da Baltazzar | Ott 14, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 11,29-32
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone. Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona».
Il commento di don Antonello Iapicca
Come le folle anche noi ci “accalchiamo” per carpire da Gesù un «segno» che ci dia “il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io” (J. Ratzinger). Ci illudiamo di chiedere a Dio un “segno” per orientare verso di Lui le scelte ma, quando non sono soddisfatte le nostre passioni, si svela la “malvagità” che coviamo nel cuore. Il volto scuro come Caino, e gelosie, invidie, ira e rancori capaci di uccidere il fratello per vendicarsi di Dio. Stentiamo a convertirci, nonostante nella Chiesa «Uno più grande di Giona» bussi ogni giorno alla nostra vita; è Cristo vivo nel suo Corpo che, con pazienza e misericordia, ci ammaestra con la predicazione e ci nutre con i sacramenti. Grazie al “segno di Giona”, all’annuncio del Vangelo in quel momento difficile della nostra vita, siamo stati salvati, e siamo salvi ora: il matrimonio è rinato, ed è nato il piccolo che neanche un pazzo avrebbe potuto immaginare. «Meritevoli d’ira» come questa «generazione malvagia», per Grazia siamo stati raggiunti dal suo amore e scelti come una primizia per divenire il «segno del Figlio dell’uomo» per ogni uomo.
Ma che ne abbiamo fatto della nostra primogenitura? Forse l’abbiamo truccata per adattarla ai nostri desideri, e siamo scivolati in un’ipocrisia insopportabile. Per questo i pagani ci giudicheranno, come tutti coloro che hanno disprezzato le grazie ricevute per accogliere il Messia e convertirsi. I pagani subentreranno ai primogeniti che hanno rigettato la primogenitura per un piatto di lenticchie, duemila anni fa come oggi. Attenzione quindi, perché esiste il «giorno del giudizio», la vita non è un gioco e poi “tana libera tutti”…. Ci sarà un giorno nel quale gli uomini saranno giudicati, e i cristiani ancor più
approfonditamente… Il giorno in cui i pagani si «alzeranno» e ci «giudicheranno» per non esserci convertiti; a loro sarebbero bastate le «briciole cadute dalla nostra tavola»… Ma il «giorno del giudizio» è anticipato nella storia, è anche «oggi»: al lavoro, a scuola, al bar, tra i parenti, la sofferenza di chi non ha conosciuto Cristo ci «giudica» in attesa del segno della nostra conversione, la fede adulta che si fa amore. Il collega di ufficio, lontano dalla Chiesa e nemico dei preti, con una situazione familiare fallimentare eppure incapace di accettarlo, che a sentirlo sembra vivere la migliore delle vite possibili; ebbene, proprio lui “si alzerà” dal suo tavolo di lavoro e ti chiederà aiuto. A te, che ha sempre disprezzato, insultato ed emarginato, a te chiederà luce e consolazione per non impazzire di fronte all’incidente che si è portato via il figlio sedicenne. Se non ti sarai convertito oggi non potrai dargli nulla, e dovrai rimandarlo a mani vuote; e la tua vita, alla quale Dio ha voluto legare la sua, precipiterà all’inferno, nella solitudine dove sono condannati a vivere quanti non hanno accolto l’amore e non hanno potuto diffonderlo. Proprio tu, Che ai suoi occhi appari come un cristiano… E così con tua moglie, i tuoi figli, che ti giudicheranno vuoto come una zucca…
Ma c’è speranza, proprio oggi: basta non difenderci, lasciarci giudicare e convertirci, ascoltare e accogliere la predicazione. Questo significa smetterla di crederci a posto, o almeno non poi così male, e ricordare la “cenere” dalla quale siamo stati tratti. Accettare di essere andati per la vita come i niniviti, senza distinguere la destra dalla sinistra, sbattendo sui muri della discomunione mentre credevamo di aver imboccato la strada giusta dell’amore. Purtroppo dietro a quella scelta non vi era lo Spirito Santo ma l’inganno del demonio: accettiamolo, convertiamoci una volta per tutte, riconosciamo che quella presa di posizione ha ucciso nostra moglie; che quel criterio ha ferito e umiliato nostro figlio; che quel progetto che abbiamo idolatrato ha escluso e allontanato il fratello. Umiliamoci allora, e “vestiamoci di sacco” anche noi come gli abitanti di Ninive; digiuniamo di parole e cibi, umiliamo il corpo con il quale abbiamo ucciso e scandalizzato. E, con il cuore contrito come quello di Davide, riconosciamo di aver peccato e accettiamo le conseguenze, come uomini adulti, finalmente. Solo così potremo, come la Regina di Saba, muoverci dagli “estremi confini della terra” dove siamo scappati ingannati dal demonio, e tornare a Cristo, alla Sapienza fatta carne. E da Lui implorare con sincerità il discernimento che plasma in noi occhi nuovi per guardare gli eventi con fede adulta, che sa identificare nella storia i segni di Cristo. Convertirsi oggi è smettere di chiedere capricciosamente e infantilmente che persone e fatti siano piegati ai rantoli della nostra concupiscenza; e chiedere la Sapienza della Croce, l’unica capace di svelare i segreti della storia e delle vicende della nostra vita, di quella dei figli e di ogni uomo. Per ottenerla occorre però accettare la nostra debolezza, anche la nostra carne capricciosa, e consegnarla alla misericordia di Cristo, insieme con tutto noi stessi, così come siamo. Gettiamoci tra le sue braccia, lasciamoci crocifiggere e nascondere nelle sue piaghe: le sue carni ferite, i “segni” dei chiodi sono le “uscite di sicurezza” che possiamo attraversare senza paura, per passare dalla carne allo Spirito, e “convertire” i peccati in Grazia. Lasciamoci immergere nella fonte della sua misericordia dove cresceremo sino alla fede adulta capace di discernere. Attingiamo ai sacramenti, ascoltiamo, scrutiamo e meditiamo la Parola, mettiamoci all’ultimo posto. Lasciamo che Gesù, in ogni istante, ci faccia una sola cosa con Lui, perché nell’ultimo giorno, il dolore di chi ha atteso di vedere in noi un segno di speranza, possa giungere in Cielo dicendo a tutti di averlo visto Cristo, di averlo incontrato nella nostra predicazione e testimonianza. E così potremo entrare insieme e con loro, e con loro godere eternamente delle delizie del nostro Sposo.

