Il sesso sterile. Farlo spesso, alla svelta e senza salutare

Il sesso sterile. Farlo spesso, alla svelta e senza salutare

di Mattia Ferraresi da www.tempi.it

Farlo perché lo fanno tutti o soltanto perché “succede”. Farlo come un pomeriggio di studio o come un’ora di palestra. Il rapporto seriale produce una generazione di giovani infelici 

end_of_sexIl sesso è diventato sterile, è appassito, si è affievolito ed è morto. Non è stata una morte violenta, ma l’esito di un’agonia lenta, un peggioramento graduale e prevedibile, di quelli che rendono sopportabile il trapasso per chi sopravvive. A dirla tutta nessuno si è accorto di nulla, o quasi, e per non sbagliare alla cerimonia funebre si è fatto molto sesso con il mal posto proposito di riportare il morto in vita. E, in effetti, a forza di produrre attriti il cadavere si è rianimato, ma era un essere rabberciato, con i pezzi tenuti insieme da cuciture e gli arti mossi da scosse elettriche indotte, un claudicante eros in formato Frankenstein. Il risultato è apparso sulle prime deludente, poi l’abitudine ha scacciato i cattivi pensieri e tutti hanno ripreso a farlo, il sesso, come se niente fosse.

Donna Freitas, professoressa di studi religiosi alla Boston University, racconta la fine del sesso nel suo The End of Sex: How the Hookup Culture is Leaving a Generation Unhappy, Sexually Unfulfilled, and Confused About Intimacy, uno studio sociologico basato su 2.500 interviste anonime a studenti universitari americani. La fine del sesso non ha nulla a che vedere con l’astinenza, ça va sans dire. È piuttosto la bulimia che domina la cultura di una generazione ad avere inaridito l’esperienza sessuale, soffocandola nella banalità di uno scambio di sudore. Nei campus la cultura dell’hookup, dell’aggancio, del rimorchio rapido e indolore, è parte integrante della norma: non c’è bisogno alcuno di conoscersi per finire a letto insieme, e per la verità non c’è nemmeno bisogno del letto, basta un corridoio, l’ascensore, il tavolo da biliardo, nessuno dice “fai piano che ci sentono”, ché nella stanza accanto altri fanno lo stesso e nessuno ci fa caso. Le regole d’ingaggio sono fissate da un contratto non scritto che esclude categoricamente appuntamenti galanti, frappé con due cannucce, lume di candela, passeggiate e altre finzioni del corteggiamento che possono indurre la tentazione del coinvolgimento emotivo. Bisogna concentrarsi sull’obiettivo, raggiungerlo e possibilmente non salutare, che magari in quell’ultima occhiata scorre l’ipotesi di una continuazione che complica le cose. Meglio piacersi, fare sesso e astenersi dalle domande.

«Non ci sono legami. Lo fai e basta, e quando lo hai fatto puoi dimenticartene», dice una ragazza che frequenta il primo anno in un’università cattolica. Se l’esperienza è stata abbastanza indifferente emotivamente è consentito ripeterla con la stessa persona. L’hookup è diverso dalla “one night stand”, l’ancestrale botta e via che si pratica dalla notte dei tempi, non è l’amplesso incidentale alla fine di una serata con troppo alcol, promiscua ma a suo modo rituale. È un poke su Facebook, un tacito accordo, un volantino sulla parete del bagno come quello rappresentato sulla copertina del libro, uno scambio ben regolato che si basa sulla padronanza di domanda e offerta: non si offre più di ciò che si cerca, soddisfazione liofilizzata che non lascia traccia.

Un altro impegno in agenda
Dalle migliaia di interviste condotte per la ricerca Freitas distilla tre caratteristiche fondamentali per definire cosa è “hookup” e cosa non lo è: serve un incontro intimo che va dal bacio con la lingua al sesso orale fino al rapporto completo; il gesto è breve, può durare pochi minuti o alcune ore durante una notte; ultima, ma non meno importante caratteristica, è la natura esclusivamente fisica del rapporto. Le parti convengono di evitare qualunque accenno che possa generare una scintilla emotiva. Lo scenario descritto dalla studiosa mette voglia di tornare non si dica al kamasutra, arte amatoria scolpita su uno sfondo sacro, ma anche alla ritualità terragna di un “bunga bunga”, nel quale per lo meno si rintracciano gli accenni di una trama. Cena, conversazione, travestimento, spettacolo e tutto il resto. Nei college americani prevale la riduzione all’atto sessuale in sé, depurato da qualunque traccia di significato.

