da Baltazzar | Mag 20, 2013 | Biopolitica, Post-it, Segni dei tempi
di Berlicche da www.tempi.it
Secondo Berlicche il professore Eduard Verhagen ha ragione: perché l’eutanasia dei neonati “indegni” non è un’alternativa legale all’aborto tardivo? «Che differenza morale c’è?»
Mio caro Malacoda, preparati alla riabilitazione di Erode. La giustificazione sociale dell’infanticidio non sarà un successo facilmente raggiungibile. Avremo qualche problema “morale” a condurre questa campagna mediatica e culturale in parallelo con quella sulla pedofilia, ma abbiamo da tempo posto in essere tutte le premesse pratiche che la rendono praticabile, basta indurre dal vissuto ormai moralmente accettato dalla stragrande maggioranza delle società occidentali evolute i princìpi che lo sostengono, ancorché sottintesi. Si tratta della solita questione di chi invoca la fine dell’ipocrisia in campo politico e della morale pubblica, ma non sa o non osa farlo in quello teoretico o dei cosiddetti “valori”. È il coraggio del pensiero, e delle ultime conseguenze delle nostre libertà, quello che manca.
Per fortuna alcune menti “illuminate” ci confortano. Come quella del professor Eduard Verhagen, un olandese senza remore intellettuali e senza peli sulla lingua (sullo stomaco pare abbondino) che teorizza apertamente non solo la liceità dell’infanticidio, ma anche la sua convenienza rispetto all’aborto tardivo. Abbiamo, insomma, il diritto di sopprimere un bambino terminale, malformato o handicappato perché la sua non sarebbe una vita degna.
Sinceramente non capisco l’indignazione di chi si scandalizza o anche solo si stupisce per questa cristallina, sotto l’aspetto logico, affermazione. Se l’aborto è diventato un “diritto” della madre (questo le persone più accorte non lo dicono, ne parlano come di una tragedia, ma la mentalità che l’ha legalizzato lo considera tale), era prima o poi inevitabile che anche il bambino diventasse un diritto dei genitori (qui si innesta una contraddizione linguistica, perché non esiste genitore finché non c’è un bambino, ma lasciamo perdere). Ma se un essere non è soggetto sorgente di diritto in sé, bensì oggetto di un diritto altrui, il titolare del diritto ne deve poter disporre totalmente. Se il figlio è un mio diritto, il bimbo è mio e me lo gestisco io finché non acquista lo status di persona autonoma. E un neonato handicappato, al pari di un feto, non lo è.
Giustamente, per non urtare troppo la sensibilità sentimentale di chi vive nelle società che si richiamano pur sempre ai “diritti dell’uomo”, questo potere di eliminazione preferiamo chiamarlo eutanasia, bella morte. E, come dice il professor Verhagen, «perché l’eutanasia non dovrebbe essere permessa come alternativa all’aborto? Che differenza morale c’è?». O, per essere più adamantinamente espliciti, come sanno essere due scienziati italiani: «Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche dovrebbe essere permesso anche l’aborto post nascita». Il ragionamento di Alberto Giubilini e Francesca Minerva non fa una grinza, salva la validità della premessa.
Certo, qualcuno potrebbe sempre chiedere non “chi è nato?”, ma almeno “che cosa è nato?”. Che tipo di essere? Un individuo di quale specie? Ma non ti preoccupare, con la teoria del gender abbiamo moltiplicato i sessi, troveremo una soluzione anche per classificare gli esseri umani senza disturbare le coscienze con il ribrezzo evocato dalla parola schiavitù. A patto che prima qualcuno non si inventi una soluzione finale anche per noi.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche
da Baltazzar | Mag 16, 2013 | Cultura e Società, Segni dei tempi
di Andrea Simoncini da www.tempi.it
«Come facciamo a togliere il crocifisso dall’aula magna e lasciare che il logo dell’Università di Firenze (sulla carta intestata) sia Re Salomone? Un luogo per essere pubblico dev’essere necessariamente bianco?»
