Venire al mondo per morire: il grande “perché” di Rebecca e Lucia

di Monica Mondo
Tratto da Il Sussidiario.net l’8 settembre 2011

Non ce l’hanno fatta Lucia e Rebecca, le gemelline siamesi ricoverate al Sant’Orsola di Bologna, unite dalla nascita per l’addome, con un solo cuore e un solo fegato in comune.

Cuore, fegato, dove da sempre fin dall’antichità l’uomo ha riconosciuto le sedi dello spirito vitale. Non bastavano a tutt’e due, non era possibile, oltreché doloroso, farli pulsare per una sola creatura. La storia così rara e sconcertante ha commosso e fatto discutere il Paese, ed è un bene, che ragione e sentimento siano spronati a domandare, a brancolare nel mistero della vita, a piegarsi davanti al limite, così umanamente inaccettabile, così liberante. Si sono interrogati i migliori chirurghi, i comitati di bioetica, e noi tutti.

Che fare? E soprattutto, siamo in grado di fare? Perché sarebbe stato bello che la scienza ci avesse promesso la salvezza per una delle due bimbe; ed era giusto sperarlo, pregare perché avvenisse, come autorevoli esponenti della Chiesa ci hanno ricordato. La vita prima di tutto, e una madre, un padre non hanno dubbi se salvare un solo figlio in una situazione tragica, o per non prendersi la responsabilità di lasciarli morire entrambi. Non è solo istinto, è intelligenza e amore, a muovere la scelta. E se è vero che ciascuno di noi è insostituibile, ciascuno di noi è unico e irripetibile, la sua sopravvivenza vale ogni lotta, ogni slancio. Eppure, non era possibile. Un intervento chirurgico, su corpicini così smunti e affaticati, avrebbe accresciuto il loro dolore, e avrebbe portato alla morte immediata di una sorellina, e quasi certamente alla morte successiva dell’altra. Così se ne sono andate insieme, dopo che avevano cominciato a guardarsi intono, a reagire, e avevano perfino acquistato un po’ di peso.

Chissà la mamma e il papà, a vederle succhiare dal contagocce di un minibiberon. Che tremori, che tenerezza, che generosità, nell’affidarle al loro destino. Che fiducia, nel dono ricevuto e da ridonare, che coscienza, che quelle figlie non erano una proprietà, un diritto, l’esito di una strategia pianificata. Pochi ricordano che i genitori sapevano prima del parto indotto prematuramente lo stato delle piccoline, ma che hanno tenacemente voluto portare a termine la gravidanza e far vivere quelle bambine ricevute. E sono vissute, fragilmente vive, come qualunque bambino, benché nato sanissimo, al primo alito di vento, al primo abbandono di sua madre. Quanti sono i bambini che ci lasciano presto, troppo presto: negli ospedali, ogni giorno; in paesi lontani, dove riuscire ad afferrare la vita è un traguardo, e ogni giorno una benedizione. Quanti padri e madri si sentono dire: non è possibile, non riusciremo a salvarlo, a salvarla. Che baratro del cuore, o che supplica perché l’assurdo abbia senso e porti benedizione, ci cambi.

Non è peggiore la sorte di Rebecca e Lucia. Che bello, i nomi di due grandi donne, che si danno la mano e tengono unite la tradizione ebraica e cristiana di cui siamo figli; papà e mamma, parlando di loro ai fratellini che speravano di giocarci insieme, di poterle accudire, diranno loro che hanno due angioletti in cielo. Non è una banale via di fuga, è la risposta più dolce e più umana. Su questa risposta al dolore si gioca il significato del nostro essere al mondo. L’alternativa è la rabbia per un fato avverso e sconsiderato, o il cinismo.

