a difesa della salute. Così come pure c’è bisogno di un’educazione, ben fatta, a che cosa sia davvero l’amore e non solo di un’educazione sessuale. Detto questo, però, non si può non accorgersi quando una ong, come nel caso di Marie Stopes International Zambia, mira semplicemente a incentivare il ricorso all’aborto al fine di migliorare le vendite di un farmaco e implementare il suo piano di sperimentazione di progetti tramite pillola.
E a Lusitu il quadro è quello che lei ha appena descritto?
Sì, a Lusitu le ragazzine sono semplicemente delle cavie a disposizione degli interessi di quelle ong che hanno la sfacciataggine di mentire sui loro reali obiettivi. E non dimentichiamoci che i governi non sono mai ideologici: quelli favorevoli all’aborto, infatti, hanno sempre alle spalle importanti case farmaceutiche. In mezzo ci sono le ong, che assumono un ruolo molto importante quando suppliscono alle carenze dei governi e quando evidenziano le ingiustizie sociali, ma che possono anche decidere di offrire scorciatoie acuendo problemi sociali già esistenti. In questo secondo caso, il loro operato va denunciato.
Qual è, invece, l’alternativa che voi missionari proponete?
Il nostro lavoro in questo campo è soprattutto di educazione e prevenzione; già don Bosco, del resto, insegnava il metodo preventivo. Purtroppo, però, qui a Lusitu, non ci sono ong che lavorano con noi su questo progetto, anche perché la nostra è una realtà piccola. E non è un caso che le ong davvero indipendenti, come tutte quelle piccole realtà a dimensione familiare che collaborano con i missionari come per esempio Ali d’Aquila, facciano molta fatica ad accedere ai fondi internazionali. Fondi che, spesso e volentieri, sono assorbiti con arte e mestiere da ong sussidiarie, create proprio per questo scopo da importanti case farmaceutiche. Ed è questo il motivo per cui dico – e me ne assumo la piena responsabilità – che programmi come quello di Marie Stopes International Zambia non dovrebbero nemmeno esistere e i governi non dovrebbero appoggiarli.
Che cosa vi fa ben sperare?
Innanzitutto, il fatto stesso che ci siamo, e che possiamo lavorare. Anche se il “nemico” è forte e lavora nell’ombra, dalla fede in Gesù ci viene la speranza e troviamo la via per poter dare una testimonianza. Un altro punto di forza è che lo Zambia non conosce la guerra, perché è un paese dove c’è la pace da sempre. Questo è un aspetto che facilita e rende possibile il dialogo. In Zambia, poi, ci sono molte chiese, quasi tutte cristiane, che hanno contribuito a diffondere tra la gente la consapevolezza che l’aborto è sempre un male.
da Baltazzar | Mar 11, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Segni dei tempi, Testimonianze
di Stefano Lorenzetto da Il Giornale
Fatturato e dipendenti (da 2 a 240) cresciuti dell’11mila per cento in 12 anni per la BB di Marco Bartoletti. Porte spalancate anche a disabili psichici e pensionati: “Sono una ricchezza”
La trousse chiusa da un lucchetto, con catenella di sicurezza collegata a un bracciale, il tutto in oro, valore stimato 2 milioni di euro, sfoggiata a Toronto dall’attrice Angelina Jolie, moglie di Brad Pitt, durante la presentazione del film Moneyball? «Non ne so nulla». E gli accessori prodotti per Cartier, Louis Vuitton, Hermès, Prada, Gucci, Bulgari, Christian Dior, Céline, Fendi, Yves Saint Laurent? «Idem». Non ci sono soltanto i non-disclosure agreement, i rigorosi patti legali che vincolano a mantenere il riserbo sui nomi dei committenti e sulla natura dei contratti, a rendere invalicabile il muro di protezione eretto da Marco Bartoletti, 51 anni ad aprile, industriale fiorentino, a tutela dei suoi clienti.
C’è anche la serietà schiva dell’ex operaio che non ama parlare di sé.