Come le folle anche noi ci “accalchiamo” per carpire da Gesù un «segno» che ci dia “il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io” (J. Ratzinger). Quante volte chiediamo un segno per orientare le nostre vite e restiamo delusi, interdetti dinanzi al silenzio di Dio. “Chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»?” (Giac. 4,3-5). Infedeli, adulteri e con il cuore perverso chiediamo male, anche quando ci inginocchiamo per chiedere luce sul nostro cammino: il nostro cuore è amico del mondo e cerca di pervertire la voce di Dio. Chiediamo per soddisfare le nostre passioni, fossero anche rivestite di religiosità. Il nostro cuore è così spesso impuro perché è schiavo! “Alla radice di tale richiesta sviata di un segno, c’è l’egoismo, la mancanza di purezza di un cuore che non aspetta nulla di Dio se non il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io. Tale forma di religiosità è rifiuto fondamentale di conversione. Eppure, quante volte anche noi dipendiamo dal segno del successo! Quante volte chiediamo il segno e rifiutiamo la conversione!” (J. Ratzinger, Ritiro predicato in Vaticano, 1983). Il volto scuro come Caino, e gelosie, invidie, ira e rancori capaci di uccidere il fratello per vendicarsi di Dio. Stentiamo a convertirci, nonostante nella Chiesa «Uno più grande di Giona» bussi ogni giorno alla nostra vita; è Cristo vivo nel suo Corpo che, con pazienza e misericordia ,ci ammaestra con la predicazione e ci nutre con i sacramenti; che ci chiama a conversione facendosi carne nei fratelli, nell’annuncio del Vangelo, negli eventi della storia. La Chiesa ci ha annunciato e testimoniato vero e credibile il “segno di Giona”: per noi è morto Cristo, per noi è risorto ascendendo vivo dalle fauci della morte, segno del perdono definitivo di ogni nostro peccato. Per questo segno siamo stati salvati, siamo salvi ora, e il matrimonio è rinato, ed è nato il piccolo che neanche un pazzo avrebbe potuto immaginare. «Meritevoli d’ira» come questa «generazione malvagia», per Grazia siamo stati raggiunti dal suo amore e scelti come una primizia per divenire il «segno del Figlio dell’uomo» per ogni uomo.
Ma che ne abbiamo fatto della nostra primogenitura? Forse l’abbiamo truccata per adattarla ai nostri desideri. L’abbiamo “pervertita”, come Gesù definisce questa generazione nel parallelo al brano odierno del Vangelo di Matteo. “Pervertire” significa, secondo l’etimologia latina,
volgere il bene in male. Chiedere un segno è volgere il bene della storia che Dio prepara in un male che Egli ci provoca. E’ l’inganno satanico che ha ferito l’anima dei progenitori. E’ la fonte del peccato che chiude la strada all’opera di Dio. Nonostante i segni compiuti nella storia di Israele, la generazione che si accalcava attorno a Gesù, cercava in Lui lo strumento per piegare gli eventi al proprio favore carnale.
Una generazione perversa diviene sempre, di conseguenza, adultera: chi cambia il bene in male tradirà l’Autore del bene per “giacere” con l’autore del male. Ogni giorno ne facciamo esperienza, in famiglia, la lavoro, ovunque. Non ci convertiamo, essendo schiavi dei nostri ideali, progetti, criteri. E chiediamo segni che ci diano ragione e certezze, e scivoliamo in un’ipocrisia insopportabile. Per questo i pagani giudicheranno coloro che hanno disprezzato le grazie ricevute per accogliere il Messia e convertirsi. I pagani, subentreranno ai primogeniti che hanno rigettato la primogenitura per un piatto di lenticchie, duemila anni fa come oggi.
Attenzione però, perché esiste il «giorno del giudizio», quando i pagani si «alzeranno» e ci «giudicheranno» per non esserci convertiti; a loro sarebbero bastate le «briciole cadute dalla nostra tavola»… Il collega di ufficio, lontano dalla Chiesa e nemico dei preti, con una situazione familiare fallimentare eppure incapace di accettarlo, che a sentirlo sembra vivere la migliore delle vite possibili; ebbene, proprio lui “si alzerà” dal suo tavolo di lavoro e ti chiederà aiuto. A te, che ha sempre disprezzato, insultato ed emarginato, a te chiederà luce e consolazione per non impazzire di fronte all’incidente che si è portato via il figlio sedicenne. Se non ti sarai convertito oggi non potrai dargli nulla, e dovrai rimandarlo a mani vuote; e la tua vita, alla quale Dio ha voluto legare la sua, precipiterà all’inferno, nella solitudine dove sono condannati a vivere quanti non hanno accolto l’amore e non hanno potuto diffonderlo. Proprio tu, Che ai suoi occhi appari come un cristiano… E così con tua moglie, i tuoi figli, che ti giudicheranno vuoto come una zucca… Quel «giorno» è anche «oggi»: al lavoro, a scuola, al bar, tra i parenti, la sofferenza di chi non ha conosciuto Cristo ci «giudica» in attesa delle «briciole», il segno della nostra conversione, la fede adulta che si fa amore. Ma c’è speranza, proprio oggi: basta non difenderci, lasciarci giudicare e convertirci. Questo significa smetterla di crederci a posto, o almeno non poi così male, e ricordare la “cenere” dalla quale siamo stati tratti. Accettare di essere andati per la vita come i niniviti, senza distinguere la destra dalla sinistra, sbattendo sui muri della discomunione mentre credevamo di aver imboccato la strada giusta dell’amore. Purtroppo dietro a quella scelta non vi era lo Spirito Santo ma l’inganno del demonio: accettiamolo, convertiamoci una volta per tutte, riconosciamo che quella presa di posizione ha ucciso nostra moglie; che quel criterio ha ferito e umiliato nostro figlio; che quel progetto che abbiamo idolatrato ha escluso e allontanato il fratello.
Per guarire il cuore “malvagio” di noi ancora figli di questa generazione, vi è un solo segno: quello di Giona. In Cristo, infatti, possiamo essere strappati a questa generazione per divenire figli di Dio, con un cuore libero e abbandonato alla volontà di Dio. Un figlio non chiede un segno, non ne ha bisogno; chiede quanto suggerito dal Figlio nella preghiera che ci ha insegnato: chiamando Dio Papà – Abbà, un figlio chiede, come Salomone, la
Sapienza per discernere i segni che
già sono dati nel tessuto della storia. E discernere presuppone un cuore aperto alla conversione, a lasciare i propri schemi, a cambiare opinione, a far posto al pensiero di Dio. Umiliamoci allora, e “vestiamoci di sacco” anche noi; digiuniamo di parole e cibi, umiliamo il corpo con il quale abbiamo ucciso e scandalizzato. E, con il cuore contrito come quello di Davide, riconosciamo di aver peccato e accettiamo le conseguenze, come uomini adulti, finalmente. Solo così potremo implorare con sincerità il discernimento che plasma in noi occhi nuovi per guardare gli eventi con fede adulta, che sa identificare nella storia i segni di Cristo.
