da Baltazzar | Apr 8, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
di Antonio Socci
Quel che non si dice del mitico generale. Il caso più famoso fu il massacro di Bronte. Ma non ci fu solo quello. La storia del Mille e del loro capo è piena di tante ombre. Ecco quel che dovreste sapere e che non vi è mai stato raccontato…
[Da «il Sabato», 31 gennaio-6 febbraio 1987, p. 19]
Carlo Alberto, il re tentenna. Mazzini, l’apostolo della Patria. Garibaldi l’eroe dei due mondi. Cavour, il gran tessitore. E poi il «grido di dolore», «Obbedisco»!, «Ci siamo e ci resteremo», «Qui si fa l’Italia o si muore», «Roma o morte»! e così via. Abbiamo una storia da operetta: bisogna avere proprio un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Qualche storico ha cominciato a dissipar le nebbie su quel colossale falso storico (e dove era leggenda appaiono spesso grottesche pagliacciate e talvolta imprese criminali). Ma gli eroi del risorgimento restano. Il Mazzini ad esempio. Che dire della descrizione che ne dà il Farini fuori dei canoni ufficiali: «Mediocre uomo in tutto, orgoglio stragrande in sembianza d’umiltà», astratte vacuità…? Garibaldi poi è marmo e bronzo.
Lo sceneggiato TV Il Generale di Magni fa di tutto per sfuggire all’enfasi e alla retorica. Ed era ora. Ma la scelta di Franco Nero ha dato un tocco di edulcorata classe holliwoodiana ad un personaggio, il Garibaldi storico, piuttosto rozzo e un tantinello esaltato. Sentiamolo: «Papa e clero disgrazia e cancro d’Italia». Ed ancora: «Il grido d’ogni italiano, dalle fasce alla vecchiezza deve essere: guerra al prete»!. Tale fu la scienza e la ‘classe’ del nizzardo. Appena sbarca in Sicilia si proclama Dittatore, svuota conventi e monasteri, li saccheggia, confisca, scioglie a forza i Gesuiti, imprigiona, stabilisce bivacchi militari nelle splendide chiese meridionali. Garibaldi era stato iniziato alla Massoneria nel 1842 a Montevideo. A Palermo fonda una quantità di Logge. Nel 1864 viene eletto primo Gran Maestro della massoneria italiana e poi Gran Maestro onorario a vita. (Massoni erano pure Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Crispi, Ricasoli e così via). Con lui la massoneria italiana vara una virulenta tradizione anticattolica.
Il nostro eroe che mise al suo asino il nome del Papa, che chiamava Pio IX «un metro cubo di letame» (nel 1881 i massoni dettero addirittura l’assalto al funerale del Papa per scaraventarne la salma nel Tevere) fu il caposcuola su cui si formarono quelle generazioni di liberi-pensatori. Fra questi, qualche anno dopo, il mangiapreti romagnolo Mussolini Benito. Siamo appena nel 1904 quando il giovane rivoluzionario di Predappio attacca Papa Sarto «in nome dell’Anticristo che è la ragione, che si ribella al dogma e abbatte Dio». Pochi anni dopo salirà agli onori della cronaca per un libello blasfemo scritto per celebrare l’anniversario della morte di Garibaldi. Ma ancora nel 1918, direttore de Il Popolo d’Italia, sarà a Milano, sotto il monumento a Garibaldi a celebrare la vittoria. «Fin da giovane Mussolini era stato un esponente tipico, quasi caricaturale dell’ideologia massonica» (Vannoni). La pacata e lucida mente di Jemolo vedrà nel Mussolini, ormai Duce d’Italia, «il più diretto erede del garibaldinismo».
Del resto il «segreto iniziatico» della dottrina massonica non è proprio l’autodivinizzazione dell’uomo e l’idolatria del Capo/Stato? (Nei catechismi patriottici si celebrava in Garibaldi la Trinità: «Il Padre della patria, il Figlio del popolo, lo Spirito della libertà»).