Quello di Freitas non è un libro prescrittivo né un manualetto di educazione sessuale uguale e contrario al Make Love di Ann-Marlene Henning e Tina Bremer-Olszewski, autrici tedesche che danno indicazioni dettagliate per l’appagamento reciproco e compilano un preciso organigramma del piacere. Il punto di vista della professoressa cattolica cresciuta nella cultura liberal e femminista non è dissimulato ma l’intenzione dell’opera è essenzialmente descrittiva. È nell’apparente freddezza delle statistiche che si rivela la potenza dell’autrice.

Il 75 per cento degli studenti intervistati, scelti con metodologia scientifica fra università cattoliche e secolarizzate, dice di avere partecipato alla cultura dominante del sesso serialmente occasionale, ma – e questa è l’osservazione che ha mosso la studiosa a descrivere il fenomeno – il 50 per cento degli intervistati si dice insoddisfatto. Insoddisfatto della riduzione del sé (e in seconda battuta dell’altro) a puro mezzo, insoddisfatta dell’assenza di legami che la sbrigliata banalizzazione sessuale comporta: «Le conversazioni con i ragazzi – scrive Freitas – rivelano un’intensa ricerca di significato. Cercano un rapporto sessuale significativo, relazioni significative, appuntamenti significativi, e i loro compiti in classe presentano una devastante analisi del modo in cui la “hookup culture” priva gli studenti della possibilità di soddisfare i loro veri desideri e di sperimentare un’esperienza sessuale positiva. Molti rimangono isolati e soli durante la loro esperienza universitaria».

A forza di riempire l’agenda di fugaci incontri sessuali senza conseguenze («nella cultura universitaria di oggi il sesso è una cosa che gli studenti mettono in agenda, come lo studio e la palestra») la vita dei giovani tende a svuotarsi e spesso la frequenza degli “agganci” è direttamente proporzionale alla delusione che segue l’orgasmo. Eppure la grande macchina del sesso va vanti a tutto vapore, con la sua bulimia che tutto consuma e rigetta senza soluzione di continuità. Nei dormitori dei college «il sesso è veloce, distratto, spensierato, meccanico. La cultura universitaria promuove sesso noioso, sesso ubriaco, sesso che non ti ricordi, sesso di cui non t’importa nulla, sesso in cui il desiderio è completamente assente, sesso che ti trovi a fare soltanto perché “lo fanno tutti gli altri” o perché “succede”». La mentalità comune insegna che «diventare sessualmente intimi significa diventare anche emotivamente vuoti; per innalzarsi e afferrare il sesso occorre allo stesso tempo drenare via i sentimenti. I ragazzi sono portati a credere che considerare il sesso un accidente, una casualità, è un dovere».

Dalla donna all’uomo oggetto
La constatazione più amara del libro riguarda l’abisso fra il comportamento pubblico e i giudizi privati degli studenti. La pressione sociale alimenta il moto perpetuo della sessualità, ma protetti dall’anonimato i ragazzi sputano la frustrazione per una pratica sociale diventata «normativa», una cultura «monolitica dalla quale i ragazzi faticano a sfuggire». Certi meccanismi hanno un che di paradossale. Le ragazze, secondo lo studio di Freitas, promuovono la cultura del sesso occasionale quanto le loro controparti maschili, ma all’interno delle mura femminili chi salta troppo facilmente da un letto all’altro paga la disinibizione con il giudizio negativo delle amiche. C’è una sanzione sociale per chi interpreta in modo troppo disinvolto la norma. Eppure la condanna va espressa in forma esclusivamente privata, ché nessuna in pubblico si può permettere di fare la figura dell’educanda che fa la ramanzina alle ragazze facili.