E’ Lui il segno, qui, nella nostra vita concreta, come lo fu Giona per i niniviti, come quel giorno dinanzi alla folla che si accalcava, vi è Gesù Cristo. La sua vita, la Parola di Dio sulle sue labbra, e la chiamata a
conversione.
In quell’Uomo vivo di fronte a loro vi era il segno capace di guarire e ridonare fedeltà e rettitudine di intenzione. Il segno capace di destare il desiderio di convertirci, di accogliere la sapienza che dia il discernimento. Per questo Lui
ci attira ogni giorno nel deserto della nostra storia, ad “impattare” con la sua persona; nell’incontro con Lui affiorano i dubbi, i timori, le debolezze e i limiti della nostra carne. La sua presenza che si fa prossima smaschera l’adulterio e la perversione che si fa mormorazione ed esigenza. Gesù è oggi il segno, la misericordia che guarisce e ci ricrea vergini e casti per sposarci con Lui nella fedeltà e nell’amore; è Gesù il segno che ci dischiude gli occhi perché possiamo discernere in Lui il Messia che attendiamo. Lui, il segno incarnato nella nostra vita che ci svela ogni istante come una meraviglia del suo amore, dove trovare la vera pace.
Convertirsi oggi è smettere di chiedere capricciosamente e infantilmente che persone e fatti siano piegati ai rantoli della nostra concupiscenza; e abbandonare la nostra debolezza, anche la nostra carne capricciosa, consegnandola alla misericordia di Cristo. Gettiamoci tra le sue braccia, lasciamoci crocifiggere e nascondere nelle sue piaghe: le sue carni ferite, i “segni” dei chiodi sono le “uscite di sicurezza” che possiamo attraversare senza paura, per passare dalla carne allo Spirito, e “convertire” i peccati in Grazia. Lasciamoci immergere nella fonte della sua misericordia dove cresceremo sino alla fede adulta capace di discernere. Attingiamo ai sacramenti, ascoltiamo, scrutiamo e meditiamo la Parola, mettiamoci all’ultimo posto. Lasciamo che Gesù, in ogni istante, ci faccia una sola cosa con Lui, perché nell’ultimo giorno, il dolore di chi ha atteso di vedere in noi un segno di speranza, possa incontrare Lui, speranza delle genti, e non ci chiuda le porte del Paradiso.
da Baltazzar | Ott 10, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13
Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».
Il commento di don Antonello Iapicca
La parabola di oggi è un midrash di Gesù sul Padre Nostro; con le parole che ne seguono, fa chiarezza su cosa sia, essenzialmente, la preghiera. Essa è questione di vita o di morte, così come è fondamentale essere figli di un Padre. Se non sappiamo dire a Dio Abbà – Papà, vivremo come orfani, sempre in cerca di un’origine e di un senso, vuoti e frustrati. Per questo Gesù ci spiega la sua preghiera partendo dall’esperienza fondamentale di ogni uomo, il bisogno nel quale nasciamo tutti: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti“. Un “amico” è giunto sulla soglia della nostra casa, nel mezzo del suo cammino, e ha chiesto ospitalità. In oriente essa è sacra, e per un ebreo costituisce uno degli appelli più pressanti della Torah. Il nome stesso “‘ibri”, “ebreo”, che i popoli confinanti davano a Israele e da lui accolto come suo, significa “abitante al di là della frontiera”, cioè straniero. Ogni ebreo ha il dovere sacro dell’ospitalità “… perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Es 22,20; 23,9). Per un ebreo, l’Egitto è il “luogo dell’angoscia” dal quale il Signore lo ha tratto in salvo, senza alcun merito. Per questo, in ogni viandante riconoscerà se stesso, e, facendo memoria della sua storia, farà nei suoi riguardi quanto ha Dio ha fatto con lui. Ma l’uomo della parabola non può! Non ha il pane necessario ogni giorno, l’alimento sostanziale per accogliere il suo amico – quello che Gesù invita a chiedere nel Padre Nostro. Forse ha dimenticato di prepararlo, o ne ha consumato la provvista. La Scrittura descrive così l’amico: “L’amico fedele è solido rifugio, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore” (Cfr. Sir 6). Forse dovremmo chiederci se davvero ci sta a cuore la sorte dell’amico che bussa alla nostra porta; o, addirittura, se è davvero nostro amico… “C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura” (Sir 6). Allora, vediamo, mio marito è mio amico? E mio figlio? E’ mia amica mia madre o mia sorella? Sono “amici” nel senso illuminato dalla Scrittura? “Altri me stesso” come lo fu Gionata per Davide, al punto di legare indissolubilmente la sua vita a quella del suo amico: “l’anima di Gionata s’era già talmente legata all’anima di Davide, che Gionata lo amò come se stesso. Gionata strinse con Davide un patto, perché lo amava, come se stesso” (1Sam.18,1;3,4). Niente a che vedere con la caricatura post-sessantottina dei genitori amici dei figli, niente di sdolcinato, anzi: Gionata è morto per Davide, perdendo tutto. Questo è un amico. Dovremo forse ammettere che, proprio perché in fondo pensiamo sempre a noi stessi anche quando crediamo di amare gli altri, non andiamo a importunare l’altro amico per sfamare l’amico. Siamo presi tra due amici dei quali forse non conosciamo nulla, i bisogni dell’uno e la generosità dell’altro. Con uno siamo egoisti e narcisi, dell’altro dubitiamo perfino dell’amicizia, e non siamo certi che possa darci il pane di cui abbiamo bisogno. Per tutto questo non ci siamo mai svegliati di notte per pregare in favore del matrimonio, dei figli o di un collega.