Si potrebbero poi sorprendere i legami del garibaldinismo col fascismo anche attraverso curiosi canali secondari. Il massone, mazziniano, Eduardo Frosini ad esempio, che sedette alla presidenza del I congresso fascista di Firenze (1919), che nel suo giornale La Questione morale (già allora!) per primo propugnò la vocazione imperiale di Roma. Del resto proprio il garibaldino-massone Crispi aveva varato in grande quella politica coloniale imperialista che il Duce si sentirà in dovere di portare a compimento, con la fondazione dell’Impero. Altri generali garibaldini (e massoni) come Nino Bixio, dai massacri di contadini calabresi finiranno i loro anni a mercanteggiare in schiavi cinesi con il Perù. È la singolare epopea dei ‘liberatori’…
La conquista del Sud. Lo sceneggiato televisivo di Magni racconta dunque soltanto il biennio ‘60-’61 del nizzardo. Quello sceneggiato dice e non dice: troppo lontana è la verità dalla leggenda. Proviamo allora a oltrepassare il fronte, per capire finalmente come fu visto Garibaldi, in quei due anni, dalle popolazioni ‘liberate’. Spigolature di un documento eccezionale davvero da antologia, e oggi quasi introvabile. È un libello appassionato e infuocato di un intellettuale napoletano, Giacinto de Sivo, pubblicato quasi un secolo fa clandestinamente e anonimo, e nel 1965 ristampato in copia anastatica da un piccolo editore: I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. È la stessa storia, ma stavolta scritta dai vinti: il grido di ribellione di un popolo non solo colonizzato e umiliato dai sedicenti ‘liberatori’ ma per di più coperto di menzogne nella storia ufficiale, quella scritta dai vincitori. «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese».
L’altrastoria. Il Regno delle due Sicilie è libero e indipendente fin dal 1734, con un re italianissimo, napoletano. Non è una terra ricca solo di passato (da Cicerone a Orazio, a S. Tommaso a Vico a Tasso…): ha una grande tradizione giuridica, enormi ricchezze artistiche e — si direbbe oggi — ambientali. La statistiche dicono: in proporzione meno poveri che a Parigi e Londra, le tasse più lievi d’Europa, la prima flotta d’Italia, una popolazione cresciuta di 1/3 dal 1800 al 1860, un debito pubblico di appena 500 milioni di Lire per 9 milioni di abitanti, contro il Piemonte che ha più di mille milioni di debito per quattro milioni di abitanti (il sud in sostanza dovrà pagare i debiti del Piemonte, anche. quelli fatti per conquistarlo). Inoltre «erano in cassa 33 milioni di ducati quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani e li fe’ disparire».
Il re di Torino, di origini e lingua francese aveva spedito un nizzardo a «liberare dagli stranieri» una terra governata da un re ben più italiano di lui (per di più Napoli era, in confronto a Torino quel che oggi sarebbe Firenze in confronto ad Aosta). Ma il re di Napoli, cattolico e sostenitore del Papa, negli equilibri internazionali era sostanzialmente isolato.
Dunque come possono 1000 uomini male armati e peggio vestiti distruggere così un Regno con un esercito di 100.000 uomini? I vincitori rispondono (e hanno scritto): per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni. In realtà Garibaldi poteva esser rigettato in mare fin dallo sbarco. La vera arma vincente che spianò la strada al nostro fu quella della massoneria piemontese e francese che fra burocrati, ufficiali e ministri si era comprato tutto il Palazzo di Francesco II: «La setta corrompe e inventa la storia» scrive De Sivo, «sospinge l’umanità a subire la tirannide o ad esser tiranna». Qualche esempio. A Calatafimi il generate Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedisce ai suoi di sbaragliare i garibaldini già in rotta. Senza alcuna ragione 20.000 soldati vengono fatti uscire da Palermo senza colpo ferire. E poi Milazzo, Messina: migliaia di soldati di Francesco spediti sulle montagne lontane. Il generale Ghio ne disciolse 10.000. Altrettanti il generale Briganti che però viene fucilato sul posto, per alto tradimento dai suoi stessi soldati. E poi altri ufficiali leali al re costretti a disarmare le proprie truppe e a consegnare migliaia di soldati a qualche decina di garibaldini che avevano loro stessi sbaragliato e ridotto alla resa. E infine le sconfitte di Garibaldi sul Volturno e l’incredibile comportamento degli ufficiali di Francesco che avevano ormai Napoli e la vittoria definitiva a portata di mano.
Un generale Cialdini, ad esempio che passò con Garibaldi mitragliando le popolazioni insorte contro il suo tradimento (come, anni prima, erano insorte contro Pisacane). Decine dl città «reazionarie», che avevano organizzato la resistenza (da Isernia, a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, S. Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai Garibaldini. Villaggi, cascine, molini, saccheggiati, contadini massacrati (non solo a Bronte). «Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava del prete» scriveva il traditore generale Pianelli nel febbraio ‘61, passato coi ‘liberatori’.
«Napoli non avversa l’Italia» scriveva appassionatamente il nostro De Sivo, «ma combatte la setta, che è anti-italica, com’è anticristiana e anti-sociale, atea e ladra». Da questa ribellione nasce il brigantaggio contro l’occupante piemontese. «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?».