Solo lo stupore conosce

La lettera/ L’adorazione eucaristica nella vita di una monaca
Maria Gloria Riva, monaca dell’Adorazione Eucaristica a Pietrarubbia (PU)
Tratto da Avvenire del 6 settembre 2011

Caro direttore,
ogni volta che varco la soglia del nostro coro, grande abbraccio di legno simile a una croce in volo, una croce che ascende verso l’alto già preannuncio possente della risurrezione, ogni qualvolta il pavimento di legno cede scricchiolando sotto il mio passo, assaporo il silenzio di un mondo che attorno a me pullula di vita eppure pare come assopito dentro il suo stesso movimentoso andare. Che luce allora mi invade! Che segreta speranza cela la nostra vita nascosta eppure sollecita tra faccende di casa e grandi imprese, lunghi ascolti dei cuori degli uomini e solitudini improvvise, che segreta speranza quella di fissare lo sguardo nel Santissimo Sacramento. Ogni giorno è per me una pagina di Eliot: La Rocca. Colei che veglia. / La Straniera. / Colei che ha visto cosa è accaduto. / Colei che vede ciò che accadrà. / La Testimone. / Colei che critica. / La Straniera. / La visitata da Dio, e nella quale è innata la verità.

Adorare comincia qui, dentro un incontro col Mistero, dentro la consapevolezza che la vita, quella vera, va oltre gli orizzonti quotidiani, ma si dibatte là più in alto, dove solo chi sta arroccato come sentinella può davvero vedere. La Rocca, la straniera, la visitata da Dio, la luce splendida della verità è per me l’Eucaristia. L’adorazione eucaristica non è una devozione, una pia pratica equivalente alle molte, anche belle e lodevoli, che la Chiesa offre ai suoi fedeli. L’adorazione è la condizione eterna dei beati. Là dove vedremo faccia a faccia Colui che ora contempliamo velato, e non servirà l’ausilio del Sacramento. Là resterà e sarà soltanto l’adorazione.

Aveva visto bene la beata Maria Maddalena dell’Incarnazione che, vissuta nella buriana degli anni successivi alla Rivoluzione Francese, ha additato alla Chiesa l’Eucaristia celebrata e adorata come il luogo verso il quale volgersi e ripartire. Tutto rinascerà da qui, da questo oblò di luce. Adorare è per me purificare ogni giorno lo sguardo dai morsi velenosi di un qualunquismo diffuso, per imparare a guardare la vita nella profondità e nella bellezza delle sue pieghe, anche dolorose. Sì, per me adorare è una scuola quotidiana di bellezza. Oggi, ammalati come siamo un po’ tutti di narcisismo, una preghiera come quella adorante che ti obbliga ad avere come centro Qualcuno che sta fuori di te, sta oltre te, è estremamente educativo.

Mi viene in mente la stanza della Segnatura di Raffaello, la cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento. Raffaello aveva pensato la Chiesa come un’architettura di uomini, tanto gli era già chiaro – senza per forza che arrivasse il Concilio Vaticano II – che la Chiesa di Cristo siamo noi, uomini di carne e di sangue, santi di ieri e di oggi. Eppure, dopo aver realizzato questa Chiesa di uomini disposta a corona attorno alla Santissima Trinità, alla Vergine e agli Apostoli, ha sentito il bisogno profetico di consegnare questa schiera a un centro, a un punto focale che tutto raccogliesse e rilanciasse. Così, davvero profeticamente, Raffaello intinse il suo pennello nel colore della luce e realizzò un altare e sull’altare il Santissimo Sacramento esposto e adorato. Che grandi uomini questi artisti! Eppure così uomini, per chi conosce le loro storie, così tormentati dai miseri progetti quotidiani, essi proprio nella loro arte, cioè nella loro aspirazione alla bellezza hanno saputo dire il Vero e il Bene.

Ecco, per questo adoro ogni giorno, e più volte al giorno, per accordare ogni istante la mia vita a quel Vero e a quel Bene che mi rendono più donna solo nel momento in cui mi aprono allo stupore del Bello. Adorare insegna anche questo: ci si salva dall’ideologico solo quando s’impara a vivere nello stupore. Lo diceva già il grande Gregorio Nazianzeno: i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce.

Ancora su Flores d’Arcais e su chi era Gesù

di Paolo Rodari
Tratto da Palazzo Apostolico, il blog di Paolo Rodari, il 30 agosto 2011

Prima di Paolo Flores d’Arcais e della sua indagine intorno a Gesù (era il Messia o è tutta un’invenzione?), ha scritto in merito non pochi libri Antonio Socci.

In queste ore sono andato a riguardarli. E’ qui che molti critici e scettici intorno alla pretesa contenuta nei Vangeli (era Gesù davvero il figlio di Dio?) possono trovare ampie e documentate risposte.

Recentemente Socci ha pubblicato due lavori in merito da leggere: “Indagine su Gesù” e “La guerra contro Gesù“.