Ma non a caso è il cuore della notte, come quella in cui Dio ha “liberato i figli di Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto” (Exultet di Pasqua). E’ notte, siamo schiavi, non sappiamo amare, dubitiamo e mormoriamo. Il Signore ci chiama oggi a farci, come l’uomo della parabola, pellegrini e andare a bussare, umilmente, alla porta dell’Amico: dobbiamo chiedere quello che non abbiamo per essere quello che dovremmo essere. Dobbiamo aprire gli occhi e accettare di essere ancora stranieri in terra d’Egitto, nell’angoscia, per sperimentare di nuovo l’opera di Dio. Gesù ci invita a fare memoria della Pasqua, e ricordare la nostra storia ed entrare così nella verità. E’ dalla verità infatti, sinonimo di umiltà, che sgorga la preghiera autentica, fiduciosa, audace, radicata nella certezza di non essere delusi. E la verità è il bisogno estremo di chi non ha nulla, il nostro. Non abbiamo il pane per sfamare l’amico che bussa alla nostra porta; siamo senza amore per la moglie, il marito, i figli, i colleghi. Non possiamo accogliere quanti, stanchi e affaticati, cercano in noi ospitalità: il riposo del perdono, la consolazione di una parola, la tenerezza dell’ascolto. Non possiamo farci carico della loro stanchezza, dei loro peccati. Non possiamo accogliere Cristo che bussa alla porta celato nel bisogno del fratello. Per questo non possiamo far altro che “cercare, chiedere e bussare” per “ottenere” quello che ci manca: lo Spirito Santo. C’è un amico che bussa alla nostra vita e ha bisogno di pane; e c’è un Amico che può darcelo. Pur essendo padri cattivi – “schiavi”, secondo l’etimologia del termine “cattivi” – sino ad ora abbiamo dato “cose buone” ai nostri figli, il pane che sazia la carne, il solo che sanno dare i padri schiavi della carne. Forse consigli, forse denaro, e lo studio, e i vestiti. Così come a tutti quelli che ci sono vicini: succedanei dell’amore, regali che saziano solo fugacemente. A maggior ragione, in virtù della sua bontà e della sua misericordia, il nostro Amico, “il Padre celeste”, “ci darà lo Spirito Santo”. Questo è il frutto compiuto della Pasqua, l’alito della vita eterna che ha risuscitato il Figlio e che il Padre vuole donarci perché possiamo donarci come pane. In ogni notte che ci avvolge impedendoci di vedere l’amico che abbiamo vicino possiamo “importunare” l’Amico perché “L’amico ama in ogni circostanza; è nato per essere un fratello nella avversità” (Pr 17,17): tuo figlio sta divorziando? Non sopporti più tua suocera o tua moglie? Hai paura e non ce la fai ad avere rapporti aperti alla vita? Hai paura della vecchiaia? L’artrosi ti ha rubato speranza e pace? Alzati durante la notte, gettati in ginocchio, e “bussa” alle porte del Cielo dove il Signore è entrato vittorioso sulla morte, e prega dicendogli che “Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato”. E’ la “notte beata, che sola ha meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Mezzanotte, il cuore delle nostre tenebre vuote, è l’ora in cui pregare e sperimentare che “Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti” (Exultet di Pasqua). Questa è la notte in cui brilla la luce della Pasqua, quando il nostro Amico ci dona il suo Spirito, e con esso la sua vita e il suo amore.
da Baltazzar | Ott 9, 2013 | Chiesa, Media
di Ettore Malnati0 da www.lanuovabq.it

La diocesi di Friburgo prepara un percorso per i divorziati risposati che li porti a riaccostarsi alla Comunione e la Santa Sede chiude subito il discorso. Ieri tutte le agenzie hanno rilanciato con enfasi la notizia data da Der Spiegel che presentava un lungo vademecum della diocesi di Friburgo – guidata dal dimissionario (per motivi di età) monsignor Robert Zoellisch, che è anche presidente della Conferenza episcopale tedesca – per accompagnare il cammino spirituale di separati, divorziati e divorziati risposati.
Ma a fare clamore è stata la possibilità prevista di arrivare a riammettere ai sacramenti i divorziati risposati. Immediata la replica del portavoce vaticano padre Federico Lombardi, che ha parlato di «una fuga in avanti, che non è ufficialmente espressione dell’autorità diocesana». In altre parole, il documento sarebbe soltanto frutto della Commissione pastorale diocesana per la famiglia, diventato pubblico senza che il vescovo lo abbia visto. Versione ufficiale non proprio convincente, visto che l’anno scorso ben 120 preti della diocesi di Friburgo avevano firmato un documento in cui si contestava la disciplina ecclesiale che vieta la Comunione ai divorziati risposati. In ogni caso padre Lombardi ha precisato che «non cambia nulla, non c’è alcuna novità per i divorziati risposati».
Quello dei divorziati risposati è un tema al centro dell’attenzione di diversi episcopati e ne aveva parlato nei mesi scorsi anche Benedetto XVI, che spostava però l’attenzione sul problema della validità o meno di tanti matrimoni celebrati in chiesa. In ogni caso se ne parlerà al prossimo Sinodo episcopale straordinario sulla famiglia che Papa Francesco ha convocato per l’ottobre 2014.
Sull’iniziativa della diocesi tedesca e più in generale sul tema dei divorziati risposati, abbiamo chiesto un parere al teologo don Ettore Malnati:
L’attenzione che i vari episcopati mondiali pongono nei confronti delle «tristezze e angosce degli uomini di oggi» (Gaudium et Spes, no. 1) sottolinea quell’attenzione pastorale tanto necessaria per realizzare lo stile del Buon Pastore giustamente richiamato anche da papa Francesco.
Ci sono però problemi come quello del matrimonio e della famiglia che non possono essere affrontati secondo la logica né del populismo etico né della superficialità tipica espressione di un buonismo che, invece di dare risposte e obiettiva speranza, ingarbuglia «coscienza e valori».
E’ da tempo che esistono le situazioni di uomini e donne che avendo celebrato il sacramento del matrimonio – o perché vittime o perché hanno voluto il divorzio – vivono la separazione dal loro coniuge con il quale hanno avuto dei figli e con cui hanno contratto il vincolo nuziale che per sua natura non può che essere indissolubile.
La Conferenza Episcopale Italiana (Cei) nel Direttorio per la famiglia ha affrontato il problema da tempo: sia dei coniugi separati e divorziati non risposati che di quelli risposati civilmente.
Il tutto però è visto con attenzione a verità e pastoralità. Spesso senza volere seriamente informarsi, molti coniugi separati e non risposati che hanno subito il divorzio e sono rimasti con i loro figli, pensano di non potere ricevere i sacramenti o di essere esclusi dalla vita ecclesiale. Nulla di più falso.
Chi è nella prova o ha subito un divorzio o una separazione, è nella opportunità di fare preziosa occasione di quei mezzi di grazia che donano forza, consolazione e ravvedimento sacramentale perché non venga meno quell’aiuto che la Chiesa per volere di Cristo non può che presentare in un progetto di salvezza.