Il De Sivo si appella ad un’Europa complice e connivente dell’invasore: «La setta» scrive «deruba, distrugge e poi ci impone i suoi maestri piemontesi, le sue leggi, i suoi debiti, il suo vocabolario e gli esempi di laidezze e rapine e irreligione e ferocia». Si ha un bel deprecare, oggi, la proverbiale diffidenza dei popoli del meridione d’Italia verso le istituzioni e lo Stato; e condannar la mafia e cosi via. Del resto proprio gli espropri dei beni della Chiesa nel Sud, con cui a Torino si costituirono te finanze del nascente Stato massonico, sono fra le cause del futuro sottosviluppo del sud, del suo ritardo nei confronti del nord, che ha esportato i debiti e importato le ricchezze. «Il primo frutto dell’unità è l’aumento dei balzelli pubblici… Oh le promesse dei settari! A voi basta il gridar popolo e civiltà per saccheggiare i popoli civili».
Ma il parlamento piemontese non ci pensa due volte ad annettersi le provincie meridionali: era un Parlamento eletto da 100 mila persone per 24 milioni di abitanti (al 95% contadini e cattolici). Un parlamento ‘liberale’: «Codesti sedicenti deputati, ignoti al popolo, corifei della setta, eletti da se stessi…». Per salvar la faccia Garibaldi, ad annessione già avvenuta organizzò un plebiscito: era il 21 ottobre 1860. I risultati ufficiali furono proclamati su piazze e strade deserte: 1.313.376 per l’annessione e 10.312 contro. Anche a prender per buone cifre tanto balorde, si deve comunque pensare ad una minoranza sui 9 milioni di abitanti.
Ma quel che era accaduto in quei giorni, sui libri dei vincitori non sta scritto. Aggressioni, uccisioni, arresti, intimidazioni. Grandi cartelli dichiaravano «Nemico» chi votava No; il voto peraltro non fu segreto: furono poste due urne palesi e quelle del No «coperte da bande di camorristi». Anche astenersi era colpa di Stato: «Salvar la vita, in quei giorni era pensiero universale». E poi garibaldini — anche stranieri — che votavano anche 10, 20 volte: perfino Garibaldi, Bixio e Sirtori non si vergognarono di votare. E per chi si ribellava era dura. Ad esempio si può ricordare il rapporto del governatore garibaldino della Capitanata: «Insurrezioni nel giorno del plebiscito: si son fatti sforzi eccezionali perche l’insurrezione non sia generale». (segue la richiesta di armi e soldati). O il suo collega di Teramo che proclamava lo stato d’assedio nei comuni della provincia ancora 9 giorni dopo il plebiscito: «I reazionari presi con le armi saran fucilati»!.
Agli stati d’assedio, i brogli, le violenze, vanno aggiunte le galere piene di «reazionari», gli esiliati, i fucilati… «Ma alla setta bastava mostrare all’Europa una maggioranza di cifre». Sarà un testimone d’eccezione, Lord Russel in un dispaccio del 24 ottobre a testimoniare che «i voti che ebber luogo in quelle province non han grande valore…». Ma la scuola dei vincitori racconta ben altro: dice che la gran capitale di un Regno, la bellissima Napoli fu entusiasta di diventare una prefettura di Torino. «Lasciate dal vantar plebisciti. Dite che son fatti compiuti; e sì che son compiuti, ma per restar monumenti eterni di vostra nequizia. Voi, gretta minoranza, volete imporre il vostro pensiero ad una nazione, e col pensiero i ceppi… un pugno di tristi vuol comandare a milioni; perciò destituisce, disarma, condanna, pugnala, carcera, esilia, fucila ed incendia.
Siete atroci perche pochi; siete costretti a dar terrore, perché vi manca il numero; dovete far seguaci con la corruzione perché non avete il concorso della virtù».(De Sivo). Questa fu l’epopea del ‘liberatore’ Garibaldi raccontata dal popolo ‘liberato’. Sui libri di scuola (la scuola dei vincitori) si trova al capitolo: Risorgimento.
da Baltazzar | Mar 31, 2010 | Controstoria
«L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani». Questa frase, attribuita a D’Azeglio, l’abbiamo imparata dai sussidiari ma forse mai ci siamo soffermati a soppesarne l’incongruenza. Sì, perché testimonia il tipico giro mentale degli ideologi a tavolino, che «creano» quel che prima non c’era. Dunque, a sentir D’Azeglio o chi per lui, non c’erano né l’Italia né gli italiani prima del Risorgimento. Invece gli italiani c’erano, eccome. E l’unità politica della penisola non fu fatta in modo corale, ma tramite l’allargamento dello Stato meno italiano di tutti, il Piemonte, a spese di quelli italianissimi Pontificio e Borbonico.