In “La guerra contro Gesù” c’è un capitolo che fa al caso nostro. S’intitola: “Fidarsi dei testimoni oculari?”. Ci si può fidare degli apostoli? Dei Vangeli?

Si domanda Socci: “Perché i critici non esibiscono argomenti schiaccianti (o almeno decenti) per dimostrare la falsità dei resoconti evangelici?”. “In venti secoli questi argomenti schiaccianti non sono mai stati presentati”.

Secondo Socci c’è un presupposto da cui partire: il fatto che gli evangelisti raccontano fatti ai quali hanno partecipato. Nota il flosofo Jean Guitton che i Vangeli si propongono come “testimonianze di fatti accaduti e non come testimonianze di fede” perché, dice Socci, “la fede di quegli stessi testimoni si basa precisamente su quei fatti”.

Il fatto più clamoroso, ovviamente, è la risurrezione di Gesù. Pietro riporta una notizia che corre di bocca in bocca tanto che invita tutti ad andare a vedere la tomba vuota: davvero il corpo di Gesù non era più lì.

Gli evangelisti hanno raccontato fatti a cui hanno partecipato. Scrive Carsten Peter Thiede che “a nessuno studioso dell’antichità potrebbe mai passare per la mente di degradare a inventore di leggende lo storiografo Tacito perché nella pagine da lui stese sui romani in Britannia si rifà ai resoconti di un testimone oculare, il legato Agricola, che era suo suocero”. Ebbene, nel caso dei Vangeli “siamo di fronte a eventi che sono testimoniati da tanti, concordemente, ma i cui testimoni sono stati disposti a dare tutto (i loro beni, i loro affetti e la loro stessa vita, tolta con grandi starzi) in pegno delle loro testimonianze. Non solo. Hanno fatto tutto questo per rendere testimonianza a una storia dove loro, in prima persona, facevano figure ben meschine, talora vergognose e miserabili. Non c’è un solo evento storico, tra quelli ritenuti certi dalla manualistica e dagli storici, che sia stato testimoniato così. Da nessuno, mai”.

Dice Socci che, anche a motivo del prezzo che gli evanglisti hanno dovuto pagare per la testimonianza resa, “qualunque storico che si occupi di una qualsiasi vicenda del passato riconoscerà la massima credibilità a simili testimoni. Invece nel caso di Gesù (e solo nel suo caso) sembra che queste norme di razionalità e correttezza storiografica debbano inspiegabilmente essere rovesciate: non solo non si riconosce il valore eccezionale di quelle testimonianze siglate con il sangue, ma non deve valere neanche il credito normalmente accordato ai testimoni. Insooma si arriva a voler imporre il pregiudizio contrario: che essi mentano”.

«Mio figlio, autistico, mi ha guarita»

di Raffaella Frullone
Tratto da La Bussola Quotidiana il 29 agosto 2011

«Vostro figlio è autistico. Ha già dato tutto quello che poteva dare». Il pugno allo stomaco arriva di Gina Codovilli nel pieno fiorire della sua vita.

40 anni, sposata felicemente con Walter e orgogliosamente mamma di Simone e Gicomo, rimane impietrita di fronte al neuropsichiatra infantile che freddamente esamina il suo terzogenito, Andrea, di appena pochi mesi, e pronuncia una sentenza di morte, “ha già dato tutto”. Per questa madre è l’inizio del baratro. La disperazione e l’angoscia le tolgono il respiro e le offuscano i pensieri e prima ancora di capire cosa sta realmente accadendo al suo bambino, sente su di lei impietoso arrivare un grosso castigo, una punizione terribile e si chiede «Perché? Cosa ho fatto per meritare tutto questo?».

La maggioranza delle persone non ha un’idea precisa di cosa sia l’autismo. E’ così per tutte le patologie gravi, tendiamo ad allontanarle dalla mente, o semplicemente non ce ne occupiamo sperando che non ci riguardino mai. Così a malapena sappiamo che un bimbo autistico fatica a comunicare, non risponde agli stimoli, può arrivare ad essere violento. E se oggi questo concetto astratto e nebuloso è il più diffuso, possiamo immaginare quanto estranea dovesse risultare quella parola a Gina Codovilli nel 1987, per di più in un’epoca in cui le cause dell’autismo venivano rintracciate in un rapporto inadeguato del bambino con la madre, che era detta madre frigorifero.