Dopo i lavori di ristrutturazione, dall’aula magna dell’Università di Firenze è stato rimosso un crocifisso. A prendere la decisione è stato il rettore Alberto Tesi. Giuseppe Betori, arcivescovo della città, ha commentato ironico: «Se i crocifissi danno fastidio negli spazi laici della cultura, verrebbe voglia di riprenderli, con Madonne e Santi, da Uffizi e altri musei». E poi: «Una mostra come quella della Biblioteca Nazionale su Camaldoli evidenzia come il crocifisso sia sorgente e non ostacolo alla cultura».
Ieri sul Corriere Fiorentino è apparso un commento di Andrea Simoncini, professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze, che di seguito riproduciamo.
Il crocifisso, l’università (e un muro che parla)
Caro direttore, siamo ancora il paese di Peppone e Don Camillo? O siamo cresciuti? Verrebbe da chiederselo. La vicenda della scomparsa del crocifisso dall’aula magna dell’Università è emblematica.
Il Rettore toglie il simbolo cristiano; un giornalista del Corriere Fiorentino se ne accorge. Non è certo un «arredo» qualsiasi e scoppia il «caso». Al giornalista che chiede spiegazioni fanno sapere che piazza San Marco «ha ritenuto opportuno che l’aula magna, sempre più luogo d’incontro e di confronto, non preveda la presenza di simboli confessionali». Dunque, il Rettore non ha pensato di discutere la cosa, né perlomeno di far sapere cosa intendeva fare, ma ha scelto di agire di sua iniziativa, considerando la presenza di un simbolo religioso «inopportuna» in un luogo di incontro e confronto.
Lungi da me l’idea di agitare una guerra di religione su questo punto: insegno a Novoli dove sin dall’inizio non ci sono né crocifissi, né menorah, né mezze lune e questo non ha mai creato problema a nessuno. Penso, però, che l’Università dovrebbe essere un luogo in cui queste discussioni possano essere fatte laicamente. Non possiamo essere in balia delle «parrocchie» cristiane o anticristiane. Oggi viviamo in un contesto multiculturale e multireligioso; come affrontare questa condizione?
Se riteniamo, razionalmente, che la sola presenza di un simbolo religioso, ostacoli una discussione laica, le conseguenze sono assurde. Come facciamo a togliere il crocifisso dall’aula magna e lasciare che il logo dell’Università di Firenze (sulla carta intestata) sia Re Salomone?! Che, come dice il sito stesso di Unifi, è un «Re biblico»? Un simbolo per antonomasia della tradizione giudaico-cristiana? E come se si togliesse la croce dallo spogliatoio di una squadra di calcio e poi la si lasciasse sulle magliette…
La questione, dunque, è ben più seria di un crocifisso rimosso, ma la motivazione che è stata data. Come si concilia la realtà multiculturale di oggi con la nostra storia? Un luogo per essere pubblico dev’essere necessariamente «bianco»; questa è vera neutralità? Sabato in tutta Firenze il Comune ha sponsorizzato la lettura pubblica dei canti di Dante, c’era mia figlia e sono andato. Possiamo pensare che una iniziativa del genere non dia spazio pubblico – una piazza – ad un autore – Dante – che in materia di morale e religione è tutt’altro che «neutrale» (per non parlare di Benigni a Santa Croce). Forse, il vero problema non è cosa è attaccato al muro, ma come si discute in quell’aula magna.
Un’educazione è laica quando sviluppa la libera capacità critica anche rispetto alla propria storia, alla identità in cui siamo immersi e ai suoi segni, non quando li nasconde. Un suggerimento interessante può venirci dal presidente di un’altra autorevole istituzione accademica – della cui laicità nessuno discute – l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole; Joseph Weiler, professore di diritto ed ebreo osservante è stato avvocato difensore nella causa in cui la Corte di Strasburgo ha solennemente dichiarato che il crocifisso nelle aule scolastiche italiane non viola i diritti dell’uomo. Ebbene Weiler chiudeva il suo intervento – che sarebbe bene rileggere – così: «Non fate questo errore. Un muro denudato per mandato statale, (…), può suggerire agli alunni che lo Stato sta prendendo un atteggiamento anti religioso. (…) C’è sempre un’interazione tra quello che c’è sul muro, e come esso è discusso e insegnato in classe».
