La morte di uno stagista  e il desiderio che ci consuma

La morte di uno stagista e il desiderio che ci consuma

Londra, 3 giorni di lavoro senza riposo

La morte per superlavoro di uno stagista 21enne impiegato alla Merryll Linch-Bank of America ha aperto un drammatico squarcio sui modelli organizzativi delle banche d’affari e delle finanziarie nella City londinese. In realtà, però, suggerisce pure una riflessione più ampia rispetto alla semplice chiave economico-sociale, chiamando in causa il significato profondo che ognuno di noi attribuisce alla sua attività.

Le testimonianze sul caso di Moritz Erhardt sembrano concordi: dopo tre giorni di attività quasi ininterrotta – andando avanti a caffè e con appena 3 ore di sonno a notte – il suo cuore, forse già “indebolito” da una preesistente epilessia, non avrebbe retto. Ma, a chi si stupisce di un simile comportamento, ecco i colleghi del ragazzo tedesco raccontare come nella City la pratica delle extreme hours, cioè “fare notte” in ufficio, sia prassi normale. Anzi, lo si teorizza come modello culturale. Più tempo si passa al lavoro sacrificandovi vita personale e familiare, più si viene ritenuti fedeli, impegnati e concentrati nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, al di là di quanto poi effettivamente queste pratiche paghino in termini di produttività e risultati. E per coloro che sono all’inizio o devono conquistarsi un “posto fisso”, come gli stagisti, restare fino a notte incollati alla scrivania è una sorta di «rito di passaggio, che mostra fino a che punto un contrattista sia disposto a spingersi oltre ogni limite ragionevole nel lavoro», ha spiegato Andre Spicer, docente di finanza della Cass Business School di Londra.

Si potrebbe discutere allora di sfruttamento dei giovani più o meno precari: oggi estenuati e stroncati nella ricerca di un lavoro, come nel ballo i protagonisti di “Non si uccidono così anche i cavalli?” Oppure si potrebbe puntare il dito sul cinismo tipico delle banche d’affari, di un mondo capace di spostare miliardi in pochi secondi da un derivato sul grano a uno sul petrolio – e pazienza se questo provocherà un crollo dei prezzi e una carestia da qualche altra parte del pianeta. Questioni reali, ma in fondo “facili” da trattare, perché sempre “esterne” rispetto a noi stessi.

E invece, forse, varrebbe la pena che la morte di Moritz – moderno Stakanov sacrificatosi sull’altare delle magnifiche sorti e progressive del libero mercato – ci interrogasse su ciò che cerchiamo veramente con e nel lavoro. In una parola, qualedesiderio profondo ci muove nella vita e cosa siamo disposti a sacrificarvi per esaudirlo. Paradossalmente è stato assai più semplice, nell’Occidente del secolo scorso, combattere contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di quanto non lo sia oggi, in molti casi, contrastare la nostra stessa ambizione. Siamo passati, quasi senza accorgercene, dal manifestare nelle piazze per avere “Otto ore per lavorare, otto ore per dormire e otto ore per vivere”, a consegnarci a una moderna forma di schiavitù, più subdola di quella imposta un tempo con catene e rapporti di forza, perché “liberamente scelta”. Spesso a muoverci è la ricerca del denaro o del potere. Altre volte una sete inesauribile di successo, alla ricerca di una continua affermazione di sé, senza la quale ci si percepirebbe inadeguati.

Si dice – e a ragione – che il lavoro crei identità. Che ognuno di noi, con la propria attività, partecipi in qualche modo alla creazione divina o, per chi non è credente, comunque alla trasformazione di questo mondo. E che perciò stesso siamo portati a impegnarci tanto nel nostro lavoro, assai più di quanto non sia “necessario” per vivere. L’uomo “artigiano” attraverso il lavoro imprime la propria piccola impronta su questa Terra e come un artista si identifica con la sua opera. Ma triste l’uomo che pensa di dover essere solo operaio, avvocato o manager della finanza, senza essere più – anche o soprattutto – padre, madre, coniuge, figlio, amico, volontario, cittadino, persona… Con tutto il tempo necessario per esserlo davvero.