La sensazione di smarrimento e la totale ignoranza rispetto alla malattia portano Gina a comprare una miriade di libri e a divorare bulimicamente tutto ciò che riguarda l’autismo. Negli anni Ottanta a farla da padrone erano le teorie di Bruno Bettelheim (Vienna, 28 agosto 1903 – Silver Spring, 13 marzo 1990), psicoanalista austriaco di origine ebraica il quale, oltre a colpevolizzare totalmente la madre, basava la terapia su una serie di sedute di psicoanalisi attraverso le quali il bambino si sarebbe dovuto “staccare” dai genitori, l’obiettivo era quello di annullare l’autorità eliminando regole e norme. Gina si rende presto conto che la psicoanalisi, fatta su un bimbo così piccolo, che per giunta non parlava, non avrebbe dato alcun risultato. Se ne rende conto molto prima della morte suicida di Bettelheim, prima che la sua pedofilia venisse alla luuce, prima che le sue teorie venissero finalmente abbandonate. Gina, nonostante le difficoltà e i sensi di colpa, ha subito chiara una cosa: avrebbe fatto di tutto per trovare la terapia giusta per Andrea.

La straordinaria vicenda di questa mamma che non si arrende e di un figlio che da malato da curare diventa “guarigione” per le persone che incontra è raccontata nel libro Il mio principe – soffrire crescere e sorridere con un figlio autistico che Gina Codovilli ha firmato per Itaca lo scorso anno e presentato al Meeting di Rimini 2011. «Dovevo questo libro ad Andrea, lui probabilmente non potrà mai parlare, perciò voglio raccontare la sua storia, raccontare quanto ha dato a tutti noi. E rompere questo muro di silenzio attorno all’autismo, voglio dire ai genitori nella mia stessa situazione che possono farcela».

Il volume è la testimonianza diretta e concreta di una madre che di punto in bianco si trova a lottare con quello che chiama “il terribile mostro” che tiene imprigionato il figlio. Gina racconta la totale incapacità di reagire dei primi tempi, il dolore lancinante, «come quello di un gancio ben piazzato» – scrive, che la lascia più volte accasciata sul pavimento. Un male che la trascina nella disperazione un giorno dopo l’altro fino a quando, inaspettatamente nella sua mente si affaccia una supplica «Signore aiutami», sussurra. Lei, che non aveva mai pregato perché non ne aveva bisogno, stava invocando Dio.

«Ammetto che se non mi fosse successo direttamente, non ci crederei – racconta oggi – Ma fin dalla prima volta, l’aver pronunciato quelle due parole, mi ha dato forza. L’energia sufficiente per affrontare la giornata con la mia famiglia. Non dico che all’improvviso il dolore sia sparito, ma ho scoperto che grazie alla preghiera riuscivo a reagire. Questo mi ha poi portato ad entrare in crisi perché mi sentivo vile, e codarda poiché pregavo solo perché ne avevo bisogno, eppure ho capito che quella era la strada».

Preso atto dei progressi quasi nulli della psicoanalisi, e recuperate un minimo le forze, per Gina inizia la sua grande avventura a fianco di Andrea: la ricerca della guarigione. Un viaggio insieme doloroso e affascinante, ricco di gioie inaspettate ma anche di abissi profondissimi, un viaggio che inizia con una decisione amarissima per Gina, quella di lasciare il suo lavoro da insegnante «Mai una scelta mi è pesata tanto, ma nemmeno per un momento mi sono pentita». Si apre una lunga serie di tentativi: idroterapia, omeopatia, delfinoterapia, musicoterapia, ippoterapia, incontri con persone dotate di poteri, fino a Monsignor Milingo (allora ancora celibe, allora ancora nella Chiesa, ma già border line) e poi ancora terapie comunicative, del linguaggio…

Il libro racconta Andrea attraverso l’approccio del bimbo con ognuna di queste terapie, racconta i suoi progressi e i suoi momenti di difficoltà, ma soprattutto è la storia di una guarigione: quella di sua madre.