Allora perdonerete se potrò darvi per sicure solo una serie di altre informazioni, attinte da varie fonti, che rendono pressoché unico quest’uomo e la sua fabbrica e che da sole valgono un viaggio fino a Calenzano. Prendete un’azienda che in 12 anni è passata da 2 a 240 dipendenti, un incremento dell’11.900% (undicimila, avete letto bene), e che nello stesso periodo ha accresciuto il suo fatturato in misura quasi pari (+10.964%), da 700 milioni di lire a 40 milioni di euro. Aggiungeteci che in piena crisi economica planetaria ha messo a segno un +37% nel 2011, un +54% nel 2012 e conta di fare persino meglio nel 2013. Considerate che il suo titolare riserva una corsia preferenziale, nelle nuove assunzioni, ai malati di tumore, agli autistici, ai disabili psichici e agli ex tossicomani e che una parte del bilancio serve a finanziare ricerche scientifiche sulla sindrome di Duchenne, una rara forma di distrofia muscolare. Tenete conto che le sue porte sono aperte agli ultrasessantenni, magari richiamati dalla pensione, ma che nel contempo riesce a mantenere l’età media dei dipendenti intorno ai 26 anni. Vogliate considerare che la metà esatta di costoro sono donne, così come il 50% dei dirigenti è rappresentato da personale femminile, motivo per cui il titolare ha stabilito che se una lavoratrice rimane incinta abbia subito diritto all’astensione precauzionale dal lavoro per maternità e possa ritornare non prima di un anno dal parto, usufruendo in pratica di una ventina di mesi, contro i 5 di congedo parentale previsti dalla legge, mantenendo però lo stipendio pieno.
Non trascurate il fatto che qui il salario base è di norma un terzo più alto rispetto a qualsiasi altra industria metalmeccanica d’Italia e in taluni casi arriva a essere il doppio.
Un po’ città del Sole vagheggiata da Tommaso Campanella, un po’ isola di Utopia descritta da Tommaso Moro, la BB holding di Calenzano è una concretissima impresa etica controllata al 100% da Bartoletti, sposato, due figli. Comprende sette aziende al servizio degli stilisti e ha per capofila una ditta che realizza componenti per le griffe dell’alta moda mondiale: ornamenti, fibbie, ganci, bottoni, cerniere, chiusure, manici, catenelle, tacchi, fino alle casse per orologi. Ciascuna creazione rappresenta un pezzo unico, che nasce da un prototipo e viene poi prodotto in serie nei più disparati materiali: acciaio, alluminio, titanio, carbonio, ottone, bronzo, rame, alpacca, legno, osso, plexiglas, teflon. È un lavoro di precisione fatto con torni, frese e macchinari per il taglio, l’incisione e la saldatura laser, completato da bagni galvanici a base di oro, argento, rutenio, palladio e rodio.
Ma lei ha frequentato una scuola di moda?
«No. Sono un ragioniere. Per un lustro ho fatto l’agente dell’Ina Assitalia. In questa veste ho conosciuto la Vignoli, una piccola officina meccanica di Firenze che occupava marito, moglie e due operai. Non ha mai stipulato una polizza, però mi ha consentito di passare interi pomeriggi a osservare estasiato il ciclo produttivo. Scultori del metallo. Mi sono appassionato. Ho mollato le assicurazioni e mi sono fatto assumere come tornitore dai fratelli Rigacci di Calenzano, che producevano accessori per l’automotive. Ho lavorato lì dal 1985 al 1990 e poi mi sono messo in proprio, fondando la BB Mec. Avevo un solo operaio e un socio. Facevamo le impugnature di metallo per i rasoi artigianali. Poi siamo passati alle forniture per la Piaggio e la Ducati».
Chi le ha dato i capitali per iniziare?