Qualcuno sostiene che la cultura dell’hookup sia essenzialmente alimentata dalle donne e la veterofemminista ringiovanita Hanna Rosin, profeta di un’altra fine, quella degli uomini, dice che è giusto così: per millenni la donna è stata l’oggetto sessuale dell’uomo, ora è arrivato il momento in cui le parti si rovesciano. Nella visione di Rosin l’uomo è la pura fonte di appagamento fisico che avrebbe dovuto essere fin dall’alba dei tempi e che non è stato soltanto perché si è imposto con la forza nella grandiosa lotta dei generi. La promiscuità banalizzata e resa norma è il ritorno alla natura delle cose, e ogni tentazione di costruire una relazione sul piacere momentaneo è una figura criptomaschilista da esorcizzare: «Per le ragazze che vanno al college un corteggiatore troppo serio è l’equivalente di una gravidanza indesiderata nel 19esimo secolo: un pericolo da evitare a qualunque costo», scrive Rosin.

Problema: gli studenti talvolta rimangono impaniati in una trama amorosa. Provano un interesse per l’altra persona che valica i confini della pura strumentalità, e accanto alla chimica del desiderio biologico spunta il sentore nostalgico di una relazione stabile, con gli appuntamenti al cinema, i regali di compleanno, le passeggiate al parco e tutto il resto. Magari non è l’immagine di una famiglia la prima a materializzarsi – la legge della promiscuità è un ritardante dell’ingresso nel mondo adulto: e dire che in quell’epoca lontana in cui il sesso era legato alla procreazione i momenti tendevano a coincidere – ma nelle testimonianze raccolte da Freitas riluce una dinamica ricorrente. Il gioco sta tutto nel soffocare la pulsione. Come? Facile: serve altro sesso, altra dispersione, altro disimpegno, altra disincarnazione, un nuovo amplesso per facilitare l’oblio.

Se l’altro è un cappio
In fondo ai racconti cinici, ansiosi o disperatamente spensierati dei ragazzi non c’è soltanto la fenomenologia dello spirito odierno del college americano, c’è una concezione del mondo nella quale il legame con l’altro si trasforma necessariamente in un cappio. L’altro inteso come fine è un limite insopportabile alle passioni, una zavorra che trascina verso la terra mentre tutto il mondo tende verso un cielo sbrigliato e senza vergogna (tranne quella sancita nel privato della tribù); in fondo la hookup culture in cui il sesso e lo spinning sono nella stessa lista delle cose da fare è una gigantesca operazione di riduzione dell’altro (e di sé) a puro mezzo, per assecondare felicemente la dimensione immediata della vita e appiattire la complessità intollerabile dell’esperienza. Per essere finalmente autonomi e soli.

Adozioni gay, contro la “rivoluzione” non serve la rivoluzione contraria ma una fede sapida

Adozioni gay, contro la “rivoluzione” non serve la rivoluzione contraria ma una fede sapida

di Pippo Corigliano da www.tempi.it

Per resistere a queste follie mascherate da scienza e scelte d’amore bisogna essere cristiani veri, non solo benpensanti

 

padri-gay-sette-corriereSul supplemento Sette del Corriere della Sera del 3 maggio, sotto l’immagine di un bambino che si protende verso due papà, campeggia la scritta: “Via libera dai pediatri Usa. Crescere con madri lesbiche o padri gay non danneggia la salute psicologica dei bambini”. Nel 1967 i produttori cinematografici americani abbandonarono il codice Hays di autoregolamentazione per la moralità dei film, vigente fino ad allora negli Stati Uniti. Da allora il sesso è stato un elemento quasi costante nei film americani e non. Cominciò la lunga marcia per destrutturare la società occidentale: divorzio, aborto, eutanasia, libero amore, esaltazione dell’omosessualità e, prossima meta, la legalizzazione della pedofilia.

È evidente il profilo demoniaco che mette in scena questa tragedia di morte progressiva. «Se Dio non esiste tutto è permesso!» scrisse Dostoevskij. De Maistre osservava che, contro la rivoluzione, non occorre la rivoluzione contraria ma il contrario della rivoluzione. Il contrario della rivoluzione è la vita ordinaria e ordinata in cui la creatura è in armonia col Creatore. In sede legislativa occorre resistere energicamente a queste follie mascherate da scienza e scelte d’amore, ma la soluzione sta nell’essere veri cristiani e non dei meri benpensanti. Leggere il Vangelo, confessarsi e ricevere Gesù nella Comunione. Dedicare tempo alla preghiera. Queste sono le uniche armi efficaci. Il vero pericolo non sono i rivoluzionari ma i cristiani insipidi. Gesù aiutami ad essere sale e la Provvidenza provvederà.