da Baltazzar | Mag 16, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Segni dei tempi
Gli editoriali di SamizdatOnLine
L’avvocato Gianfranco Amato, presidente dell’Associazione Giuristi per la Vita ha esposto denuncia il 9 maggio presso la Procura di Roma contro gli artisti che durante il concerto del primo maggio hanno fatto una sorta di parodia della messa. Secondo il querelante durante il concerto si sono configurati il reato di offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone previsto e punito dall’art. 403 c.p., il reato di offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di cose previsto e punito dall’art. 404 c.p., ed il reato di atti osceni in luogo pubblico previsto e punito dall’art. 527 c.p.
Come i lettori ricorderanno, i fatti contestati sono avvenuti davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, che, essendo la cattedrale di Roma, è uno dei luoghi più importanti della religione cristiana.
Il clima di intolleranza verso la religione cristiana, anche se i mezzi di informazione non ne parlano, sta diventando sempre maggiore: questo infatti è solo l’ultimo di una serie di atti rivolti contro i cristiani e ci impone qualche riflessione.
La prima cosa che vorremmo mettere in evidenza è lo stupore che deriva da una sorprendente disparità di trattamento: quando ad essere offese sono altre religioni, come l’ebraismo o l’islam, scatta, giustamente sottolineiamo, una gara fra politici, giornalisti, e opinionisti a chi più stigmatizza gli atti o le parole che hanno offeso i fedeli di queste importanti religioni.
Tutt’altra atmosfera si respira invece quando ad essere vilipesa è la religione cristiana. In tali circostanze, quando va bene, a farsi sentire, oltre ad alcuni coraggiosi pastori, sono solo quei politici più vicini alla Chiesa. Raramente si registrano altrdichiarazioni di disdegno o attestazioni di solidarietà verso i cristiani offesi da parte di altri esponenti del mondo politico o culturale.
Viene da domandarsi come mai ci sia una così gran differenza di trattamento. Le risposte possono essere molteplici. Se si inquadra il problema prendendo in considerazione il peso della religione nel contesto europeo, si può affermare che gli abitanti del vecchio continente, a causa del sempre più massiccio secolarismo, non si identificano più con una religione. Essi sono piuttosto inclini a riconoscere come religiose le tante persone che sono venute a vivere in Europa e che spesso appartengono a tradizioni religiose non cristiane.
In un certo senso, quando vengono colpiti i cristiani, è come se non venisse colpito nessuno. E ciò accade anche perché, secondo il modo tipico di pensare della post-modernità, la religione è qualcosa di privato e confinato nella coscienza, o almeno così deve apparire a una gran parte di europei che vedono forse nell’aspetto pubblico delle altre religioni una sorta di retaggio del passato, col quale comunque bisogna convivere. L’offesa verso i cristiani, al contrario di quanto avviene per le altre religioni, viene percepita come individuale e non come un atto contro l’intera comunità dei credenti.
Una tale visione delle cose ha la sua genesi nella storia degli ultimi due secoli e particolarmente nella rivoluzione francese e nel liberalismo ottocentesco.
In Francia, con la fine dell’antico regime, si è scatenata una vera e propria guerra contro la vecchia religione: si è messo in atto il grido di battaglia di Voltaire che affermava la necessità di “ecrasez l’infâme”, cioè di “schiacciare l’infame”, dove l’infame è il cristiano.
Stessa cosa si è avuta in Italia con il liberalismo: mentre in linea di principio si proclamava un’uguaglianza di tutte le religioni, di fatto il cristianesimo veniva considerato un po’ meno uguale degli altri, anche a dispetto della sua diffusione nel Paese.
Questo clima culturale degli ultimi due secoli, ben documentato in libri come “La cacciata di Cristo” di Rosa Alberoni o nei testi della storica Angela Pellicciari, ha fatto sì che il cristianesimo divenisse di fatto col passare del tempo una religione di serie “B”.