Quello staterello periferico che parlava francese dovette trovare i denari necessari al suo progetto e gli appoggi internazionali. I primi li reperì col solito metodo, quello di cui si erano serviti l’Inghilterra di Enrico VIII e la Francia di Robespierre per costruire la loro potenza: espropriare i beni ecclesiastici. I secondi li ebbe dalle forze antipapiste: il protestantesimo soprattutto inglese e la massoneria. Per realizzare lo scopo non esitò di fronte a nulla, arrivando a infilare la sua più altolocata cocotte nel letto di Napoleone III. Così è stata «fatta» l’Italia, il resto è pura mitologia. La storia, si sa, la fanno i vincitori. Ma negli Usa, per esempio, le vicende della guerra civile sono sciorinate tranquillamente, con grande rispetto per i vinti; e lo stesso dicasi per il genocidio dei pellerossa. Senza che ciò faccia venir meno il patriottismo o incrini l’unità nazionale. Invece, da noi, ogni «revisionismo» è attaccato come oltraggio alla Patria.
Angela Pellicciari è una di quegli studiosi che al mito preferiscono la verità, convinti che può fare solo del bene. Già nota per i suoi libri sul Risorgimento (tra cui I panni sporchi dei Mille, edito dalla casa editrice di liberal, rivista che, meritoriamente, non si vergogna di far sapere che il liberalismo ottocentesco, molto diverso da quello odierno, era, ma sì, totalitario), ha messo sottosopra le biblioteche per trovare una copia del fondamentale Memorie per la storia dei nostri tempi dal Congresso di Parigi del 1856 ai primi giorni del 1863, di don Giacomo Margotti, giornalista dell’Armonia ed eletto nel 1857 al parlamento torinese (elezioni annullate da Cavour perché avevano sancito la vittoria dei cattolici). Si tratta di quasi duemilatrecento pagine di citazioni, documenti, cronaca: importantissime per la storia e per gli storici. Invece, neanche gli istituti di storia patria ne possiedono copia. La Pellicciari ne ha trovata una, fortunosamente, a Messina. E ne ha estratto le duecento pagine che documentano in modo inoppugnabile la vera e propria persecuzione anticattolica (con arresti di vescovi e preti, anche di quelli che rifiutavano di cantare il Te Deum per gli scomunicati autori della violenta «modernizzazione» dell’Italia) con cui fu «fatta» l’Unità. Che fu anche guerra civile tra italiani (erano italiani, italianissimi, infatti, i pontifici e i duosiciliani) e che trasformò in emigranti per fame milioni di meridionali. Don Margotti, ideatore sul suo giornale della formula «né eletti né elettori», fu anche oggetto di intimidazioni e attentati. Qualcuno doveva pur fare uscire la sua opera dall’oblio, anche se per un decimo. Speriamo che altri storici prendano in considerazione il resto. Infatti, il non sapere come fu veramente fatta l’Italia rischia di perpetuare i problemi nati allora e mai risolti. Federalismo in primis.
Angela Pellicciari, Risorgimento anticattolico, Piemme, 214 pagine, 14,50 euro
da Baltazzar | Mar 30, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
di Rino Cammilleri
Chi ha visto il film di Ridley Scott Le crociate è stato confermato nell’idea che dall’Illuminismo in poi l’Occidente ha sul tema: a) i crociati erano rozzi e crudeli, mentre gli islamici erano raffinati e tolleranti; b) l’imperialismo europeo attaccò senza provocazione i pacifici musulmani; c) Saldino era un galantuomo e i crociati dei farabutti; d) da allora i musulmani ci odiano con ragione. Questo mucchio di corbellerie è ribaltato nel più bel libro che mai sia stato scritto sull’argomento: Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate (Lindau, pagg. 365, euro 24,5) di Rodney Stark. Sì, perché è vero l’esatto contrario di tutti i punti summenzionati. Innanzitutto, i musulmani cominciarono a interessarsi alle crociate solo quando l’Occidente le mise loro in testa, cioè alla fine del XIX secolo. Non solo gli arabi contemporanei quasi non se ne accorsero, perché si trattava solo di invasioni periodiche durate poco e per nulla rivolte contro l’islam in quanto tale. Anzi, i musulmani sudditi dei regni latini di Palestina e Siria erano pure contenti perché i cristiani non li consideravano dhimmi (diversamente da quanto facevano i governanti islamici con cristiani ed ebrei) e le tasse che pagavano erano più leggere che nei circostanti regni musulmani.