Francesco Riccardi da Avvenire.it
Utero in affitto,  regole affidate al caos

Utero in affitto, regole affidate al caos

Babele Legislativa

La diffusione della maternità in affitto sta diventando un problema a livello internazionale più che una soluzione ai problemi di infertilità. Dalle organizzazioni non governative impegnate nella promozione dei diritti umani, alle agenzie e alle istituzioni internazionali, il mondo sta prendendo lentamente coscienza delle gravi problematiche create da questo tipo di percorso che, per sua natura, tende a superare le frontiere fra Stati. Il Parlamento Europeo, per esempio, nella risoluzione del 5 aprile del 2011 sulle priorità e sulla definizione di un nuovo quadro politico dell’Ue in materia di lotta alla violenza contro le donne, si è pronunciato contro la maternità in affitto senza se e senza ma, e testualmente:
20. chiede agli Stati membri di riconoscere il grave problema della surrogazione di maternità, che costituisce uno sfruttamento del corpo e degli organi riproduttivi femminili; 
21. rileva che le donne e i bambini sono soggetti alle medesime forme di sfruttamento e possono essere considerati merci sul mercato internazionale della riproduzione, e che i nuovi regimi riproduttivi, come la surrogazione di maternità, incrementano la tratta di donne e bambini nonché le adozioni illegali transnazionali.
Ma il ricorso alla gestazione conto terzi a livello globale sta aumentando, anche se non è possibile conoscerne con esattezza le dimensioni, e neppure il numero delle cliniche o agenzie coinvolte: disponiamo solamente di stime indirette. Per esempio un progetto di ricerca sull’argomento della Aberdeen University ha coinvolto  cinque agenzie specializzate in maternità in affitto a livello internazionale, con sede negli Usa, India e Gran Bretagna, il cui volume di attività dal 2006 al 2010  è aumentato complessivamente  del 1000.0 %.
Oltre alla drammatica situazione delle madri surrogate è necessario tenere presente quella dei bambini nati: troppo spesso si pone il problema di stabilire quali siano i genitori legali, e quale la cittadinanza. Di uteri in affitto, infatti, i giornali parlano soprattutto in quei casi – purtroppo non rari – in cui i neonati restano invischiati in un limbo normativo che li rende apolidi e magari anche orfani, pur potendo “vantare”, teoricamente, fino a sei genitori variamente combinati (committenti, surrogati, genetici).
A normare la gravidanza conto terzi sono leggi e regolamenti nazionali diversissimi fra loro, che riguardano sia direttamente il fatto in sé – la maternità in affitto – che le questioni della filiazione e della cittadinanza.
Dal punto di vista normativo possiamo distinguere stati che proibiscono la maternità in affitto, stati in cui è sostanzialmente non regolata, stati che la consentono esplicitamente e la regolano, stati con un approccio permissivo e che ammettono esplicitamente il pagamento alle donne. Di seguito un prospetto schematico della situazione, aggiornato al marzo del 2012, tratto dal rapporto preliminare sulla maternità surrogata a cura del Permanent Bureau della Hague Conference on Private International Law.