Un grande influsso nel fenomeno di marginalizzazione della religione è stato esercitato nel secolo scorso dall’ideologia marxista e da quella più recente del politically correct che ha di fatto suscitato una sorta di schizofrenia per cui, spesso e volentieri, i diritti delle minoranze finiscono per schiacciare quelli della maggioranza che si sente sempre più estromessa e culturalmente insignificante.
Qual è l’atteggiamento che fino ad ora i cristiani hanno avuto davanti a una simile situazione? Come hanno risposto agli attacchi denigratori verso la loro fede? La risposta, lo dobbiamo riconoscere, è stata molto blanda forse perché si sono proprio rassegnati davanti al fatto di essere considerati come cittadini appartenenti a una categoria inferiore.
In casi simili a quello verificatosi durante il concerto del primo maggio, i cristiani non hanno risposto alle offese subite perché hanno temuto che le loro reazioni avrebbero potuto finire per fare pubblicità ai loro aggressori. Altre volte infine si sono rassegnati anche perché vedono nella persecuzione qualcosa di inevitabile e addirittura di annunciato nel Vangelo.
Se da una parte questo è vero, dall’altra bisogna pensare che siamo cristiani del XXI secolo. In un mondo che predica sempre di più la tolleranza e il rispetto per la diversità (virtù che sono state prese in prestito proprio dal cristianesimo!) il cristiano non si può sentire fuori da tale discorso.
Pensiamo che il cristiano, in primo luogo, debba tornare a sentirsi pienamente e legittimamente inserito nella società e rispettato per i valori di cui, al pari di altri, è portatore. In tale logica il suo sentimento religioso deve essere rispettato allo stesso modo in cui giustamente si prova rispetto per le altre credenze religiose.
Quando questo rispetto viene meno, crediamo sia giusto agire come ha fatto l’avvocato Amato: è necessario ricorrere agli opportuni strumenti legali al fine di vedere tutelato e rispettato il proprio credo. In una tale azione il cristiano deve essere all’altezza del nome che porta e agire, evitando qualsiasi vittimismo, non per odio o risentimento nei confronti di chi lo ha offeso, ma per spirito di giustizia: le reazioni alle discriminazioni eventualmente subite non devono mai essere scomposte e animate da sentimenti di contrapposizione ideologica o, peggio ancora, di fanatismo religioso.
In tal senso ci sembra positiva l’intenzione del querelante di devolvere l’eventuale risarcimento in favore del monastero di S. Lazzaro e S. Maddalena di Pietrarubbia, un gesto che ci fa capire il valore anche simbolico di questa azione legale.
da Baltazzar | Mag 15, 2013 | Biopolitica, Post-it, Segni dei tempi
di Tommaso Scandroglio da www.lanuovabq.it

Uno dei tanti è dato dal fatto che il documento non nasconde il tentativo di attuare un vero e proprio golpe di Stato bianco. Ecco cosa si legge: l’intento della Strategia “nel contrasto alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere […] è, dunque, quello di contribuire alla attuazione di un piano di misure sul piano amministrativo, che, al di là di un quadro normativo incompleto, possa essere di supporto alle politiche nazionali e locali nella materia in questione nel rispetto degli obblighi assunti a livello internazionale ed europeo”. vale a dire che se una legge non c’è ancora che ad esempio legittimi i “matrimoni” omosessuali o che sbatta in galera chi pensa che l’omosessualità è condizione contro natura, ci penseranno gli enti locali – comuni, province, regioni – a “legiferare” attraverso il diritto amministrativo e la prassi. Ed infatti quali sono gli ambiti privilegiati in cui intervenire per diffondere la cultura “gender”? Scuola, lavoro, media e sicurezza-carceri. Esclusa l’area dei mezzi di comunicazione di massa, gli altri ambiti sono quelli che classicamente spettano come competenza alle amministrazioni locali.