Adozioni gay, contro la “rivoluzione” non serve la rivoluzione contraria ma una fede sapida

La polizia francese autorizza la Manif contro il matrimonio gay, poi blocca e colpisce i partecipanti

di Leone Grotti da www.tempi.it

«C’è ancora il diritto di manifestare in Francia?». A Hérouville-Saint-Clair la polizia colpisce anche una disabile, che ha filmato tutta la scena 

francia-manif-poliziaIn Francia c’è ancora il diritto di manifestare? È la domanda che pone un comunicato della Manif Pour Tous raccontando quanto avvenuto il 6 maggio a Hérouville-Saint-Clair, comune di 22 mila abitanti nella Bassa Normandia. Qui un piccolo gruppo della Manif era stato autorizzato a manifestare dalla prefettura contro la legge su matrimonio e adozione gay in occasione della visita del ministro delegato alla Riuscita educativa George Pau-Langevin.

MEGAFONO VIETATO. Quando sono arrivati sul posto, però, i manifestanti sono stati allontanati dalla polizia rispetto al luogo prestabilito per la protesta. Alla responsabile è stato impedito di usare anche il megafono, sotto minaccia di portarla in commissariato. Chi ha protestato è stato bloccato fisicamente, uno di loro è stato anche buttato a terra.

 

 VIETATO FILMARE. La scena è stata filmata da una donna, portatrice di handicap. Per impedirle di filmare, la polizia l’ha colpita alla schiena causandole una incapacità temporanea totale di muoversi per 10 giorni. Il prefetto, che era presente, non è intervenuto. 

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE. «Chi potevano mettere in pericolo i manifestanti con i loro fischietti e il loro megafono?», chiede il comunicato della Manif. «La sicurezza del ministro era davvero minacciata? Perché questa reazione sproporzionata da parte delle forze dell’ordine? (…) Tutto questo porta a pensare che la libertà di espressione sia diventata un concetto molto flessibile» nella Francia di Francois Hollande.

Fiumi di alcol e digiuno Follia diventata moda

Fiumi di alcol e digiuno Follia diventata moda

Si chiama «drunkoressia» dall’inglese «drunk», ubriaco, e anoressia, la patologia psichiatrica che colpisce soprattutto le donne e che provoca il graduale rifiuto del cibo.

Ragazzi giovanissimi, in particolare tra i 14 e i 17 anni, si alzano al mattino, bevono un caffè senza mangiare nulla, per tutto il giorno, fino ad arrivare all’ora dell’aperitivo dove assumono grandi quantità di alcol insieme agli amici. Lo scopo? Vivere le occasioni di socializzazione a tutto tondo senza per questo dover rinunciare a una linea perfetta.

L’alcol infatti, si sa, ha un apporto calorico molto elevato che, se assunto in grandi quantità, porta a un inevitabile aumento del peso. Fatto inaccettabile per molti adolescenti che nell’aspetto fisico riconoscono il loro status quo, la loro sicurezza, complice soprattutto la società che sempre di più fa coincidere bellezza con successo. Astenersi dal cibo per potersi permettere aperitivi e superalcolici, insomma, bilancino delle calorie alla mano.

La «drunkoressia» è un fenomeno di disturbo del comportamento alimentare importato dagli Stati Uniti che recentemente ha cominciato a diffondersi anche in Italia. Il ministero della Salute l’ha definito «una variante specifica nel novero dei disturbi da comportamento alimentare classici quali anoressia, bulimia, nutrimento compulsivo eccessivo e altri». Non si mangia per poter bere di più ma, secondo dati ministeriali, si beve smodatamente anche per anestetizzare in modo più efficace la fame che deriva dal comportamento anoressico e senza rimanere isolati, instaurando un circolo vizioso tra digiuno e assunzione di alcol, di cui uno diventa il rinforzo dell’altro.

Vino, vodka, spritz e cocktail sono sostanze che, se abusate, possono dare una forma di dipendenza in cui i rischi fisici e psicologici propri dell’anoressia si aggiungono a quelli derivanti dall’abuso di alcol. Il ministero ha rilevato che attualmente la «drunkoressia» colpisce circa 300mila ragazzi, il 10% dei 3 milioni di giovani italiani che soffrono di disturbi alimentari, con una incidenza molto più alta tra le femmine (80%) rispetto ai maschi (20%). La fascia d’età più colpita è quella adolescenziale, ma non mancano casi anche oltre i vent’anni.