Stati che proibiscono l’utero in affitto.
Francia, Germania, Italia, Messico (Queretaro), Svezia, Svizzera, alcuni stati degli Usa, Cina (continentale, esclusa Hong Kong). In Austria e Norvegia è proibita la cessione di ovociti, e il divieto di maternità surrogata è una conseguenza, quando l’ovocita non appartiene alla donna che mette a disposizione il proprio utero. In questi paesi non valgono quindi gli accordi di maternità surrogata stipulati altrove, e solitamente la madre legale del bambino, è la donna che lo ha partorito.
Stati in cui la maternità surrogata è sostanzialmente non regolata. 
Sono quelli in cui la legge non prevede un divieto esplicito, e quindi la madre surrogata non può essere obbligata a rispettare il contratto, cioè a cedere il neonato. Spesso sono proibiti, e puniti penalmente, gli accordi che prevedono espressamente pagamenti, mentre sono incoraggiate le maternità in affitto cosiddette “altruistiche”, cioè in cui sono previste cifre “ragionevoli” per le spese sostenute dalle donne. Si tratta di Argentina, Australia (nel Nord), Belgio, Brasile (non c’è una legge ma esistono linee guida per le cliniche), Canada, Repubblica Ceca, Irlanda, Giappone (la Società Giapponese di Ostetricia e Ginecologia ha adottato linee guida nel 2003 che vieta ai medici di essere coinvolti nelle maternità surrogate, ma non c’è una norma che la proibisca), Messico (Messico City), Olanda, Venezuela, alcuni stati Usa. Generalmente in questi stati la giurisprudenza tende a riconoscere come madre legale del bambino la donna che gli è geneticamente legata.
Stati in cui è espressamente permessa e regolata.
Si dividono in due gruppi: un primo in cui si segue un processo di approvazione del contratto di surroga prima che la donna resti incinta. Un organismo apposito verifica il rispetto dei requisiti previsti dalla legge. Solitamente è vietato un pagamento esplicito, ma sono consentite elargizioni di somme per spese “ragionevoli” sostenute durante la gravidanza, spesso indefinite. In questi casi la madre surrogata è obbligata a rispettare il contratto, che sostanzialmente passa dalle parti contraenti allo stato, che ne punisce la violazione. I paesi sono: Australia (Victoria, Western Australia e, per prassi piuttosto che per legge, Australia Capital Territory), Grecia, Israele (è previsto un compenso mensile per “dolore e sofferenza” oltre al rimborso spese, ma in certi casi il ripensamento è consentito), Sud Africa (se la madre surrogata è anche quella genetica ha due mesi di tempo per ripensarci), e, parzialmente, la Nuova Zelanda. Nel secondo gruppo di stati le condizioni dell’accordo sono verificate retrospettivamente, e dopo la nascita del bambino si trasferisce la responsabilità legale dei genitori dalla surrogata (e il partner) ai committenti. In questi casi la legge non obbliga all’adempimento del contratto, e la madre surrogata non può essere obbligata a rinunciare al bambino. Parliamo di: Australia (Queensland, New South Wales, South Australia), Canada (Alberta, British Columbia), Cina (Hong Kong SAR), Gran Bretagna (v. articolo del 10 agosto).
Stati con un approccio permissivo e che consentono pagamento esplicito.
L’accesso ai contratti di gestazione conto terzi è consentito anche a coppie che non risiedono in questi stati, alle quali comunque sono spesso richiesti altri requisiti specifici, diversi da paese a paese. Dopo la stipula del contratto di solito sono previste procedure che definiscono genitori legali del neonato uno o entrambe i committenti. La madre surrogata può avere o non avere l’obbligo di cedere il bambino agli aspiranti genitori, a seconda dei paesi. Si tratta di: Georgia, India, Russia, Tailandia, Uganda, Ukraina, e 18 stati negli Usa (con varie legislazioni). Sono state segnalate agenzie con madri surrogate da Armenia e Moldova. Sono questi gli stati “hubs”, centri di riferimento dove arrivano da tutto il mondo coppie in cerca di uteri in affitto.