La comunità cristiana non è una setta di sedicenti perfetti, come vorrebbero la gnosi o i catari, ma un popolo di santi e di peccatori che cercano in Cristo la loro giustizia e santità, nella verità. La Chiesa è la casa di convertiti che cercano perdono e pace interiore nella scia di quella verità che non è scevra da carità.
E’ questo che i pastori devono far conoscere e realmente praticare nello stile di quel Buon Pastore che non è venuto per i giusti ma per i peccatori.
Attuare e praticare ciò, come da sempre è stato raccomandato dal Magistero della Chiesa cattolica, è doveroso da parte di ogni Chiesa particolare se non si vuole disattendere lo spirito di Cristo e ciò che il Concilio ci indica già nel proemio della Gaudium et Spes che abbiamo citato.
Vedere però disattendere quella volontà positiva di Cristo espressa nel Vangelo di Matteo («Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi», Mt 19,6) non può essere considerata un’attenzione pastorale. Certo, è doveroso da parte del Magistero della Chiesa offrire la proposta di salvezza a chi ha infranto l’unità coniugale e che desidera vivere il suo Battesimo. Ma tutto ciò non può banalizzare l’atto sacramentale dei “due una sola carne” che li ha resi «intima comunità di vita e di amore coniugale fondata dal creatore e strutturata con leggi proprie… che è stabilita dall’irrinunciabile consenso personale» (Gaudium et Spes, 48).
Nessuno può arbitrariamente giustificare o ecclesialmente legittimare una ulteriore unione senza aver appurato – come ebbe ad affermare Benedetto XVI – la nullità o la non esistenza del primo patto. La comprensione pastorale non può mai essere contraria alla Verità rivelata: l’indissolubilità del matrimonio, che sussiste solo tra l’uomo e la donna quale comunità di amore aperta alla vita.
Il Concilio Vaticano II era già 50 anni fa consapevole che «dappertutto la dignità di questa istituzione non brilla con identica chiarezza perché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni» (Gaudium et Spes, 47). Ciò che la pastorale deve far comprendere è che il matrimonio monogamico tra un uomo e una donna deve essere un valore al quale i coniugi si preparano con consapevolezza; che una volta celebrato crescano nell’amore responsabile progettando spiritualmente, umanamente, psicologicamente la loro fedeltà e indissolubilità del vincolo coniugale. Quindi vivendo consapevoli di quella unicità e sacralità della persona alla quale si sono donati o hanno accolto.
E’ di questa attenzione pastorale che abbiamo bisogno, non certo di scappatoie che mortificano la dignità e la responsabilità spirituale e naturale del Sacramento del Matrimonio; ma anche mortificano la stessa società di cui la famiglia umana è la prima e fondamentale cellula, per una civiltà dove la persona si prende tutte le sue responsabilità nei confronti di sé, della propria famiglia e dell’intera società. La Chiesa nella storia ha anche questa doverosa e improba missione. Venire meno significa tradire la volontà di Cristo.
da Baltazzar | Ott 9, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 11,1-4.
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione».
Il commento di don Antonello Iapicca
Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”, di chi segue il Signore e sperimenta la necessità impellente di pregare. E, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque, una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre. Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce.
Proprio le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Per Lui, come per ciascuno di noi, era preparato un cammino: esso ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore.
Tra gli ulivi del Getsemani, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore, la stessa compassione, era Figlio: nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, e il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare.
Per questo, quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, perché solo in essa si può vivere sino in fondo. Pregare, dunque, è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi: è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli occorre essere figli, perché ogni vocazione nasce dal battesimo: prima si è cristiani e poi preti, suore o genitori. E per essere figli di Dio, ovvero cristiani, non possiamo restare un istante senza pregare. Ma abbiamo sperimentato nella nostra vita la paternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita. In essa, invece, possiamo imparare a vivere “misticamente” ogni evento, con uno sguardo di fede e innamorato, capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare il Vangelo al mondo è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività: non una parola, non un gesto che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo Spirito di Gesù Cristo si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale chiedere a Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me, che cosa mi dici di fare perché si compia ciò che è tuo“?
QUI IL COMMENTO ESTESO
Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”. Chi segue il Signore sperimenta la necessità impellente di pregare. Ma, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che
ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre.
Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce. I “discepoli” dei rabbini, infatti, imparavano non solo dalle parole, ma anche dalla loro vita e dal loro esempio. Per imparare entravano a servizio del maestro: allo stesso modo, per imparare a pregare, è necessario servire Cristo e consegnargli la vita, perché Lui, l’unico Maestro, ha offerto ai suoi discepoli gratuitamente le sue parole e la propria vita; e non solo come esempio, ma come un dono da accogliere.
La preghiera del Padre Nostro è il tesoro di sapienza che il Rabbì Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli, la preghiera rivelata nella stessa sua vita. Le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Lo era per natura, come ciascuno di noi è figlio naturale del suo padre nella carne. Ma vi era per lui, come per ciascuno di noi, un cammino che coinvolge la libertà, perché l’identità con il padre superi il livello biologico e divenga un’identità che abbracci la persona nella sua totalità. Questo cammino ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. Questo percorso ha bisogno di una serie di atteggiamenti: guardare, ascoltare, domandare, a volte anche discutere e litigare… Qualcosa di vero, impastato di polvere e sudore, come la nostra storia di ogni giorno. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore. Può sembrare paradossale, perché obbedienza “è una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana.” (Benedetto XVI, Lectio sul sacerdozio nella Lettera agli Ebrei, nell’incontro con i parroci ed i sacerdoti di Roma, 18 febbraio 2010).
Per questo,
quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, quella che anche Lui ha imparato dalle sue sofferenze.