La gravità dei danni provocati da questo fenomeno è in stretto rapporto con la giovane età della popolazione colpita: fino ai vent’anni il cervello umano risulta ancora in fase di assestamento e, non a caso, le agenzie di sanità pubblica prescrivono la totale astensione dal consumo di alcolici fino ai sedici anni.

Ulteriori problemi derivano dal fatto che la «drunkoressia» riguarda soprattutto le ragazze il cui organismo è strutturalmente più esposto alle lesioni provocate dall’alcol. Nella donna, infatti, a pari quantità di bevande alcoliche assunte rispetto all’uomo, corrisponde un livello di alcolemia maggiore che porta a uno sviluppo più rapido di complicazioni epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate. In Italia nel 2011 l’Istituto Superiore di Sanità ha rilevato che il 14% dei ragazzi e quasi il 10% delle ragazze al di sotto dei sedici anni è a rischio di danni correlati all’alcol.

Si tratta in tutto di 338.000 minori, cifra molto più alta degli anni precedenti. Nel decennio 2001-2011, infatti, l’Istat ha messo in evidenza una forte crescita dei consumi di sostanze alcoliche fuori pasto tra i giovani consumatori, dove la prevalenza è passata dal 36% al 42%. Il digiuno forzato, unito alla dose eccessiva di alcol, ha conseguenze gravi anche a causa della riduzione del controllo delle inibizioni e della percezione del rischio che può portare a situazioni di grave pericolo sul piano sanitario e sociale sia per se stessi che per gli altri. La Società italiana di pediatria preventiva e sociale (Sipps) è stata tra le prime agenzie che hanno segnalato la comparsa di questo disturbo alimentare tra i giovani. Un problema che, al di là delle misure restrittive, si può affrontare solo lavorando sulla prevenzione.

Caterina Dall’Olio da www.avvenire.it
«Hanno sospeso alimentazione e idratazione a mio figlio. E non posso fare niente per fermarli»

«Hanno sospeso alimentazione e idratazione a mio figlio. E non posso fare niente per fermarli»

di Benedetta Frigerio da www.tempi.it

Una madre di Parigi parla in forma anonima del figlio in stato di coscienza minima, che moglie e medici stanno facendo morire. Un caso simile a quello di Terry Schiavo 

eutanasia-belgio-bambiniLe stanno uccidendo il figlio ma non può fare nulla. Così ha dichiarato una donna francese in un’intervista al portale americano Lifesitenews.com. Hervé (nome di fantasia), giovane uomo costretto in stato di minima coscienza a causa di un incidente, sta morendo lentamente a causa della moglie e di un collegio di medici che hanno deciso di sospendergli idratazione e alimentazione. A combattere la loro scelta i genitori di Hervé, che scoprendo per caso cosa stava accadendo al figlio, hanno cercato senza successo di fermare un processo di morte lungo e doloroso.

LEGGE LEONETTI. Dal 2005 in Francia vige la legge introdotta dal parlamentate Jean Leonetti, che stabilì l’illegalità dell’eutanasia attiva dicendo che alimentazione e idratazione sono sempre obbligatorie, tranne in casi eccezionali (questi ultimi inseriti con la motivazione di tutelare i pazienti terminali che rigettano il cibo). La legge, simile a quella ferma in Parlamento in Italia, fu giudicata un buon compromesso. Non da tutti: secondo il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, e David Messas, gran rabbino di Parigi, la legge poteva essere usata per introdurre l’eutanasia. La legge infatti può essere usata contro i pazienti in stato vegetativo o di minima coscienza.