Va da sé che tale strategia non può essere lasciata all’estro e all’arbitrio del singolo sindaco o del singolo presidente della regione: occorre coordinare gli sforzi. Ed ecco che veniamo a sapere che da tempo esiste “Ready”: una “rete nazionale delle pubbliche amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale ed identità di genere”. Trattasi di una pubblica amministrazione ombra, cioè sconosciuta ai più (e quindi non pubblica), una sorta di servizio segreto gender dedito alla cripto rivoluzione omosessualista. Una rete che agisce in modo carsico mentre l’etero signor Rossi è ignaro di tutto; ignaro, come vedremo tra qualche riga, che il proprio figlio dovrà giurare fedeltà ai “valori” gay e che avrà docenti abilitati all’insegnamento da associazioni omosessuali; ignaro che se dice una parola in più sull’omosessualità potrà essere denunciato sul posto di lavoro e magari perderlo; ignaro che non farà carriera dal momento che gli omosessuali saranno privilegiati perché discriminati.
Ma la rete Ready è solo uno dei tanti tentacoli di questa “gaia” piovra. Infatti si prevede l’istituzione anche di un “Tavolo di lavoro di coordinamento interistituzionale” il quale servirà come interfaccia tra le amministrazioni locali e ben sei ministeri, la Conferenza delle regioni e province autonome e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani. E’ previsto inoltre un tavolo di lavoro con i sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e con dieci sigle del mondo del lavoro: Confindustria, Confcommercio, Confesercenti, Coldiretti, etc. Si spera che ne facciano parte persino l’Ordine dei giornalisti e la Federazione Nazionale Stampa Italiana. Tutti sono coinvolti in questa rivoluzione di velluto e paillettes, anche i “centri scout, palestre, asl, Università della terza età e Università popolari”. Qui siamo al complotto per un nuovo ordine nazionale-europeo pan-omosessualista che non risparmia niente e nessuno.
Questa Spectre arcobaleno chiamata Ready forse ha già prodotto risultati notevoli. A lei potremmo addebitare l’istituzione in numerosi comuni italiani del registro per le coppie di fatto anche omosessuali; l’introduzione del doppio libretto, maschile e femminile, per gli studenti transessuali che frequentano il Politecnico di Torino, l’Università degli Studi di Torino, di Bologna ed ultimamente di Padova; la possibilità che la compagna omosessuale della partoriente lesbica possa aver al polso un braccialetto con scritto non “padre” ma “partner”, come è avvenuto a gennaio presso l’ospedale di Padova; e l’introduzione del voto di genere nelle elezioni amministrative, già legge a Bologna e in Sicilia.
La cultura gender per mettere radici deve trovare terra buona e feconda. In questo senso gli adulti sono ormai una battaglia persa, “legati ad una cultura che prevede soltanto una visione etero normativa”, cioè imprigionati nell’idea retriva che un uomo possa e debba amare una donna e viceversa. Occorre invece intervenire – sempre muovendosi all’interno della Pubblica Amministrazione – sulle nuove leve, le quali sono sprovviste di filtri critici particolari. Ecco allora che la Spectre gay, come ogni servizio segreto che si rispetti, riesce ad inserire i propri emissari nei posti che contano ed infatti si prevede l’“accreditamento delle associazioni LGBT [lesbiche, gay, bisessuali e transessuali], presso il MIUR [Ministero per l’istruzione, l’università e la ricerca], in qualità di enti di formazione”. Detto in altre parole: le associazioni LGBT potranno entrare in classe per indottrinare i bambini e porre alcuni criteri di arruolamento del personale docente. Fuori gli omofobici quindi. Inoltre la formazione su queste tematiche rientrerà nel Piano nazionale di aggiornamento e si prevedono crediti formativi: quindi se lo studente non ripeterà a voce alta che è favorevole all’omosessualità non passerà l’anno.