Pregare è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi. Pregare è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’obbedienza che incarna l’amore autentico. Proprio nel Getsemani, al culmine di una vita consumata nell’obbedienza al Padre, Gesù rivela come
la libertà sia condizione ineludibile dell’amore e raggiunga la sua perfezione proprio nell’obbedienza: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie,
ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv. 10, 17-18). Gesù offre la sua vita liberamente rispondendo così al comando del Padre; Egli riconosce nella volontà paterna un’opera così grande e urgente – quella per la quale è venuto al mondo – da assorbire in sé stessa la propria volontà, sino al punto di identificarla con quella di suo Padre. La libertà è stata come il veicolo attraverso il quale la volontà del Figlio si è disciolta in quella del Padre, rivelando così la somiglianza perfetta tra i due. La
libertà legata profetizzata da Isacco nel celebre episodio della
aqedà, il Targum del capitolo 22 del Libro della Genesi:
“Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme con cuore integro. Isacco si rivolse al
padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». E rispose Abramo: davanti al Signore, Lui ha preparato per se l’agnello per l’olocausto e se non, tu sarai l’agnello che
è per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt’e due insieme con cuore integro; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare Isacco suo figlio. Rispose Isacco e disse al Abramo suo padre: Padre mio, legami bene, affinché non ti colpisca con calci e la tua offerta non diventi inadatta da parte tua e poniamo fiducia nella fossa della distruzione che sta arrivando al mondo.. Gli occhi di Abramo erano sugli occhi di Isacco e gli occhi di Isacco si muovevano verso gli angeli dall’alto. E Abramo non li vide. In questo momento uscì la voce divina dai cieli e disse: Venite! Guardate due esseri unici che sono nel mio mondo. Uno sta per immolare e uno sta per essere immolato. Quello che sta per immolare non esita e quello che sta per essere immolato ha steso il suo collo” (Targum Neophiti).
La completa identità tra Abramo ed Isacco è profezia e immagine di quella rivelata da Gesù nel Getsemani: Tutt’e due insieme con cuore integro, due esseri unici, l’uno legato all’altro in una medesima volontà. E’ dunque la volontà il tratto somatico che rivela la somiglianza tra Padre e Figlio: “Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei Cieli”. La perfetta libertà è rivelata nel legame indissolubile della perfetta obbedienza: Padre e Figlio sono entrambi legati nel medesimo volere, l’amore perfetto, sino alla fine. Nel Getsemani Gesù ha offerto se stesso, liberamente e senza condizioni, alla Croce preparata dal Padre. Tra quegli ulivi, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore integro, la stessa compassione, era Figlio. nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: dall’arresto allo spirare sulla Croce tutto sarà naturale, il compiersi del suo essere figlio.
Il discepolo che ascolta accoglie, nella preghiera, l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli e vivere secondo la volontà di Dio nella quale siamo stati chiamati, non possiamo restare un istante senza pregare. Anche quando si fa pesante, si vorrebbe far altro, esattamente come in una relazione d’amore che si nutre, proprio nei momenti difficili, della consegna all’altro. Ecco, attraverso la preghiera ci consegniamo a Cristo, per vivere immersi nel suo Abbà. Abbiamo sperimentato nella nostra vita la
paternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita.
La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, ed il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare. Con il Padre Nostro Gesù ci chiama a vivere la sua vita, ad essere discepolo per imparare, seguendo le sue orme, ad essere figlio: “nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo, così che diventiamo veramente il suo corpo” (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazareth. Seconda parte). Dicendo Padre Nostro siamo chiamati a dire Padre di Gesù e Padre mio, e Padre di ogni mio fratello. E’ questa la buona notizia annunciata da Gesù alla Maddalena perché la trasmetta ai suoi discepoli: “io salgo al Padre mio e Padre vostro!”. Il cammino al Cielo è ormai dischiuso e la via crucis che ci attende ogni giorno è il cammino alla beatitudine eterna dell’amore di Dio. Il Padre Nostro è il nostro respiro quotidiano consegnato al respiro di Dio, per imparare l’obbedienza dalle cose che patiamo, divenire figli somiglianti del Padre, lo stesso cuore per vivere eternamente del suo amore.
Il Padre Nostro è la preghiera del figlio che segue le orme di suo Padre. Per questo è la preghiera di Gesù. E la nostra. In essa impariamo a vivere “misticamente” ogni evento, che non è fuggire in un’alienazione pseudo-spirituale, ma con uno sguardo di fede e innamorato capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività. Tutto nasce dall’Abbà ripetuto come un sigillo su ogni relazione e ogni evento. Non una parola, non un gesto che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo spirito di Gesù Cristo che ha vissuto tutto nell’obbedienza piena di amore a suo Padre, si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale cercare da Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me?”.
da Baltazzar | Ott 8, 2013 | Chiesa, Papa Francesco
Nella Messa a Santa Marta, Papa Francesco invita a seguire l’esempio del Buon Samaritano del Vangelo e “lasciarsi scrivere la vita da Dio”
da www.Zenit.org di Junno De Jesús Arocho Esteves
A volte, “può succedere che anche un cristiano, un cattolico fugga da Dio, mentre un peccatore, considerato lontano da Dio, ascolti la voce del Signore”. È la riflessione sviluppata oggi da Papa Francesco durante l’omelia della Messa mattutina nella Casa Santa Marta. Il Papa, che il 13 ottobre consacrerà il mondo al Cuore Immacolato di Maria, indossava una casula bianca per onorare la memoria della Beata Vergine del Rosario che si celebra oggi.
L’omelia del Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura della liturgia odierna che ricorda la storia di Giona, il quale “fugge” dopo aver ricevuto la chiamata di Dio a predicare contro Ninive. Giona prega, loda e serve Dio, fa del bene, ha osservato il Santo Padre, eppure quando il Signore lo chiama, “prende una nave per la Spagna. Fuggiva dal Signore”, perché “non voleva essere disturbato”.
Questo atto di “fuggire da Dio”, è una tentazione che tutti noi, cristiani e non, affrontiamo ogni giorno, ha detto il Papa. “Si può fuggire da Dio, pur essendo cristiano, essendo cattolico, essendo dell’Azione Cattolica, essendo prete, vescovo, Papa… Tutti possiamo fuggire da Dio! E’ una tentazione quotidiana” ha sottolineato.
Pur di “non ascoltare Dio, non ascoltare la sua voce, non sentire nel cuore la sua proposta, il suo invito” siamo disposti ad allontanarci da Lui, e le modalità sono infinite. “Si può fuggire direttamente” o si trovano altre maniere “un po’ più educate, un po’ più sofisticate”.
Ne è un esempio il Vangelo di oggi, in cui Cristo, narrando la parabola del Buon Samaritano, parla di un sacerdote che vede un uomo percosso e ferito per strada e passa oltre. “Fugge” quindi da Dio, ha osservato Bergoglio: “C’è quest’uomo mezzo morto, buttato sul pavimento della strada, e per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada – un degno sacerdote, proprio con la talare, bene, bravissimo! – Ha visto e ha guardato: ‘Arrivo tardi a Messa’, e se n’è andato oltre. Non aveva sentito la voce di Dio, lì”.
Allo stesso modo un levita, passando – ha proseguito il Santo Padre – vede l’uomo e pensa: “Se io lo prendo o se io mi avvicino, forse sarà morto, e domani devo andare dal giudice e dare la testimonianza…”. Quindi tira dritto e anche lui “fugge da questa voce di Dio”.