«Per molti arabi, inoltre, le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi». Infatti, fu quando arrivarono, a mano armata, i turchi – che massacravano i pellegrini – che ebbero inizio le crociate. Le quali ebbero il merito, per la civiltà europea, di fermare l’espansionismo turco per due secoli, dopo i quali l’Europa si ritrovò a doversi difendere fin dentro casa per i successivi quattro.
Per quanto riguarda il Saladino, il romanticume sulla sua figura ammaliò anche il Kaiser, Guglielmo II, il quale depose sulla sua tomba una corona bronzea d’alloro (che poi Lawrence d’Arabia, come tutti gli arabi nemico dell’Impero ottomano, fece sparire). Nel film succitato il giudizio è identico. Eppure, dopo la disfatta inflitta ai cristiani ad Hattin, così il suo segretario, Imad ad-Din, descrisse quel che fu fatto ai templari e agli ospitalieri catturati: «Ordinò che fossero decapitati, preferendo l’ucciderli al farli schiavi. C’era presso di lui tutta una schiera di dottori e sufi, e un certo numero di devoti e asceti: ognuno chiese di poterne ammazzare uno», cosa che Saladino concesse volentieri. Non è vero che mandò liberi tutti gli abitanti di Gerusalemme: metà di questi non poté pagare l’esoso riscatto e fu venduta schiava. Stark dice la sua anche sulla famosa Quarta crociata, quella che conquistò Costantinopoli anziché la Terrasanta. E anche qui rimette le cose a posto. Fin dalla prima spedizione, i bizantini avevano sempre mantenuto un atteggiamento sleale nei confronti dei crociati, tradendoli a più riprese. Addirittura, l’imperatore Isacco II si era alleato col Saladino contro i latini per favorire i greco-ortodossi; presa la Terrasanta, Saladino, secondo i patti, aveva consegnato a questi ultimi ogni chiesa latina. Ora, ancora un volta, la richiesta d’aiuto era partita da Costantinopoli e ancora una volta gli europei avevano risposto. E ancora una volta, giunti sul posto, erano stati traditi. Così, stimarono che l’unico sistema per non essere pugnalati alle spalle era insediare uno di loro a Costantinopoli.
Un’altra leggenda nera da sfatare è il massacro seguito alla presa di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione alla prima crociata: la città conteneva sui diecimila abitanti, dei quali caddero solo duemila. Nulla a che vedere con i massacri indiscriminati compiuti dai musulmani, specialmente quelli di Baibars e dei mamelucchi, che causarono la fine dei regni latini in Oriente. Massacri, per giunta, tutti compiuti in dispregio della parola data: ambasciatori decapitati, i monaci del Monte Carmelo interamente trucidati, eccetera. Il «peggiore massacro dell’intera epoca delle crociate» fu quello di Antiochia, perpetrato dal musulmano Baibars. Eppure, eccone il ricordo da parte degli storici occidentali: «Steven Runciman gli dedica ben otto righe; Hans Eberhard Mayer una; Cristopher Tyerman, che si era dilungato per molte pagine sugli efferati dettagli del massacro di Gerusalemme nella prima crociata, liquida la carneficina di Antiochia in quattro parole; Karen Armstrong riserva dodici parole al resoconto della strage, di cui attribuisce poi la colpa agli stessi crociati, poiché era stata la loro minaccia a creare un “nuovo islam”».
Perché fallirono le crociate? Dopo aver fatto presente che i regni latini d’Oltremare pur ebbero la stessa durata degli odierni Stati Uniti, Stark punta il dito sulle tasse: mantenerli dissanguava l’Europa. Circondati dalla marea ostile, lontani migliaia di chilometri da casa, richiedevano continui rifornimenti di uomini e mezzi, nonché spedizioni ricorrenti per difenderli o riconquistarli. La fede (sì, la fede) aveva reso sopportabile ogni sacrificio e ogni defaillance era stata imputata ai peccati dei cristiani. Ma quando un santo come Luigi IX vi fallì (e morì) nel corso di ben due delle spedizioni in assoluto meglio organizzate, i cristiani si chiesero se davvero «Dieu le volt» o non era il caso di lasciare per sempre i Luoghi Santi al loro destino.
«Il Giornale» del 29 marzo 2010
da Baltazzar | Mar 26, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
di Massimo Introvigne
Del lato esoterico degli avvenimenti dell’800 italiano, Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, si è occupato a lungo nei suoi studi da sociologo delle religioni. E, in quanto torinese, con un occhio speciale sul lato occulto di una città che ha avuto un ruolo di primo piano nella lotta contro il papato.