Impietrita e ghiacciata nello studio del neuropsichiatra, piegata dal dolore negli angoli più bui della sua casa, Gina ha lottato con tutte le sue forze perché Andrea guarisse. Nel libro ricorda la tensione nell’attraversare piazze affollate, l’imbarazzo di quando Andrea come se nulla fosse vedendo una lattina di Coca cola in mano a sconosciuti se ne appropriasse per berla, il senso di inadeguatezza quando aveva reazioni bizzarre, ma racconta anche di come ha sopportato con coraggio gli sguardi, a tratti severi a tratti compassionevoli delle altri mamme al parco giochi, a scuola, in piscina, ha spronato i suoi figli maggiori a stare con Andrea pur leggendo nei loro occhi impotenza. Ripercorre i momenti che l’hanno portata a modellare la sua vita sulle esigenze di Andrea, dimenticando sé stessa e mettendosi a servizio del suo “principe”, parla di come ha messo in discussione la propria fede per poi finalmente capire che mentre lei si affannava senza sosta per cercare una guarigione miracolosa, la guarigione miracolosa era già in atto.

Andrea ha incontrato quelli che la sua mamma chiama “angeli” fin dai primi passi che ha mosso fuori casa, Lorenzo, il direttore della scuola per l’infanzia, i compagni di scuola che fanno a gara per stare accanto a lui, Anna, la maestra di sostegno, Fabio, il musicoterapeuta, la comunità del Monte Tauro, Barbara della delfinoterapia e tanti tanti altri. Dove Gina cercava una medicina per Andrea, Andrea trovava amore ed accoglienza e questa è stata la vera terapia miracolosa.

Oggi Andrea è una ragazzo di 23 anni, ha completato tutto il ciclo scolastico frequentando l’istituto alberghiero di Rimini, è zio di una nipotina bellissima, e il prossimo autunno probabilmente metterà a a frutto le sue capacità professionali aiutando la mensa della Comunità del Monte Tauro.

Gina sa che ci sarà ancora da combattere ma il futuro non la attanaglia più come in passato, perchè ha conosciuto la speranza. “Sono consapevole che tante saranno ancora le sfide da affrontare. Di sicuro mai e poi mai mi esimerò dal tentare tutto ciò che potrebbe risvegliare dal fatale incantesimo Andrea… il mio principe. Ma vorrei dire ai genitori dei bambini affetti da autismo che, passato il dolore inziale, si può tornare ad avere una vita serena, godere delle relazioni. Inoltre adesso fortunatamente, archiviato Bettelheim, i bibmi autistici possono contare su terapie ottime che li possono portare ad avere un buon grado di autonomia. Per conto mio Andrea è già guarito, anzi ha guarito tutti noi. Questi bambini non hanno qualcosa in meno degli altri, anzi hanno e danno qualcosa di più».

La storia di Giulia: quando la vita è più forte della malattia

di Luca Marcolivio
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 27 agosto 2011

Rimini – Il suo nome è Giulia, ha 8 anni ed è luce degli occhi di mamma e papà. Eppure, poco prima della sua nascita, a causa di una diagnosi di microcefalia e polimicrogiria, i medici avevano consigliato ai suoi genitori di non farla nascere.

La storia di Giulia è stata raccontata mercoledì al Meeting di Rimini, dai suoi genitori, Riccardo Ribera d’Alcalà e Mariangela Fontanini, e da Bernard Dan, il neurologo che l’ha in cura. Sono intervenuti all’incontro i giornalisti Davide Perillo, direttore di Tracce, in qualità di moderatore, e Fabio Cavallari, collaboratore di Tempi.

Mariangela e Riccardo hanno spiegato come la diagnosi della malattia sul feto di Giulia, non li abbia scoraggiati nemmeno per un minuto dal far nascere la loro terzogenita. La famiglia Ribera d’Alcalà, che da più di dieci anni risiede a Bruxelles, essendo entrambi i coniugi funzionari del Parlamento Europeo, ha rifiutato di vedere nella malattia della figlia una disgrazia, accogliendola – per usare le parole del filosofo Emmanuel Mounier – come “la visita di Qualcuno di molto grande”.

Verso la fine del 2002, quando Mariangela è all’ottavo mese di gravidanza, la risonanza magnetica dà il terribile responso sulla bimba. Il medico emette la sua fredda sentenza: nella peggiore delle ipotesi Giulia avrà un’esistenza da “vegetale”, nella peggiore, morirà poco dopo la nascita.