Infine – ha ricordato Francesco – passa un samaritano, “uno che abitualmente fuggiva da Dio, un peccatore”, e forse per questo l’unico che “ha la capacità di capire la voce di Dio”. Il samaritano, infatti, “non era abituato alle pratiche religiose, alla vita morale, anche teologicamente era sbagliato” – ha spiegato – perché i samaritani “credevano che Dio si dovesse adorare da un’altra parte e non dove voleva il Signore”. Tuttavia, egli “ha capito che Dio lo chiamava, e non fuggì”, ma “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla cavalcatura”. Come se non bastasse “lo portò in un albergo e si prese cura di lui”. “Ha perso tutta la serata” ha affermato Bergoglio.
Ma come si spiega tutto questo? “Perché Giona fuggì da Dio? Perché il sacerdote fuggì da Dio? Perché il levita fuggì da Dio?” si è domandato il Santo Padre. “Perché avevano il cuore chiuso – ha risposto – e quando tu hai il cuore chiuso, non può sentire la voce di Dio”. Invece, il samaritano “aveva il cuore aperto, era umano, e l’umanità lo avvicinò”.
Il problema, inoltre – ha aggiunto il Pontefice – è che Giona, così come il sacerdote e il levita, “aveva un disegno della sua vita: lui voleva scrivere la sua storia”, aveva “un disegno di lavoro”. Al contrario, il samaritano peccatore “si è lasciato scrivere la vita da Dio: ha cambiato tutto, quella sera, perché il Signore gli ha avvicinato la persona di questo povero uomo, ferito, malamente ferito, buttato sulla strada”.
La domanda che Papa Francesco ha rivolto quindi a tutti i presenti, incluso sé stesso, è stata: “Ci lasciamo scrivere la vita, la nostra vita, da Dio o vogliamo scriverla noi?”. E ancora: “Siamo docili alla Parola di Dio? Tu hai capacità di ascoltarla, di sentirla? Tu hai la capacità di trovare la Parola di Dio nella storia di ogni giorno, o le tue idee sono quelle che ti reggono, e non lasci che la sorpresa del Signore ti parli?”.
Concludendo l’omelia, il Santo Padre ha detto: “Sono sicuro che tutti noi vediamo che il samaritano, il peccatore, non è fuggito da Dio”. Il suo auspicio è quindi che il Signore “ci conceda di sentire la Sua voce, che ci dice: Va e anche tu fa così!”.
Al termine della celebrazione, il Papa ha salutato ognuno dei presenti alla funzione. Tra questi, un gruppo di dipendenti vaticani e di giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Santa Sede, tra cui una rappresentanza di ZENIT.
da Baltazzar | Ott 8, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 10,38-42
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Il commento di don Antonello Iapicca
Maria, “disoccupata” e felice: agli occhi di Marta, spenti su «quelle di quaggiù», la “sorella” è immagine dello scandalo della Chiesa che cerca le «cose di lassù». Ascoltare invece di fare? È lo scandalo nostro, di ogni giorno. La sveglia al mattino ci trova già inquieti e pre-occupati: abbiamo dato il cuore alle «cose della terra» per “inciamparci” rovinosamente. Corriamo, riempiamo le agende di impegni, trasciniamo marito, moglie, figli e amici nella stessa girandola, per ritrovarci ogni giorno più esausti e infelici. Nulla si realizza perché nulla ci sazia. “Accogliamo” e “serviamo” Gesù, ma senza la gioia piena con la quale Zaccheo è sceso dall’albero per ospitare Gesù. Era un peccatore, non si aspettava l’auto-invito del Signore, le sue parole l’avevano spiazzato: “Oggi conviene che io entri a casa tua”. Le abbiamo sentite queste parole, oppure siamo ancora convinti di avere invitato noi il Signore? Per Marta forse non era così “necessario” che Gesù entrasse a casa sua, e non si era accorta che, quando c’è Gesù, si è sempre suoi ospiti, perché ogni casa è la sua, ogni vita è la sua, ogni istante è il suo… Spesso pensiamo anche noi allo stesso modo: Gesù non è “l’unico necessario”, molto altro viene prima… Gli affetti ad esempio, le attenzioni e la stima. E, più di ogni altra, la giustizia nelle relazioni. Non a caso Marta e Maria sono “sorelle”: ci parlano delle nostre famiglie, dei matrimoni, dei fidanzamenti, delle amicizie. Ci parlano della Chiesa, la “donna” che “accoglie Cristo nella sua casa” ogni istante.
E, come in quella di Marta e Maria, quante rivendicazioni nelle nostre case… Quante Marta si aggirano per sale e sacrestie delle nostre parrocchie.. Quanta malizia si nasconde dietro ai nostri “molti servizi” di madri e di padri, di preti e suore, maestri e catechisti… E quanta ipocrisia… Sempre a chiedere giustizia, frustrati e delusi: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?”. Lo crediamo insensibile alle nostre ragioni, indifferente alla nostra solitudine. Ma come, proprio la sorella, proprio la moglie, il marito, il parroco o il fratello, proprio chi dovrebbe essere al nostro fianco nel “servizio” ci lascia “soli”? E Gesù? Niente, non ci dà ragione, mai. Ma è proprio questo il suo amore immenso, con il quale purifica tutto quello che non è “necessario” per la salvezza, a noi e ai fratelli. Lo stesso con il quale ha amato Marta: non le ha reso la giustizia che cercava, neanche una parola di comprensione. Gesù, infatti, ama Marta e ciascuno di noi non come vorrebbe la nostra carne ribollente di concupiscenze, che esige la propria giustizia. Gesù ci ama mostrandoci Maria, nostra “sorella”, proprio quella che disprezziamo e giudichiamo. Anche lei, come noi, è figlia della stesso padre e della stessa madre. Anche lei è stata creata da Dio e rigenerata nella Chiesa. E’, infatti, l’immagine della parte di noi che abbiamo nascosto sotto i detriti dell’orgoglio. E oggi Gesù viene a destarla, per riaccendere in noi l’amore, l’unico che genera il servizio autentico, il compimento della volontà di Dio. Sì, perché servire Gesù è, essenzialmente, stare “seduti ai piedi del Signore, e ascoltare la sua parola”. Questo è l’amore rivelato sul Sinai: se non si ascolta non si può obbedire, si è incapaci di compere la volontà del Padre, che è quella di donare noi stessi gratuitamente. Se non si ascolta si seguiranno solo i propri istinti.