La rete Ready permetterà una diffusione del pensiero gender davvero capillare. Ad esempio è prevista sempre per le scuole pubbliche una “predisposizione della modulistica scolastica amministrativa e didattica in chiave di inclusione sociale, rispettosa delle nuove realtà familiari, costituite da genitori omosessuali”. Un altro modo di riconoscere le coppie gay seppur solo a livello amministrativo. Inoltre ci sarà un “coinvolgimento degli Uffici scolastici regionali e provinciali sul diversity management per i docenti”. Per “diversity management” si intende la capacità di valorizzare nelle scuole le differenze di etnia, culturali, religiose e dunque anche di “orientamento sessuale”.
Naturalmente ogni buon agente segreto gay si preoccuperà di smascherare i traditori. D’altronde è una spia. Ed ecco che si predispone un “monitoraggio e analisi quanti/qualitativa sugli atti di bullismo nelle scuole, con particolare focus sui casi di bullismo omofobico, trans fobico e sessuofobo”: un Grande Fratello Gender dove la delazione, come ai tempi di Stalin, è considerata una virtù sociale.
La strategia, ammettiamolo, è furba e produrrà frutti abbondanti e velenosi. Porre il focus sulla pubblica amministrazione permetterà di creare una prassi pro-omosessualista che poi il legislatore dovrà per forza di cose legittimare in Parlamento. Occorre creare le premesse fattuali perché successivamente chi fa le leggi registri un dato di fatto ormai esistente. In tal modo poi si risparmierà tempo e risorse scavalcando di un sol colpo infinite discussioni parlamentari e sterili scontri tra partiti, e si eviterà infine di metter sul tavolo del Parlamento qualsiasi merce di scambio – tu mi dai il “matrimonio” gay ed io evito di far sfilare Gay Pride davanti a San Pietro ad esempio -. La rete Ready invece permette di correre dritti dritti alla meta. E la meta è un mondo apparentemente arcobaleno, ma in realtà sprofondato nelle tenebre dell’ideologia.
da Baltazzar | Mag 14, 2013 | Biopolitica, Post-it, Segni dei tempi
di Riccardo Cascioli da www.lanuovabq.it

Scuole e luoghi di lavoro ridotti a campi di rieducazione in chiave omosessuale, e sdoganamento della pedofilia (o almeno della efebofilia, ovvero i rapporti di un adulto con un adolescente). E’ questo lo scenario che ci si prospetta per il prossimo futuro, in quanto l’allora ministro del Lavoro (con deleghe per le Pari opportunità) Elsa Fornero ha aderito sei mesi fa a un progetto sperimentale del Consiglio d’Europa per la lotta alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.
E ora l’Unar (ovvero l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità) ha pubblicato le linee guida per l’applicazione dei princìpi contenuti nella Raccomandazione CM/REC (2010) 5 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, volta a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere: “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”, si chiama.
L’intero documento del nostro governo è improntato al più radicale estremismo gay, mentre è nella Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che si trova l’invito agli Stati membri ad abrogare “qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali” (art. 18). Considerato che in Italia l’età del consenso per i rapporti sessuali è di 14 anni, si vorrebbe che un cinquantenne possa tranquillamente avere rapporti omosessuali con un 14enne senza incorrere in reati. Ma potrebbe andare anche peggio, perché i Radicali stanno da tempo proponendo di eliminare qualsiasi limite di età di consenso.
Pur tralasciando questo aspetto, che non viene direttamente ripreso nella Strategia Nazionale (ma è implicito), il documento dell’Unar è inquietante perché impone l’obbligo di considerare l’omosessualità equivalente all’eterosessualità in tutto e per tutto. E soprattutto non è ammesso alcun dubbio o riserva.