Il consiglio è quello di abortirla di lì a tre giorni ma Mariangela e Riccardo, ascoltato tale responso, si guardano negli occhi e non hanno dubbi: Giulia nascerà e vivrà finché Dio vorrà. “Ci siamo chiesti: perché proprio a noi e non ad altri? – ha raccontato Mariangela -. Ma alla fine questa esperienza è diventata una grazia e un’occasione di crescita per noi”.

Il parto avviene normalmente ma, poco dopo la nascita, Giulia inizia a manifestare i propri problemi: non si muove e non parla. Lo stesso neurologo che aveva consigliato l’aborto alla madre, suggerisce l’accompagnamento di uno psicologo.

Alla fine il coraggio di Mariangela e Riccardo sarà ripagato: il loro caso incontrerà la solidarietà di molti amici vecchi e nuovi e della competenza ed umanità di due medici specialisti: la dottoressa Marilena Pedrinazzi, terapista della riabilitazione a Milano, e il professor Bernard Dan, neuropsichiatra, direttore della Clinica universitaria “Regina Fabiola” di Bruxelles e presidente dell’Accademia europea di disabilità infantile.

“Grazie anche all’aiuto dei nostri medici, Giulia ha imparato a strisciare, gattonare, fino ad arrivare a reggersi sulle ginocchia – ha raccontato mamma Mariangela -. Comunica in modo efficace in tre lingue ed ha anche imparato a sciare…”.

“Abbiamo una certezza – ha proseguito la signora Fontanini -. Giulia non è nostra, ci è stata affidata ed è un dono meraviglioso per noi genitori, per le sue sorelle maggiori e per chiunque la conosca. Mi viene in mente una frase di San Paolo: Dio ha scelto i deboli per confondere i forti (1Cor 1, 26-34)”.

Parlando da medico e neurologo, il professor Dan – che si professa non credente – rifiuta l’utilizzo di espressioni come vegetale riferito ai pazienti o di stato vegetativo. “Non possiamo stabilire tutto partendo dal patrimonio genetico – ha affermato lo specialista -. Sullo sviluppo influiscono le cellule ma anche l’esperienza e il caso. Con riferimento a Giulia preferisco parlare di sfida piuttosto che di problema”.

Per papà Riccardo, quello di Giulia è un “disegno buono del Signore” ed è insensato pensare “alla felicità soltanto come sinonimo di salute e perfezione”.

Il signor Ribera d’Alcalà ha poi raccontato il proprio commovente incontro con Giovanni Paolo II, avvenuto nel 2003, durante una visita ufficiale di una delegazione del Parlamento Europeo in Vaticano. “Saputa la nostra storia, il Santo Padre volle ricevermi – ha detto Riccardo – ci esortò a rimanere fiduciosi e a pregare. Quando poi Giulia nacque, ci arrivò il suo messaggio di felicitazioni”.

Fabio Cavallari ha raccontato la storia di Giulia nel suo volume Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia (Lindau). “Giulia non è un mito né voglio trasformare i suoi genitori e i volontari in eroi – ha affermato il giornalista e scrittore -. Questa storia dimostra solo che l’uomo è fatto per la vita e che la morte va contro il desiderio di tutti gli uomini, credenti o meno”.

Cavallari ha inoltre sottolineato che non è stato il sistema sanitario belga (peraltro tra i più efficienti ed avanzati d’Europa) a permettere a Giulia di sopravvivere ma l’umanità dei suoi genitori e dei medici curanti. I parametri della dignità, secondo il giornalista e scrittore, sono mistificati da un “buonismo che vorrebbe far fuori quelli che non rispondono a certi standard psico-fisici perché tanto non sarebbero mai felici…”.

A conclusione della testimonianza Davide Perillo ha commentato: “La realtà è testarda ed è lì a chiederci di essere leali con il nostro cuore. E più si è leali e più si fa esperienza della certezza”.

Da baby prostituta a consacrata, grazie ad un gesto di carità

di Raffaella Frullone
Tratto da La Bussola Quotidiana il 17 agosto 2011

Che futuro può avere una quattordicenne cresciuta in una famiglia poverissima della periferia di Bangkok, barattata dalla famiglia per mille dollari e condotta nella capitale tailandese per prostituirsi?

Come potrà sopravvivere nella giungla della lussuria e nello squallore di una città di 8 milioni di abitanti, parlando solo il dialetto, umiliata nel corpo e nell’anima, ridotta schiava e completamente sola? Potrà mai sperare di avere una vita felice?