Assuntina Morresi da Avvenire.it
Oltraggio alla Cattedrale

Oltraggio alla Cattedrale

Avv. Giovanni Amato da www.culturacattolica.it 

Non è ancora stata definitivamente approvata la proposta di legge contro l’omofobia che già imperversa l’arroganza intollerante dell’ideologia omosessualista. Ne è un ottimo esempio quanto accaduto a Palermo. Il trecentottantanovesimo Festino di Santa Rosalia, quest’anno, si è concluso con un affronto dissacrante alla Cattedrale del capoluogo siciliano, e un duro botta e risposta tra la Curia e l’amministrazione comunale. Nel corso della sfilata del Festino, infatti, sono stati proiettati sulla facciata della Cattedrale metropolitana della Santa Vergine Maria Assunta diverse immagini, alcune delle quali mostravano il logo del Gay Pride, che proprio a Palermo ha avuto il suo culmine nazionale nei giorni scorsi.
Dure sono state le parole del Segretario particolare di Sua Eminenza il Cardinal Romeo: «Vergogna! Stiamo toccando il fondo! L’ideologia omosessualista proiettata sul nobile portico meridionale della Cattedrale di Palermo in occasione del Festino della Patrona Rosalia! I simboli del Gay Pride e delle unioni omosessuali accostati ad un neonato». La doverosa reprimenda del Segretario, don Fabrizio Moscato, si è rivolta anche «al carro fatto passare a Porta Felice da un cancello con motivi orgiastici», che ha fatto chiedere allo stesso prelato: «Ma chi può convincermi che è tutto normale? Ma chi può avere argomenti che difendano un vero e proprio insulto alla nobiltà della fede che la Santuzza ed anche la Cattedrale rappresenta? Chi può dirmi che non si tratti di sudicia provocazione? Questo è il futuro visto con lo sguardo dei bambini? No! Questa è strumentalizzazione dei bambini! Questo è un futuro IMPOSTO ai bambini da minoranze che hanno uno sguardo falso e deviato. L’unica paura è per i più piccoli che ci guardano».
Più sconcia del carro allegorico è la replica del Comune affidata a una nota congiunta del sindaco Leoluca Orlando e dell’assessore alla Cultura Francesco Giambrone: «Lo spettacolo di ieri sera è stato nel suo complesso un modo per narrare la città, una festa per raccontarne le tante parti, rappresentare i tanti tasselli del mosaico che la compongono. Una festa che è stata lo specchio di una città fatta di tante ricchezze, diversità e anime che convivono pacificamente». La coppia Orlando e Giambrone ha poi tenuto a precisare che davanti alla Cattedrale metropolitana, in realtà, si è data lettura per «trenta minuti di testi musicali e poetici che, tutti insieme, esortavano verso l’amore e in particolare verso l’amore e l’attenzione per il prossimo, accompagnati da circa seimila immagini». Secondo i due amministratori si è trattato di «concetti semplici, e semplicemente si è scelto di accompagnarli con immagini che narrano la città acriticamente, con ammirazione verso la bellezza data dalla diversità e dal molteplice, tutti in un unico corpus d’immagini da cui non è giusto né legittimo estrapolarne una e una sola».
La “vergogna” denunciata da don Fabrizio Moscato appare in tutta le sua solare evidenza. Dove, invece, sbaglia il Segretario del Cardinale è nel ritenere che si sia toccato il fondo. Purtroppo, temo che il bello debba ancora venire. E ce ne accorgeremo presto nella malaugurata ipotesi in cui dovesse passare la proposta di legge contro l’omofobia.
Quella palermitana resta, comunque, una salutare lezione per tutti quei Vescovi dialoganti che amano blandire le associazioni gay, per personale convinzione o per spiccio opportunismo. Eppure lo stesso San Paolo con il suo «Nolite locum dare diabolo», aveva già ammonito i cristiani a non scendere a compromessi con il demonio. Anche perché con lui si perde sempre.

Faremo la fine di Bisanzio, caduta perché «la fede non era più il principio motore della vita»?

Faremo la fine di Bisanzio, caduta perché «la fede non era più il principio motore della vita»?

di Vladimir Solov’ev da www.tempi.it

I bizantini «non vollero capire che la superiorità del regno cristiano esiste solo nella misura in cui si amministra secondo lo spirito di Cristo». La fine di Costantinopoli secondo Vladimir Solov’ev 

jean-chartier-assedio-costantinopoliProponiamo uno stralcio di un articolo di Vladimir Solov’ev pubblicato dall’Osservatore Romano. Il testo, scritto dal filosofo russo nel 1896 per la rivista Vestnik Evropy, è contenuto nella versione integrale nell’ultimo numero della rivista La Nuova Europa (3, 2013).

La Roma pagana cadde perché la sua idea di Stato assoluto divinizzato era inconciliabile con la verità rivelatasi nel cristianesimo, secondo la quale il potere supremo dello Stato è solamente una delega del potere autenticamente assoluto, divino-umano, di Cristo. La seconda Roma, Bisanzio, cadde perché, pur avendo accolto in teoria l’idea del regno cristiano, di fatto lo rifiutò, si fossilizzò nella costante e sistematica contraddizione tra le sue leggi, la sua amministrazione e le esigenze di un principio morale superiore. L’antica Roma divinizzò se stessa e cadde. Bisanzio, pur essendosi sottomessa nelle idee al principio superiore, si ritenne salvata per il fatto di aver rivestito la propria vita pagana con un manto esteriore di dogmi e ritualità cristiane, e cadde anch’essa. Questa caduta diede un forte impulso alla coscienza storica di un popolo che, assieme al battesimo, aveva ricevuto dai greci anche il concetto di regno cristiano. Nella coscienza nazionale russa, così come si è espressa nel pensiero e negli scritti dei nostri uomini di cultura, dopo la caduta di Costantinopoli sorse la ferma convinzione che il ruolo del regno cristiano fosse passato ormai alla Russia, che essa fosse la terza e ultima Roma.