«Nessuno. Ho investito tutti i risparmi: 7 milioni di lire. Ho sempre lavorato con i miei soldi e non ho mai chiesto aiuto alle banche. I primi due torni erano usati, altri tre li ho recuperati in una discarica. Applicandoci di notte, li abbiamo rimessi in funzione. Sgobbando 24 ore su 24, il primo bilancio, nel 1991, s’è chiuso con un utile: 100 milioni di lire. L’officina misurava appena 150 metri quadrati e aveva un tetto di plastica dal quale pioveva dentro. Nel 2000 ci ha cercato una grande maison. E da lì è cominciata l’ascesa».
Oggi che cosa siete?
«Una famiglia, un’impresa che mette al centro la persona».
Che significa?
«Che qui non ci sono rappresentanze sindacali e non abbiamo mai avuto un’ora di sciopero. La mia porta è sempre aperta. Se adesso entrasse un operaio che ha bisogno di me, quest’intervista finirebbe qui: la saluterei perché dovrei occuparmi di lui».
Cerco di sbrigarmi, allora.
«Era solo un esempio. Finché i dipendenti sono rimasti sotto il centinaio, il rapporto era ancora più stretto. Oggi, dove non arrivo io, sopperisce una psicologa. È in azienda tutti i giorni per sei ore. Chi ha un disagio, può rivolgersi a lei e mettersi in analisi anche durante l’orario di lavoro. Se c’è bisogno di me, la dottoressa mi avvisa».
Di quali disagi stiamo parlando?
«Parlo delle emergenze umane di qualsiasi natura. Le peggiori riguardano lo stato di salute di un familiare, il costo delle cure, la necessità di un intervento chirurgico, il bisogno di assistenza domiciliare. Una signora venne da me per un colloquio di assunzione. Parlandoci insieme, capii che il suo datore di lavoro l’aveva licenziata perché aveva il problema di un figlio affetto dalla sindrome di Duchenne, di cui non sapevo nulla. L’ho subito assunta. E da lì è nato l’impegno di BB a favore della Parent project onlus che lotta contro questo tipo di distrofia».
Davvero assume malati di cancro?
«Di più: li cerco. Chiunque si presenti con questa patologia, trova non solo un accesso privilegiato ma quasi sempre viene automaticamente assunto».
I suoi concorrenti diranno cinicamente che lei lo fa solo perché ha la ragionevole certezza di non dovergli pagare a lungo lo stipendio.
«Liberi di dirlo o di pensarlo. Sta di fatto che, grazie a Dio, finora non ho mai perso un malato neoplastico. Anzi, due sono guariti. Non per merito mio, sia ben chiaro. È che l’impegno quotidiano aiuta, li fa stare meglio, forse alza le loro difese immunitarie. Il lavoro è fondamentale. Non sentirsi un peso né per la famiglia né per la società è terapeutico. Chi è malato può suonare il campanello di BB senza timore e troverà ascolto».
Di solito chi è malato corre il rischio d’essere licenziato.
«Noi la pensiamo diversamente e la cosa bella è che sull’accoglienza siamo tutti d’accordo, nessuno si sognerebbe di recriminare. Vede, nel nostro lavoro, che è in qualche modo artistico, le competenze non sono soltanto quelle scritte. La disabilità nasconde facoltà che noi neppure conosciamo. Inoltre fare prodotti molto belli e molto costosi comporta due rischi».
Quali?
«Il primo è che il titolare perda il contatto con la realtà, finisca col preferire le sfilate di moda alla fabbrica. Da Parigi a Milano, avrei un posto in prima fila in tutti i défilé, ma al massimo li seguo in videoconferenza, perché so che devo restare fra la mia gente. Lo stesso vale per i lavoratori, che potrebbero sentirsi una spanna sopra i colleghi solo per il fatto di costruire gioielli ricercatissimi. Insomma, la vicinanza delle persone svantaggiate ci mantiene con i piedi ben piantati per terra, dà la giusta misura alle cose».
Un «memento mori» aziendale.