«POSSO SOLO ACCAREZZARLO». A decidere per la sospensione degli alimenti di un uomo, la cui diagnosi parla di risposte agli stimoli, di reazioni alle voci dei familiari e di pupille che seguono le persone che lo visitano, sono stati un collegio di medici della clinica parigina in cui è ricoverato e la moglie. Tutto ciò nonostante la legge parli di consenso della famiglia e dei cari del paziente. Da fine aprile a Hervé è stato quindi negato il cibo, mentre la dose d’acqua a lui solitamente somministrata è passata da 3 litri giornalieri a soli 100 millilitri. E ora, quando la madre apre la porta della sua stanza, l’uomo piange. Gli infermieri le dicono imbarazzati che si tratta «di congiuntivite, ma io conosco mio figlio», ha dichiarato la donna raccontando di «vederlo soffrire in molti modi». La madre ha poi parlato della rabbia per il fatto che suo figlio non potrà morire naturalmente, ma ucciso lentamente sotto i suoi occhi impotenti. Tra l’altro, dovendo prendersi cura anche del marito malato, la signora ha spiegato di aver scoperto della decisione per caso, quando il fratello di Hervé si è accorto che la flebo per la nutrizione non c’era più. La madre ha raccontato poi di aver cercato il modo di fermare il processo di morte, ma la risposta ricevuta è stata tassativa: l’ultima parola è della moglie. Per questo ha chiesto l’anonimato al portale americano che l’ha intervistata, per non rischiare di essere allontanata dal figlio e preferendo stargli vicino nella sofferenza piuttosto che rischiare di lasciarlo morire da solo.

IL PEGGIO DEVE ANCORA ARRIVARE. Quando la “legge Leonetti” fu approvata si parlava di «freno all’eutanasia», ma anche di «non accanimento». L’esito ora visibile è la possibilità di praticare l’eutanasia passiva. Ma François Hollande di recente ha promesso la revisione del testo di legge: invece che di «non accanimento» si può cominciare a discutere di «sedazione palliativa». Da qui alla legalizzazione dell’eutanasia attiva il passo potrebbe essere breve.

Eutanasia : é licenza di uccidere ?

Eutanasia : é licenza di uccidere ?

Si parla, oggi 2013, con troppa enfasi di eutanasia ! 

Ma cos’è ? E’ il procurare intenzionalmente la morte all’individuo, alla persona, al malato la cui vita è compromessa da una patologia disgregante, da una menomazione grave, da una condizione di natura psichica. Nell’antichità il vocabolo eutanasia è inteso quale morte dolce, cioè senza sofferenze atroci, mentre oggi viene definita, nel bene o nel male, intervento della medicina diretta ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia. La parola eutanasia, oggi viene intesa, quanto può procurare la morte per pietà, allo scopo di eliminare le sofferenze per bambini anormali, malati terminali, “azioni” definite a non prolungare una vita infelice. Ma “togliere” la vita ( non è uno scherzo !) per noi cristiani è contro la morale cattolica, contro ogni forma di attivazione di snaturare la vita, per “altri” è voglia di vita, della vita e del vivere, un valore che va difeso e se indifeso si può andare incontro a discriminazioni inique o distruttive.

In Italia il cammino verso l’eutanasia e la sua eventuale legalizzazione, salvo il ricordo della Germania nazista che ne ha proposto il triste primato, l’ha introdotta la teoria social-liberale con una proposta di legge dell’On. Loris Fortuna. Essa mirava a disciplinare la sospensione delle terapie straordinarie destinate a prolungare inutilmente una vita.

Il diritto a far valere l’affermazione del si e del no all’eutanasia, al di fuori dei singoli avvenimenti, è una manifestazione della volontà che l’uomo ha di se stesso, della vita, della sofferenza e della morte. Tra legge dello Stato e legge che ogni persona porta nella propria coscienza potrebbe portare alla considerazione che ciò che è ritenuto legale, come la possibile emanazione di una legge sull’eutanasia, non è morale per l’uomo. Oggi insiste nella politica l’accanimento terapeutico, che sarebbe una serie di interventi medici sul malato in fase terminale, mentre il testamento biologico è la dichiarazione anticipata di volontà, cioè il consenso informato e l’autodeterminazione del paziente, a garanzia di cure palliative e tutte le terapie del dolore disponibili. Ma da molto tempo, se ne parla troppo, siamo di fronte ad una superficiale cultura che sottrae alla ragione il perché si soffre e si muore ed è necessario, quasi impellente, affrontare con la logica le motivazioni di ricorso all’eutanasia. E’ inconcepibile e stranamente contraddittorio che una società come la nostra, che continua a riaffermare, giustamente, il valore della vita (no alla guerra, no alla pena di morte, no al terrorismo) nega questa vita attraverso il tentativo di instaurare quel presunto “diritto” di “ licenza di uccidere”. E’ necessaria, ancora, la partecipazione di noi tutti, cristiani o non cristiani, di considerare il nostro prossimo, perché il dolore e specialmente la solitudine non condannino nessuno alla disperazione. Le ragioni antropologiche ci portano ad incontrare storie od episodi che chiedono una pietà senza limiti.