Ma vediamo gli aspetti più inquietanti di questa strategia nazionale:
Tutto ciò che non è approvazione di ogni diritto richiesto dalla comunità LGBT (Lesbiche, gay, bisessuali e trans) è omofobia, rientra in quei “pensieri dell’odio” che la legge punisce severamente . In pratica è obbligatorio pensare che sia sacrosanto il matrimonio tra persone dello stesso sesso, perché come radice dell’omofobia viene indicato l’eterosessismo, vale a dire pensare che solo il rapporto eterosessuale sia naturale. Non a caso si fa riferimento a personalità politiche ed ecclesiastiche, che violerebbero spesso e volentieri questo punto: “incitamenti all’odio e alla discriminazione permangono nelle dichiarazioni provenienti dalle autorità pubbliche e da alcuni rappresentanti delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche, veicolate costantemente dai media italiani”. Sotto questa luce si capisce meglio il “caso Biancofiore”, dapprima nominata sottosegretario alle Pari opportunità e poi spostata perché le organizzazioni gay l’hanno bollata come omofoba: appoggiava in tutto le battaglie del mondo gay, disposta pure a partecipare ai Gay Pride, l’unica cosa che non concedeva era il matrimonio, ed è stata “espulsa” dalle Pari Opportunità.
Né può passare inosservato quel riferimento esplicito alle personalità ecclesiastiche che starebbero incitando all’odio: siccome non risulta che ci siano vescovi che vanno in giro invitando i fedeli a emarginare gli omosessuali o a picchiarli, possiamo facilmente immaginare cosa potrà accadere a chi – sul tema omosessualità – si limiterà anche solo a leggere il Catechismo della Chiesa.
La scuola sarà il principale teatro delle operazioni: cambiamento dei programmi scolastici e indottrinamento forzato sull’argomento per promuovere lo stile di vita LGBT sono i cardini di questa iniziativa. Ecco, ad esempio, alcuni degli obiettivi e delle misure fissati dall’Unar per le scuole: ampliare le conoscenze e le competenze di tutti gli attori della comunità scolastica sulle tematiche LGBT; favorire l’empowerment delle persone LGBT nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni; contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori per evitare discriminazioni nei confronti dei figli di genitori omosessuali; realizzazione di percorsi innovativi di formazione e di aggiornamento per dirigenti, docenti e alunni sulle materie antidiscriminatorie, con un particolare focus sul tema LGBT e sui temi del bullismo omofobico e transfobico; integrazione delle materie antidiscriminatorie nei curricula scolastici (ad es. nei percorsi di Cittadinanza e Costituzione) con un particolare focus sui temi LGBT; riconoscimento presso il Ministero dell’Istruzione delle associazioni LGBT; ulteriori corsi di approfondimento che daranno crediti formativi. Inutile dire che è previsto che siano direttamente le associazioni LGBT a gestire corsi di istruzione sul tema.
Per quanto riguarda il lavoro il discorso è analogo, con l’aggiunta di corsie preferenziali per l’assunzione e la formazione di personale LGBT (dopo le quote rosa anche quelle arcobaleno) e formazione a tutti i lavoratori sul tema per cancellare ogni residuo di resistenza. Corsi di formazione e iniziative varie saranno finanziate con i fondi strutturali europei, vale a dire con i soldi, in massima parte, della Commissione Europea, cioè le nostre tasse. C’è poi l’introduzione forzata di una (quasi) nuova figura professionale, ovvero chi si occupa del diversity management, gestire e valorizzare le diversità.
Ovviamente le diversità in questione sono quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, ma le indicazioni sul diversity management lasciano sconcertati. Ecco alcune indicazioni: creazione di network LGBT all’interno delle aziende e istituzione a livello di alta dirigenza del ruolo di mentore LGBT; estensione di benefit specifici per le persone LGBT, anche in relazione alle famiglie omogenitoriali; certificazione delle aziende gay friendly.
Questo indottrinamento è previsto specificamente anche per giornalisti, tutori dell’ordine pubblico, personale carcerario.
E’ inoltre prevista una inquietante cabina di regia, definita “Sistema integrato di governance”,composto da Unar, organizzazioni di gay e lesbiche, diversi ministeri, Ordine dei Giornalisti, sindacati e così via. La governance peraltro è già una realtà, visto che il 20 novembre 2012 si è costituito il Gruppo Nazionale di Lavoro LGBT.