Siamo figli di un Risorgimento esoterico?
«Bisogna distinguere tra Unità d’Italia e Risorgimento: il progetto dell’Unità non è stato esclusivamente esoterico o massonico o laicista, perché c’erano ovviamente anche grandi cattolici – pensiamo al beato Francesco Faà di Bruno o a Rosmini – che sposavano questa causa e la giudicavano cruciale per lo sviluppo dell’Italia, in un mondo in cui andavano affermandosi i grandi Stati nazionali. Il Risorgimento è stato invece una modalità di realizzare l’Unità segnata da forze che, approfittando del fatto che si sarebbe costruito uno Stato nuovo, volevano plasmarlo secondo i propri ideali massonici o pre-massonici. Uno Stato simile alla città che avevano già sognato i Rosacroce del ’600: totalmente svincolata da una tradizione religiosa specifica e in particolare, giacché si trattava dell’Italia, dalla tradizione cattolica. Uno Stato frutto di ingegneria sociale, caratterizzato dal relativismo delle idee e delle religioni».
Garibaldi e Mazzini sono i nomi che vengono subito in mente.
«Infatti, quest’ideologia viene perseguita in modo particolarmente consequenziale da chi aveva frequentato la massoneria internazionale. In un personaggio come Garibaldi è facile trovare riferimenti a tal proposito, con una buona dose di violenza nei confronti della tradizione cattolica e con elementi estremi, per esempio l’idea di sostituire il cattolicesimo con lo spiritismo, che Garibaldi coltivò molto seriamente, diventando primo presidente della Società spiritica italiana, oltre che gran maestro della massoneria. Lo stesso vale per Mazzini, che aveva frequentato altri ambienti, magari non direttamente massonici, ma con forti interessi esoterici. In lui troviamo un’utopia più ispirata alla sostituzione del cristianesimo con spiritualità orientali, con l’idea di reincarnazione, ecc.».
Come giudicare l’atteggiamento dei “cattolici” Savoia?
«Il progetto risorgimentale non è pensato inizialmente dai Savoia, ma da altri che poi trovano in casa Savoia uno strumento. Casa Savoia è interessante perché da quando decide di diventare una dinastia di respiro europeo, nel ’500, si presenta come un impasto singolare di cattolicesimo e di esoterismo. I Savoia rinascimentali, in cui sono presenti figure che hanno aspirazioni di santità e favoriscono la Chiesa, sono gli stessi che costruiscono un mito per accreditarsi fra le case reali europee: quella della loro discendenza dai faraoni egizi, che nel clima rinascimentale di riscoperta di spiritualità pagane e precristiane funzionava molto bene. Il museo egizio verrà molto dopo, con Napoleone, però che Bonaparte scelga Torino per creare questa istituzione non è casuale. Nella corrispondenza di fine ’600 tra il beato Sebastiano Valfré e Vittorio Amedeo II di Savoia, di cui il Valfré era confessore, si nota tutta l’ambivalenza del nobile sabaudo. Che da una parte manifesta un anelito cattolico, dall’altra riempie la corte di maghi e astrologhi. Un’ambivalenza che ha quindi radici molto antiche e che si manifesta clamorosamente nell’800».
Carlo Alberto “re tentenna” anche per quanto riguarda il rapporto con la Chiesa?
«In Carlo Alberto resta viva, direi, una cattolicità di fondo. All’inizio sembra assecondare i progetti – pensiamo all’espulsione dei gesuiti – di forze che si possono definire proto-massoniche, perché in realtà la massoneria nel Regno di Sardegna, vietata da Vittorio Emanuele I nel 1814, si ricostituisce con la sua regolarità formale solo nel 1859, anche se era già esistita nel ’700 e diversi nobili mantenevano rapporti con logge francesi e di altre parti d’Europa. Poi, quando vede che ne vogliono fare uno strumento di una politica anti-cattolica a senso unico, Carlo Alberto saluta e se ne va. Ci sono lettere in cui scrive: “Il mestiere di Re mette in pericolo la salvezza della mia anima”».
Vittorio Emanuele II appare molto meno ambiguo…
«In lui la vocazione esoterica di casa Savoia, di cercare la propria grandezza in un disegno alternativo al cristianesimo, in un’ingegneria sociale che ha una forte matrice massonica, prevale. Ciò non impedisce che nella famiglia il filone cattolico continui, pensiamo a figure come Maria Cristina o Maria Clotilde. Del resto, i casi di famiglie reali che annoverano gran massoni e grandi cattolici non sono isolati. Prendiamo per esempio il libro di Jean Van Win su Leopoldo I del Belgio come “re massone”. Poi si arriva a Baldovino, di cui sembra si voglia aprire una causa di beatificazione. Lo stesso discorso si può fare per la famiglia reale brasiliana. Diciamo che Casa Savoia ha sempre tenuto un piede nella santità e uno nella scomunica».