Ai nostri avi era lecito fermarsi a questa idea nella sua forma iniziale di sentimento o presentimento inconscio. A noi, tuttavia, si richiede di verificarla attraverso il pensiero logico e l’esperienza, e conseguentemente di innalzarla sul piano della coscienza razionale oppure di rifiutarla come un sogno infantile e una pretesa infondata

Se il tratto comune della vecchia e della nuova Roma consiste nel fatto che entrambe caddero, è di estrema importanza per noi sapere perché caddero e, quindi, cosa l’ultima Roma deve evitare per non subire la stessa sorte.

Se si trattasse solo della prima Roma, indagare i motivi della sua caduta non sarebbe così difficile. Roma cadde perché il suo principio fondante era falso e non poté reggere all’impatto con la verità suprema. Ma che dire della Bisanzio ortodossa? Il suo principio fondante era vero e il suo scontro con i turchi musulmani non fu lo scontro con la verità suprema. O forse Bisanzio crollò soltanto a causa della forza materiale? Ma un’ipotesi del genere, a parte che è inammissibile dal punto di vista cristiano, è altresì contraria alla ragione e all’esperienza storica, che abbondano di prove evidenti secondo cui la forza materiale da sola è impotente. Non fu per la superiore forza materiale che gli antenati classici dei greci bizantini distrussero i regni d’Oriente, e non fu per la superiorità quantitativa che le armate d’Aragona e Castiglia respinsero definitivamente la presenza musulmana in Occidente, proprio nel momento in cui questa poneva fine all’Impero d’Oriente.

ivan-kramskoy-vladimir-solovievCi fu una causa interiore, spirituale nella caduta di Bisanzio, e dato che non consisteva in un falso oggetto di fede, giacché ciò in cui credevano i bizantini era vero, significa che la causa della loro rovina va individuata nel carattere falso della loro fede in quanto tale, ossia nel loro falso atteggiamento verso il cristianesimo: essi interpretavano e applicavano un’idea vera in modo sbagliato. La fede per loro era solo un oggetto di riconoscimento intellettuale e di venerazione ritualistica, ma non era il principio motore della vita. Orgogliosi della loro retta fede e della loro pietà, non vollero capire la semplice ed evidente verità che la retta fede e la pietà autentiche esigono che noi conformiamo in qualche modo la nostra vita a ciò in cui crediamo e che veneriamo; non vollero capire che l’autentica superiorità del regno cristiano rispetto agli altri esiste solo nella misura in cui questo regno si edifica e si amministra secondo lo spirito di Cristo.

È chiaro che riconoscere in modo sincero e onesto che confessare la verità suprema esige determinati cambiamenti nella vita, ancora non vuol dire aver realizzato tali cambiamenti; ma in ogni caso, questo riconoscimento in sé spinge a fare degli sforzi nella giusta direzione, induce a fare qualcosa per avvicinarsi allo scopo supremo e, pur senza produrre immediatamente la perfezione, costituisce una molla interiore verso il perfezionamento. A Bisanzio, invece, si negavano appunto le pretese stesse del cristianesimo sulla vita, non si poneva alcun compito superiore alla società e all’attività di governo.

L’imperfezione è la nostra sorte comune, tuttavia Bisanzio non cadde certo perché era imperfetta ma perché non voleva tendere alla perfezione. Questa gente, talvolta, si pentiva dei propri peccati personali, ma si dimenticò totalmente del proprio peccato “sociale”, e attribuì la caduta del regno solo alle colpe di alcune persone. (…) I regni, in quanto entità collettive, cadono solo a causa di peccati collettivi (del popolo, dello Stato) e si salvano solo correggendo l’ordinamento sociale, o almeno cercando di avvicinarlo all’ordine morale. Se tutto il problema consistesse nella rettitudine personale a prescindere dalla correzione sociale, sicuramente, nel regno bizantino di uomini santi non ce n’erano meno che altrove, e allora perché questo regno sarebbe caduto? Secondo la mentalità bizantina, se un qualche signore non angariava i suoi servi e li nutriva bene, non gli si poteva chiedere nulla di più nei confronti della schiavitù; e né a lui né al suo padre spirituale, né allo stesso autocrate dei «romei» sarebbe passato per la testa anche il più elementare pensiero che le condizioni decenti dei servi di un padrone buono non rendono migliori le condizioni dei servi di un padrone cattivo, mentre abolire la schiavitù a livello legislativo avrebbe immediatamente alleviato le condizioni di tutti, e al tempo stesso avrebbe avvicinato il regno terreno al regno di Dio, dove non ci sono servi né padroni.