Il ministro Fornero dunque, avrà pure sbagliato i conti sugli esodati, ma sicuramente ha portato avanti con decisione – e senza fare pubblicità – l’agenda della lobby gay, che se non viene fermata ci porta rapidamente all’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e alla legalizzazione della pedofilia. Non a caso diciamo “se non viene fermata”: la Raccomandazione del Consiglio d’Europa che è alla base della Strategia Nazionale è infatti un protocollo cui si aderisce su base volontaria; non c’è alcun obbligo né morale né politico di recepirlo, tanto è vero che l’Italia è fra i pochissimi paesi che lo hanno fatto. E quindi è possibile per il nuovo governo ritirarsi dal progetto in qualsiasi momento.
La cosa non sarà però facile, per due motivi: il Dipartimento delle Pari Opportunità è dominato da militanti pro-LGBT, e il nuovo ministro delle Pari Opportunità Josefa Idem ha già sposato la visione più radicale. Basta leggere la lunga intervista rilasciata ieri a “Repubblica” per capire che l’intenzione non è solo di procedere nella direzione del matrimonio gay, ma di farlo anche rapidamente. E il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha tutta l’aria di non voler contrastare questa ondata: ha rimosso Michaela Biancofiore da sottosegretario alle Pari Opportunità con il pretesto di un’intervista rilasciata in violazione di un ordine dato di sobrietà e rinuncia al protagonismo; nessuna conseguenza invece per l’intervista – ben più dirompente – del ministro Idem.
Ci sarà in questo governo qualche ministro capace di opporsi a questa deriva, nella convinzione che questa opera di distruzione della famiglia finirà di distruggere la nostra società?
da Baltazzar | Mag 14, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Segni dei tempi
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it
In stato di minima coscienza, la moglie di Vincent Lambert voleva sospendergli alimentazione e idratazione. Il giudice dà ragione ai genitori dell’uomo
Vincent Lambert è un ragazzo di 37 anni che quattro anni e mezzo fa è finito in coma per un incidente d’auto. È rimasto per due anni in stato vegetativo per poi passare a quello di minima coscienza. Come rivelato da sua madre, la cartella clinica di Vincent parla chiaro: risponde agli stimoli, reagisce alle voci dei familiari, le sue pupille seguono le persone che lo visitano ed è capace di sorridere.
Ma lo scorso 8 aprile un’équipe di medici del Centro ospedaliero dell’università di Reims ha deciso, insieme alla moglie di Vincent, di sospendere alimentazione e idratazione facendolo così morire di fatto di fame e sete. La legge Leonetti del 2005, considerata anti-eutanasica, lo permette ma nel caso di Vincent i medici non hanno richiesto il consenso dei familiari, che è obbligatorio.
«AZIONE ILLEGALE». Così, dopo che la sorella e il fratello di Vincent si sono accorti della sospensione di idratazione e alimentazione, i genitori hanno presentato il caso davanti al tribunale amministrativo della città di Châlons-en-Champagne.
La denuncia di tentato omicidio ha portato il giudice Chaterine Monbrun a ordinare lo scorso sabato pomeriggio che all’uomo fosse immediatamente ridata la possibilità di bere e mangiare e che fosse trasferito in un altro ospedale. La sentenza parla di azione «grave e manifestamente illegale» e di mancato «rispetto per il diritto alla vita», sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
I medici che avevano ordinato l’eutanasia di fatto del paziente si sono anche contraddetti: dopo avere negato, al contrario di quanto si sostiene nella cartella clinica, che il malato reagisse agli stimoli hanno affermato che dal suo comportamento il malato sembrava acconsentire alla sospensione, visto che sembrava opporsi alla nutrizione e all’idratazione, rivelando così di essere cosciente.
REAZIONE DEI MEDICI. Per il momento Vincent Lambert è fuori pericolo, ma il medico che ha convinto l’équipe a sospendere idratazione e alimentazione ha chiesto una nuova riunione per decidere le sorti del paziente, questa volta tenendo conto sia del parere dei fratelli e dei genitori sia di quello della moglie. Il medico si è anche opposto al trasferimento in un altro ospedale ordinato dal giudice.