Lek aveva appena compiuto 14 anni quando alla porta di casa bussano “protettrici”. Le donne, dopo averla vista, offrono mille dollari per portarla a Bangkok con la promessa di un lavoro sicuro. Mille dollari sono una cifra esorbitante per un padre e una madre senza lavoro, che vivono in una baracca senza acqua potabile e senza sapere cosa riusciranno a dar da mangiare ai propri figli, e la promessa di un lavoro nella capitale è troppo allettante per un’adolescente che fino ad allora non poteva permettersi nemmeno di sognare.

Ma le “protettrici” non proteggevano proprio nessuno. Scrutavano corpi, osservavano movenze per trasformerle in merce adatta a soddisfare le voglie perverse dei turisti occidentali e Lek, poco più che bambina, lo capisce solo una volta arrivata nella capitale, solo una volta scaraventata in uno squallido bordello.

Ingannata col miraggio di un lavoro, si ritrova costretta a alla prostituzione insieme ad altre migliaia di ragazzine. Secondo una ricerca dell’istituto del sistema sanitario tailandese, oggi sono circa 50 mila le prostitute minorenni nella capitale, che lavorano accanto a quelle “adulte”, ovvero che hanno superato il diciottesimo anno, che sono circa 100 mila.

Nonostante sia senza soldi, senza la libertà di muoversi, senza documenti, e parli solo il dialetto, Lek non si rassegna e cerca di contattare sua sorella, che si trovava nel centro di formazione professionale cattolico «Baan Marina», diretto dalle Missionarie del Sacro cuore di Gesù e Maria. La congregazione, nata all’inizio del secolo scorso in Spagna, da 45 anni in Thailandia accoglie le ragazze provenienti dai quartieri poveri o dalla strada, aiutandole a recuperare la dignita’ e aiutandole a costruire un futuro.

Lek sa che l’unico modo per uscire dalla schiavitù è quello di “saldare il debito”, ossia dare ai suoi sfruttatori la stessa cifra che gli stessi avevano “pagato” ai suoi genitori: un’impresa impossibile considerato che si trova costretta a consegnare quasi l’intero importo del suo “compenso”. Ecco che allra decide di rivolgersi proprio alle suore missionarie, grazie all’aiuto della sorella.

Non senza sforzi, viste le limitate disponibilità economiche dell’istituto, le religiose riescono a raccogliere la cifra necessaria per riscattare la libertà di Lek ed estinguere il debito. Un gesto di grande generosità che avrebbe dato, anni più tardi, frutti inimmaginabili…

Entusiasta e profondamente grata per aver ritrovato una prospettiva di vita, Lek trascorre sei anni nell’istituto. Insieme ad altre cento ragazze studia ed impara il lavoro della sarta che – sperava – le avrebbe permesso di trovare lavoro in uno dei tanti laboratori della capitale. Intanto, giorno dopo giorno, sente crescere la fede in Cristo, che aveva mosso le sorelle ad aiutarla in un momento di estremo bisogno.

Piano piano abbandona il buddismo e decide di farsi battezzare, poi di ricevere la Comunione e di confermarsi nella Cresima, sacramenti accompagnati da un crescente impegno nell’istituto come collaboratrice delle suore e catechista alle ragazze più giovani giunte a Bangkok dopo di lei e strappate dalla strada.

La speranza ritrovata di «Baan Marina» e la fede tuttavia non spengono il desiderio di infinito nel cuore della giovane che deciderà di consacrarsi e dedicare la sua vita al Signore.

Oggi da quel quattordicesimo compleanno trascorso sulle strade di Bangkok, sono trascorsi 20 anni. Lek vive la sua vocazione nel silenzio mentre le Missionarie del Sacro Cuore di Gesù e Maria, pur proteggendo la sua pricavy, raccontano la sua straordinaria vicenda: “Lek oggi è serena, non serba rancore nei confronti della sua famiglia perché sa che anche loro sono stati ingannati – fanno sapere le suore – vorremmo che la sua storia possa dare speranza a tutte le ragazze che l’hanno perduta, specialmente alle giovanissime prostitute di Bangkok che si sentono perse nel buio della loro schiavitù”. Anche delle loro vite, il Signore può fare miracoli.