I singoli fenomeni di crudeltà e di depravazione, per quanto fossero numerosi e comuni, ancora non costituivano in sé un motivo sufficiente per la caduta definitiva di Bisanzio. Ma noi comprenderemo appieno questa caduta se considereremo il fatto che nel corso di tutta la storia propriamente bizantina (cioè dal momento in cui si verificò il netto allontanamento del cristianesimo orientale da quello occidentale, che lo si faccia risalire all’XI o al IX secolo), non si può indicare una sola azione pubblica, una sola misura generale del governo che avesse qualche interesse a migliorare i rapporti sociali in senso morale, a elevare un po’ la situazione giuridica in conformità alle esigenze della giustizia assoluta, o a riformare la vita collettiva del regno al suo interno o nei rapporti esterni; in una parola: non troveremo niente che possa mostrare almeno una labile traccia dello spirito supremo che muove la storia universale. Magari i misfatti e la dissolutezza di alcuni venivano compensati dalle opere buone di altri e dalle preghiere dei santi monaci, ma niente poteva compensare o espiare la totale e generale indifferenza per “l’opera storica del bene”, per l’adempimento della volontà di Dio nella vita collettiva degli uomini.

Gli eredi diretti dei cesari romani dimenticarono di essere al tempo stesso anche delegati del potere supremo di Cristo. Invece di innalzare lo Stato pagano che avevano ereditato alle altezze del regno cristiano, essi al contrario abbassarono il regno cristiano al livello di un ordinamento statale pagano bastante a se stesso. Essi preferirono all’autocrazia di una coscienza conformata alla volontà divina, l’autocrazia del proprio arbitrio umano, che costituiva la somma di tutti gli arbitri individuali concentrati in un’unica persona. Essi chiamavano se stessi autocrati ma in realtà erano come gli imperatori pagani, ossia i mandatari a vita, o magari a tempo determinato, delle masse popolari e dell’esercito. Essendo irrimediabilmente incapace di assolvere la sua alta missione di regno cristiano, Bisanzio perdette la ragione interiore del proprio esistere. Infatti, le mansioni correnti e abituali della gestione pubblica potevano essere svolte anche meglio dall’amministrazione del sultano turco, il quale, libero da contraddizioni interiori, era più onesto e più forte, e per giunta non si immischiava nella sfera religiosa del cristianesimo, non creava dogmi ambigui e perniciose eresie, e neppure difendeva l’ortodossia massacrando in massa gli eretici e bruciando solennemente sul rogo gli eresiarchi.

Dopo molte dilazioni e una lunga lotta contro la dissoluzione materiale, l’Impero d’Oriente, che era già spiritualmente morto da tempo, venne infine cancellato dall’orizzonte storico, proprio mentre stava iniziando il rinascimento dell’Occidente.

Faremo la fine di Bisanzio, caduta perché «la fede non era più il principio motore della vita»?

Costretti a scegliere tra verità e legge

da Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân

Si sta avviando a conclusione l’iter parlamentare della legge cosiddetta “sull’omofobia”. Il 22 luglio essa arriverà in aula a Montecitorio. Tra le emergenze economiche e le polemiche politiche si rischia che venga approvata nel silenzio generale. Silenzio che purtroppo ha contrassegnato anche il mondo cattolico. Per fortuna in questi giorni c’è stato un risveglio da parte di alcuni gruppi ed organi di stampa che hanno cominciato a raccogliere firme contro la legge. Il nostro Osservatorio aderisce a queste iniziative.

Le notizie che arrivano dall’Europa, ove simili leggi sono già in vigore, sono allarmanti. Dire che la famiglia è solo quella tra un uomo e una donna può essere rubricato come omofobia e perseguito. La lettura in pubblico del libro della Genesi sulla creazione dell’uomo e della donna, oppure i passi di San Paolo sulla immoralità dell’atto omosessuale potrà essere considerato reato. Insegnare a scuola che la famiglia è una sola potrà essere considerato discriminante per odio omofobico. La legge, interpretando ideologicamente i diritti, obbliga al riconoscimento pubblico di quanto non merita riconoscimento pubblico e, così facendo, limita la libertà. Quella stessa libertà di opinione e religiosa che pure fa parte dei diritti a cui la legge stessa si appella.