Il ruolo dominante dei “piemontesi” nell’Unità – che tanto è stato discusso sotto il profilo economico e politico – che ricadute ha avuto negli equilibri massonici del nuovo Stato?
«Occorre sempre distinguere fra la massoneria come istituzione formale con le sue logge e la mentalità massonica, che è relativista, laicista, antidogmatica e portatrice in Italia di un’idea di nazione astratta che cerca fondamenta alternative rispetto alle radici cristiane e al rapporto strettissimo con la Chiesa cattolica che invece ha sempre caratterizzato il nostro Paese. Se parliamo di logge massoniche in senso stretto, il Piemonte è alle origini della ricostituzione della massoneria che, dopo la caduta di Napoleone e la restaurazione, era stata vietata in quasi tutti gli Stati pre-unitari. Il processo va dalla creazione della Loggia Ausonia a Torino nel 1859 alla fondazione subito dopo, sempre a Torino, del Grande oriente italiano che ha come primo gran maestro il piemontese Costantino Nigra, strettissimo collaboratore di Cavour. Se ampliamo il discorso alla mentalità massonica, questa è al cuore del Risorgimento – distinto, appunto, dall’unità – così come lo interpreta e lo promuove la cultura piemontese dominante, con effetti che si fanno sentire ancora oggi».
da Baltazzar | Mar 25, 2010 | Controstoria
di Franco Cardini
Anzitutto, una premessa. Non mi pare si possa eludere la questione di un ripensamento serio sul cosiddetto ‘Risorgimento’ (che cosa mai sarebbe ‘risorto’, in particolare?) e sul processo di unità nazionale. Al riguardo parlare di istanze ‘revisionistiche’ o addirittura ‘temporalistiche’ o cose del genere mi sembra del tutto fuori luogo. La storia si deve ripensare di continuo. Oggi, a distanza di 150 anni dalla fondazione del regno d’Italia, è evidente che molte prospettive sono andate mutando e che su di esse hanno senza dubbio lavorato gli specialisti, ma sono mancati sia (almeno in parte) un vero e proprio aggiornamento nelle scuole, sia un dibattito mediatico fruibile da parte del ‘grande pubblico’, vale a dire di quella porzione della società civile italiana che non ha ancora rinunziato a esser tale. Quello che in sintesi mi pare si possa dire, è che il processo di unità nazionale fu mandato avanti da alcune élites peraltro non concordi fra loro, ma che la maggioranza delle popolazioni che costituivano la futura Italia unita ne restarono estranee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizzati da un processo dinamico analogo, vale a dire che solo ristrette élites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello Stato unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazziniani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari Stati italiani precedenti; la sto- ria d’Italia è eminentemente policentrica e municipalistica, per cui una soluzione di tipo ‘federale’, analoga mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del Sud da parte del Nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno.
Secondo: il carattere élitario del ‘movimento risorgimentale’ nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella ‘nazionalizzazione delle masse’, nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, ‘democratici’ o ‘rivoluzionari’ che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò – attenzione! – porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come ‘quarta guerra d’Indipendenza’ e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e alfine anche di Mussolini) era corretta. Attenzione: non sto dicendo che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto ‘l’invasione degli Hyksos’ come sosteneva Benedetto Croce.
Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalista, indicata da Gioberti ma soprattutto – da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa ‘questione meridionale’, non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra Stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il Paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome); probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il ‘Commonwealth’ austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra francoprussiana del 1870 ch’è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire. Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una Lega franco-ispano-italo-bavaro-austroungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie- linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla Russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale.
Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista. E dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una ‘falsa partenza’. Per cui c’è molto da discutere e da studiare. Ma c’è poco da celebrare.
«Avvenire» del 24 marzo 2010
da Baltazzar | Mar 19, 2010 | Controstoria
di padre Piero Gheddo*
ROMA, giovedì, 18 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il 6 marzo scorso “Avvenire” ha pubblicato un’interessante intervista di Andrea Galli ad Angela Pellicciari sul Risorgimento italiano e la Chiesa. La Pellicciari ha studiato a fondo questo tema e afferma che “tutte le fonti dell’800, sia da parte cattolica che massonica, dicono la stessa cosa: che la fine del potere temporale del Papa era l’obiettivo di forze internazionali legate al protestantesimo e alla massoneria per distruggere la Chiesa”.