«La vita è questa, ricordiamocelo. Il resto è solo lavoro. Importantissimo, per carità, non ci sputiamo sopra, ci dà da mangiare. Ma non può essere il metro d’ogni cosa. Ecco perché mi piace presentarlo ai clienti rivestito dai valori in cui crediamo. Gli mostro che cosa sono capaci di fare i nostri disabili. La Caritas me ne ha appena mandati altri cinque. In passato, sbagliando, me ne vergognavo, li nascondevo».
Ma se un dipendente proprio non ci arriva, che fa?
«Gli do il tempo per crescere. Occorre pazienza. Questo non è un mestiere che s’impara in tre giorni. Ciascuno viene adibito a una funzione che è proporzionata alle sue effettive capacità, ma spesso è anche superiore, perché credo sia giusto tenere alta l’asticella per tutti, a cominciare da me. Poi tocca ai capireparto istruire, adattare, accompagnare».
Poveri capireparto.
«Fa parte dei doveri: del resto arrivano a guadagnare fino al 100% in più rispetto alla paga prevista dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Alla BB ogni stipendio è negoziato col singolo lavoratore. Tutti i mesi si fa un’analisi e vengono premiate le eccellenze. A gennaio ci sono state otto promozioni».
L’operaio più anziano che età ha?
«È una signora di 65 anni, una smaltatrice, che era già in pensione. L’ho assunta nel 2011. Mi riprometto di reclutare altri anziani che abbiano conoscenze approfondite di certe lavorazioni».
Ha mai licenziato?
«Solo una volta: un caporeparto che guadagnava 2.800 euro netti, era in malattia da sei mesi e però andava a caccia tutte le notti».
Continua ad assumere?
«Quattro persone anche la scorsa settimana. Quaranta nel 2012 e quest’anno altrettante, penso. Finché avrò coraggio… Certo che i nostri governanti ce la stanno mettendo tutta per fartelo passare. Non ho mai chiesto un euro allo Stato. Soltanto una volta ho avviato una pratica per un finanziamento, ma c’erano talmente tanti ostacoli che ho rinunciato».
Chissà quanti giovani in cerca del primo impiego busseranno alla sua porta.
«Decine ogni giorno. A parità di merito, do la precedenza a chi ha più bisogno. L’unico requisito che cerco nei candidati è la passione, la volontà di mettersi in gioco. È così che un pasticciere è diventato il responsabile della logistica e un ex muratore oggi è uno dei dirigenti di prima fascia».
Fa distinzioni di nazionalità?
«No. Quasi un terzo dei miei collaboratori è formato da filippini, peruviani, marocchini, romeni, indiani, pakistani. Non assumo cinesi, lo confesso».
Le copierebbero i brevetti.
«L’ha detto lei».
Ma come fa a battere la concorrenza cinese pagando stipendi più alti?
«Col cervello. Noi non sappiamo fare i cinesi e i cinesi non sanno fare gli italiani. Per qualità e fantasia siamo i primi al mondo. Le griffe si rivolgono a BB perché sanno che la nostra percentuale di rotture è bassissima. Rincorrere i cinesi nel prezzo è un tragico errore».
Ai suoi colleghi che non ce la fanno che consigli darebbe?
«Internazionalizzare con persone che sposino l’impresa. Proporre alla clientela cose che non si trovano in giro per il mondo. Riscoprire le abilità dell’uomo rinascimentale. Soprattutto posticipare l’interesse personale. Ho invece l’impressione che molti imprenditori si siano dati tre soli obiettivi: fare soldi, trasmettere la ricchezza ai propri figli e mantenere i privilegi acquisiti».
Che cosa rappresenta per lei il profitto?
«Una voce di coro».
Che rapporto ha col lusso che l’ha arricchita?
«Ottimo. Non lo demonizzo. Sono uno dei pochi italiani che, alla faccia del redditometro, hanno ancora il coraggio di guidare una Bentley, sia pure di seconda mano. Ho trovato molta più etica nel mondo della moda che in quello delle assicurazioni. Ora che ho un po’ di tempo a disposizione, mi piacerebbe coinvolgere gli stilisti nell’aiuto alle persone in difficoltà. Non posso desiderare niente di più di quanto ho già».