Ci troviamo di fronte ad una prospettiva di pressione quando non di persecuzione. Si viene obbligati a negare le evidenze e le differenze e le coscienze sono chiamate a dover scegliere, pagando presumibilmente un costo sempre più pesante, tra la verità e la legge dello Stato. Non era mai successo che dei regimi democratici si facessero espressione di una ideologia oppressiva e violenta come in questo caso.

La questione riguarda tutti, perché è un fatto di libertà, di coscienza e di ragione. Troppo lampante la strumentalità di poggiare sulla lotta alla discriminazione attuando una più grande discriminazione. Troppo evidenti le enormi risorse messe in campo, la convergenza dei poteri forti su questa politica di negazione della libertà, la convergenza sinergica e programmata di grandi mezzi di comunicazione e lobbies politico sociali e culturali.

Lo scenario, con tutti i suoi pericoli, è davanti a tutti. I cattolici, però, lo prendono in considerazione in modo particolare, perché sostenuti e guidati in questo, oltre che dalla loro ragione, dalla Parola di Dio, da ripetuti insegnamenti della Chiesa e dalle affermazioni del Catechismo. Niente di tutto ciò è cambiato da quando, nel 2007, i Vescovi italiani, e prima di loro i dicasteri pontifici, avevano chiarito dottrinalmente ed eticamente la questione.

Donna, ministro e “ribelle”. Oggi l’Irlanda riconosce l’aborto, ma lei dice: «Non risolve nulla»

Donna, ministro e “ribelle”. Oggi l’Irlanda riconosce l’aborto, ma lei dice: «Non risolve nulla»

di Lucinda Creighton da www.tempi.it

Il discorso del ministro contrario alla legge sull’interruzione di gravidanza, che oggi verrà votata a Dublino: «La nostra Costituzione riconosce il feto come persona». 

Lucinda_creighton_ireland_abortoSarà votato oggi al parlamento irlandese il “Protection of Life During Pregnancy Bill”, la bozza di legge che mira ad allargare le possibilità di interruzione di gravidanza. Per il Premier Enda Kenny sono stati giorni di lavoro intensi: sabato i movimenti pro life sono tornati in piazza, con più di 40 mila manifestanti. Il “Taoiseach” ha anche cercato di ricucire i dissidi interni al suo partito e di limitare il numero di parlamentari “ribelli” contrari alla legge (più di 160 emendamenti alla legge sono stati considerati). Già quattro di loro sono stati espulsi dopo il primo voto della scorsa settimana, ma il rischio è che aumentino fino a dieci. A contrastare maggiormente la legge c’è Lucinda Creighton, ministro per gli Affari Europei: dopo la prima fiducia accordata a Kenny, oggi voterà sì soltanto se nella bozza verranno fatti alcuni cambiamenti sostanziali, su tutti l’articolo 9, legato al rischio suicidio della partoriente. Questo è il discorso con cui lo scorso primo luglio ha espresso la sua posizione davanti al Parlamento. 

Non avrei mai immaginato, quando mi candidai per le elezioni al Dail Eireann per la seconda volta nel 2011, che solo due anni dopo mi sarei trovata a parlare di una legge voluta dal Governo per liberalizzare l’aborto in Irlanda. Non ho dubbi che questa legge passerà, nonostante le tante riserve espresse dai colleghi di tutti i partiti, ancora di più alla luce dei gravi dubbi espressi da esperti psichiatri in due sessioni separate di audizioni del comitato di salute dell’Oireachtas (Parlamento irlandese, n.d.r.). Posso solo sperare che l’evidenza logica e verificabile possa prevalere e che gli emendamenti sostanziali vengano accettati per assicurare che i diritti di tutti gli esseri umani vengano protetti con pieno rigore della legge.

Qualcuno dice che questo è un argomento solo per donne, riguardante esclusivamente i diritti delle donne. Di conseguenza se sei “pro life”, sei in un certo modo “anti-donna”. Ma se guardiamo in giro per il mondo come i diritti delle donne sono sostenuti, promossi e difesi, è chiaro come l’aborto, nei fatti, sia diventato spesso uno strumento di oppressione per le donne. Guardate la Cina, l’India, la Corea, e persino in alcune parti d’Europa e degli Stati Uniti. La preferenza per i maschi sulle femmine ha portato alla cancellazione di decine di milioni di bambine. La bilancia è tale che in Cina, dall’anno 2020, ci saranno 30-40 milioni di donne in meno rispetto agli uomini, che cammineranno sulla terra, cresceranno, avranno famiglie, andranno a lavorare e in genere contribuiranno alla costruzione della società: difficilmente sarà un trionfo per il femminismo o il liberalismo.