La prof.ssa Pellicciari ha comunicato i risultati dei suoi studi in alcuni volumi che vanno segnalati: “Risorgimento da riscrivere” (Ares 1998), “I panni sporchi dei mille” (Liberal 2003), “Risorgimento anticattolico” (Piemme 2004). Insomma, liberali e massoni erano convinti che togliendo al papato il suo potere politico e le sue ricchezze, questo sarebbe crollato anche spiritualmente, perchè proiettavano sulla Chiesa le loro categorie.
Pio IX (1792-1878) era favorevole, e con lui tutti i cattolici, ad un’Italia unita. Ma quando questo progetto inizia ad essere realizzato dai Savoia e dal loro governo liberal-massonico in modo violentemente anti-cattolico (un solo esempio su tanti altri: sopprimendo nel 1855 i gesuiti e tutti gli ordini religiosi e requisendo le loro proprietà), il Papa e i cattolici che lo seguivano si dimostrano contrari. Il timore era che la sede di Pietro sarebbe finita sotto il potere di uno Stato dichiaratamente anti-cattolico, nelle opere anche se non nello Statuto Albertino del 1848, che dichiarava il cattolicesimo religione di Stato e rimane alla base dell’Italia unita!
Perché segnalo questo tema? Perché merita di essere conosciuto e studiato, non per creare divisioni fra credenti e non credenti, ma per essere informati sul come mai il beato Pio IX, dopo aver favorito l’unità d’Italia nel 1948, assunse poi una ferma posizione contro i primi governi dell’Italia unita e capire il perché delle molte opposizioni ad una sua beatificazione, avvenuta il 3 settembre 2000 da parte di Giovanni Paolo II.
Ma il giudizio sul Risorgimento italiano interessa anche chi, come il sottoscritto, ha studiato la storia del Pime, pubblicando un “volumone” per i nostri 150 anni: vedi P. Gheddo, “PIME 1850-2000.150 anni di missione” (EMI 2000, pagg. 1228, Euro 25,00). Il Pime è stato fondato da mons. Angelo Ramazzotti, approvato e fatto proprio dai vescovi lombardi nel 1850, come “Seminario lombardo per le missioni estere”. In quei tempi i missionari dell’Istituto erano conosciuti come “papalini”, perché le due personalità rappresentative del nascente Pime (nel 1926 acquista questo nome), mons. Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e poi patriarca di Venezia, e mons. Giuseppe Marinoni, primo direttore del Pime, difendevano Pio IX e il suo potere temporale, come garanzia di libertà per poter esercitare il suo ministero universale.
Marinoni fondò nel 1964 a Milano il quotidiano “L’Osservatore cattolico” (superando «indescrivibili difficoltà»), proprio allo scopo di difendere il Papa e la Chiesa dalle calunnie e dai sistematici attacchi della stampa di quel tempo. E già il 22 settembre 1859 Marinoni si era rifiutato di illuminare San Calocero, contravvenendo all’ordine del governatore di Milano, che aveva disposto l’illuminazione di tutti gli edifici religiosi di Milano per onorare la deputazione della Romagna venuta ad offrire a Vittorio Emanuele II il potere politico della regione, già appartenente al governo pontificio. Fu l’unica disobbedienza nella capitale lombarda!
I missionari di San Calocero (così chiamati dalla loro chiesa a Milano) erano presi di mira dai giornali anti-cattolici, particolarmente attivi. Ecco le gentili parole che «Il Pungolo» dedica alla partenza dei missionari nel gennaio 1865: «I giornali clericali annunziano che mercoledì venturo partiranno da Milano tre missionari con due suore di carità per le Indie orientali. Furbi quei missionari! Hanno trovato che, in certi paesi barbari, le suore possono servire assai bene. Buon viaggio a loro! Così tutti i frati e le monache che poltriscono nei nostri conventi, si decidessero a partire per le Indie! Ci farebbero un gran servizio!».
Nel 1867, ancora «Il Pungolo», preoccupato per la voce di una prossima nomina di Marinoni a vescovo di Como, scrive che «il famoso Marinoni… si può dire il comandante generale del biscottismo milanese»… Nel milanese i cattolici papalini erano chiamati “biscotti”, cioè cotti due volte. E’ appassionante conoscere la storia del nostro grande e bel paese, non per dividerci (siamo tutti italiani!), ma solo per capire bene come siamo nati. Conoscendo la storia si capisce anche l’attualità.
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.