Legalizzare l’eutanasia si configura come ingiustizia, come una fuga ed una rinuncia ad affrontare i reali e prioritari problemi, come quello che da oltre 35 anni attendono i portatori di turbe psichiche dal Parlamento una legge-quadro di riforma dell’assistenza psichiatrica, come i disabili fisici che attendono migliorie alle loro situazioni.

Ancora una volta dobbiamo ribadire alle Istituzioni che vi sono altre priorità rispetto ad atteggiamenti di accanimento terapeutico, di considerazioni di future iniziative per testamenti biologici o quant’altro 

Potrebbe esse un monito, ma si corre il rischio di andare dalla pietà per le sofferenze insopportabili, alla vita senza valore, come episodi quasi giornalieri che si verificano, situazioni che potrebbero coinvolgere innocenti, malati terminali, anziani non autosufficienti, bambini o disabili psico-fisici :

http://digilander.libero.it/cristianiperservire/pdf/Petizione%20al%20Parlamento%20Italiano.pdf

Per le persone in fase terminale, con tutta la considerazione ed il rispetto per questo “evento”, occorre aiutarli all’accettazione aspettando che la natura compia il suo ciclo, mentre gli psicologi dicono che la richiesta di morire è un forte grido di non essere lasciati soli nella drammaticità della vita che termina.

1.)     L’eutanasia, che si può distinguere in attiva, cioè con azione diretta, passiva quale omissione di soccorso, comunque essa sia applicata va contro quel profondo senso umano che mostra ripugnanza qualora il medico abbia un qualunque ruolo nell’uccisione di un paziente. Il medico è quella persona alla quale il paziente si affida ed Ippocrate, padre della medicina, adottava il principio che “ l’uomo è ministro ed interprete della natura, se ad essa non obbedisce, ad essa però non comanda”.

2.)    Ad un medico non si chiede di decidere chi deve vivere o morire,questi deve essere per la vita. Non vorrei essere nei panni di quel medico che guardandosi le mani che hanno tolto la vita debba dire : “ maledetti mani”.

3.)     L’eutanasia può porre il rischio di diminuire o spegnere la ricerca medica in determinati ambiti sanitari dal momento che la soluzione è quella della soppressione della vita.

4.)    L’eutanasia non sarà mai la risposta adeguata al malato grave.

5.)     Nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto od embrione, che sia bambino od adulto,vecchio, ammalato incurabile od agonizzante.

6.)    Nessuno può chiedere questo gesto omicida per altri.

7.)     Nessuno può acconsentire esplicitamente od implicitamente il gesto omicida.

8.)    Nessuna autorità può legittimare, imporre o permettere l’omicidio.

 

E’ un’offesa alla dignità della persona umana! E’ un crimine contro la vita! E’ un’attentato contro l’umanità!

Nel rispetto dei valori etici e sociali, che una quasi giornaliera diffusa psicopatia vuole distruggere il concetto della vita considerandosi autonoma e svincolata da ogni rapporto umano e sociale ritenendo la persona un oggetto da buttare, il mondo civile la singola persona la ragione e la logica non chiedono di morire , ma di vivere.

La famiglia tradizionale, “martellata” oggi purtroppo in maniera pressante, densa di stress” ingovernabili, continua a mantenere la promessa di fedeltà dei coniugi, a farsi carico dei figli, ad aiutare i propri genitori anziani, soprattutto a curare i propri membri malati e disabili, a dispetto di questo mondo egoista ed amorale.

Una “parola di speranza” è e resta quella che si instauri o si restauri per il bene di tutti quell’istituzione naturale che è la famiglia , motore universale della continuazione dell’uomo .

Ed un “segno di speranza” ci è venuto dal Cardinale Dionigi Tettamanzi con la parola “non parliamo solo di speranza, ma anzitutto con speranza”perché prevalga la voglia di non essere a favore di un tecnicismo innovativo e di un relativismo distruttivo.

Solo il Creatore ha diritto di vita o di morte !

Parafrasando le parole del Beato Giovanni Paolo II° :”Andiamo avanti con speranza !”

Previte

http://digilander.libero.it/cristianiperservire