picture of crowd vigil(1)L’orrore dell’aborto si può vedere anche più vicino a casa. Il fenomeno dei “designer babies” è una delle cose che più mi spaventa. Negli Stati Uniti, Paese che nei primi tempi ha introdotto l’aborto in circostanze decisamente ridotte, l’uso dello screening pre-natale è al giorno d’oggi prolifico e sempre più ragionevole per la società. Questo, ancora una volta, mette in mostra come la richiesta dell’aborto non sia un argomento liberal. In una società liberal celebriamo la vita in ogni sua manifestazione imperfetta. Proclamiamo il diritto di ogni essere umano di godersi la vita, sia che parliamo di un criminale nel braccio della morte, di una bambina innocente o di uno bimbo con la sindrome di Down. Chi di noi può stabilire se anche solo una vita non merita di essere vissuta, non merita di essere protetta?

C’è un’idea emergente in Irlanda tale per cui l’avere un senso di moralità è qualcosa che, in qualche maniera, deve avere a che fare con la Chiesa cattolica. Si ritiene che se tu ti consulti con la tua coscienza, di fatto ti stai rivolgendo a Roma. Questo è un modo sciatto di indebolire il valore di una discussione, senza di fatto affrontare la materia in sé. Non è un tema religioso, bensì è un tema dei diritti dell’uomo.

Mi stupisce pensare che cosa una persona dovrebbe consultare quando deve votare su un tema riguardante i diritti umani come questo: cosa, se non la sua coscienza? Il mio punto di vista è tutto ciò cui posso guardare quando prendo una decisione sulla vita o la morte, e questo è quanto stiamo affrontando qui: si tratta di rivolgersi alla propria coscienza, che si basa sul senso che ognuno ha di cosa è giusto e cosa sbagliato.

Ireland Abortion(…) Sono altrettanto perplessa sul perché la rappresentanza legale dei bambini nascituri è esclusa dalla legge. È la minima protezione che si chiede venga garantita ai nascituri. Un bambino, un giorno, potrà essere rappresentato nelle corti, e questo già succede, per esempio nei casi di negligenza medica. Una persona che ha limitate capacità mentali può essere rappresentata nei nostri tribunali per veder difesi i suoi diritti. Alcuni non credono che il feto sia una persona, e quindi che non ci sia un’aspettativa legittima per rivendicare i diritti costituzionali. Questa però è una posizione semplicemente ideologica. Non trova conferma nella nostra legge o nella Costituzione, Bunreacht na hÉireann, che invece lo riconosce già come una persona, con gli stessi diritti di tutte le altre persone. Le decisioni che vengono prese in base agli articoli 7 e 8 della legge (riguardanti la possibilità di abortire in caso di pericolo per la salute della madre, n.d.r.) si basano su un’evidenza empirica; quelle che invece si fanno in base all’articolo 9, relativo ai suicidi, sono di natura diversa. Coinvolgono giudizi di psichiatri (e non semplici osservazioni empiriche dei dottori) su credibilità, sincerità, ecc…; di conseguenza le decisione dovranno essere dettagliate, forensi, investigative, e inevitabilmente dovranno per forza prolungarsi per un periodo di giorni.

Queste decisioni sono per loro natura quasi giudiziarie, a causa del sistema a giuria (il reale rischio suicidio della donna è infatti valutato da un gruppo di due psichiatri e un’ostetrica, n.d.r.), quindi per forza il diritto del nascituro deve essere rappresentato. (…) Secondo la Costituzione tutte le parti interessate o potenzialmente toccate da un processo legale devono avere il diritto di esprimere il proprio punto di vista. Se questo testo aspira a essere fedele al suo nome, The Protection of Life During Pregnancy Bill (legge sulla protezione della vita durante la gravidanza, n.d.r.), allora deve semplicemente cercare di fare questo, ossia offrire protezione a tutte le vite, non di più, non di meno. Altrimenti il titolo è soltanto fuorviante. Ciò di cui c’è bisogno è di una cura clinica, e il governo dovrebbe impegnare più risorse possibili per fornirla alle donne giovani e vulnerabili. L’aborto non risolve nulla.