Maria ascolta perché è innamorata. E si vede. Nulla più la «preoccupa», le «cose della terra» trovano il suo cuore «occupato» dall’unico Ospite «buono e necessario» capace di saziare ogni desiderio: Gesù Cristo. Era felice Maria, non aveva bisogno d’altro, aveva sperimentato che niente è “necessario”, neanche l’affetto, la stima, la salute o il denaro. Non sono “necessari” neanche la famiglia, i figli, o il ministero, perché passa la scena di questo mondo, e possiamo perdere tutto in un istante. Un ictus e tac, un prete non può più predicare, e un padre non può lavorare e parlare con i suoi figli o unirsi a sua moglie… Maria lo aveva capito e per questo stava dove era Gesù, e lo guardava come quando un ragazzo fissa estasiato gli occhi della sua amata, e ascolterebbe le sue parole per mesi. Amiamo così Cristo? Abbiamo conosciuto davvero il suo amore? Forse ancora no, forse speriamo ancora dalla terra il Cielo che non può darci. Forse ci deve essere ancora tolto quello che ci occupa il cuore. Solo allora potremo accogliere lo Sposo che viene a casa nostra, nello gratitudine e nella gioia, perché è “l’unico necessario” per noi e per chi ci è affidato. Per questo il Signore ci chiama a vivere “ai suoi piedi” come Maria, con un cuore innamorato di Lui, capace di ascoltare e obbedire alla sua voce, e riconoscerlo e amarlo in chi ci è accanto.
QUI IL COMMENTO ESTESO
Maria, “disoccupata” e felice: agli occhi di Marta, spenti su «quelle di quaggiù», la “sorella” è immagine dello scandalo della Chiesa che cerca le «cose di lassù». Ascoltare invece di fare? È lo scandalo nostro, di ogni giorno. La sveglia al mattino ci trova già inquieti e pre-occupati: abbiamo dato il cuore alle «cose della terra» per “inciamparci” rovinosamente. Corriamo, riempiamo le agende di impegni, trasciniamo marito, moglie, figli e amici nella stessa girandola, per ritrovarci ogni giorno più esausti e infelici. Nulla si realizza perché nulla ci sazia. La mormorazione acida di giudizi poi, ci avvelena il cuore rendendoci nemici della storia e di chi ci è accanto. Come Marta, ingannata dalla propria buona intenzione, ci illudiamo di amare. “Accogliamo” e “serviamo” Gesù, ma senza la gioia piena con la quale Zaccheo è sceso dall’albero per ospitare Gesù. Era un peccatore, non si aspettava l’auto-invito del Signore, le sue parole l’avevano spiazzato: “Oggi conviene che io entri a casa tua”. Le abbiamo sentite queste parole, oppure siamo ancora convinti di avere invitato noi il Signore? Così come nel matrimonio, pensiamo di aver scelto noi la sposa o lo sposo, oppure siamo persuasi di essere stati scelti da Dio l’uno per l’altra?
Per Marta forse non era così “necessario” che Gesù entrasse a casa sua. Forse era più importante se stessa che il suo Ospite. O forse aveva confuso le parti, e non si era accorta che, quando c’è Gesù, si è sempre suoi ospiti, perché ogni casa è la sua, ogni vita è la sua, ogni istante è il suo… E così Marta ha creduto di dover fare, e il servizio non nasceva dalla gratitudine, questo è certo. Le sue parole lo tradiscono. Spesso pensiamo anche noi allo stesso modo: Gesù non è “l’unico necessario”, molto altro viene prima… Gli affetti ad esempio, le attenzioni e la stima. E, più di ogni altra, la giustizia nelle relazioni. Non a caso Marta e Maria sono “sorelle”: ci parlano delle nostre famiglie, dei matrimoni, dei fidanzamenti, delle amicizie. Ci parlano della Chiesa, la “donna” che “accoglie Cristo nella sua casa” ogni istante.
E, come in quella di Marta e Maria, quante rivendicazioni nelle nostre case… Quante Marta si aggirano per sale e sacrestie delle nostre parrocchie… Sempre a chiedere giustizia, come i due fratelli che si avvicinano a Gesù perché giudicasse su chi aveva torto e chi ragione nel caso di un’eredità contestata. La rivendicazione della giustizia sorge sempre dal sentimento di profonda frustrazione che ha colto Marta: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?”. Così ci rivolgiamo a Gesù, immancabilmente. Lo crediamo insensibile alle nostre ragioni, indifferente alla nostra solitudine. Ma come, proprio la sorella, proprio la moglie, il marito, il parroco o il fratello, proprio chi dovrebbe essere al nostro fianco nel “servizio” ci lascia “soli”? E Gesù? Niente, non ci dà ragione, mai. Anzi, sembra favorire chi ci ha abbandonato, chi ci ha tradito… Siamo vittime di un’ingiustizia e proprio Colui che dovrebbe aiutarci ci delude…
E allora, ecco gli scoramenti, e quante gelosie nascoste, quanti rancori camuffati da attivismo ipertrofico con cui ci illudiamo di offrirci e di amare… Quanta malizia nascosta dietro ai nostri “molti servizi” di madri e di padri, di preti e suore, maestri e catechisti… Quanta ipocrisia… Ed è tutto veleno che si accumula e aggredisce la nostra anima, ferendola e macchiandola, senza che ce ne accorgiamo, così impegnati nel fare del bene… Ed è proprio per questo che Gesù non ci dà ragione e ci ripete: “chi mi ha costituito giudice tra di voi?”. Lui sa che “la vita non dipende dai beni”, dalla pancia piena di false adulazioni e di ragioni strappate al fratello. Questa è solo morte, che si fugge “affannandosi e agitandosi per molte cose”, tutte meritorie per carità, ma nessuna “necessaria”. Da schiantare… Non è “necessario” quello che faccio? Gesù per caso mi disprezza? Ecco perché alla fine mi va sempre male, e quando mi aspetto un minimo di riconoscenza ricevo solo indifferenza o dileggi… Niente, ci attendono solo fallimenti, in ogni opera delle nostre mani.
Ma sono fracassi benedetti, che Dio non solo permette, ma desidera e ci dona, con amore immenso, con il quale purifica tutto quello che non è “necessario” per la salvezza, a noi e ai fratelli. Lo stesso con il quale Gesù ha parlato a Marta: non le ha reso la giustizia che cercava, neanche una parola di comprensione. Avrebbe potuto almeno dirle “certo mia cara Marta, capisco le tue fatiche, avresti anche ragione, il tuo lavoro è per me molto “necessario” ma…..”; e invece niente, nessuna traccia di questa solidarietà pelosa e ipocrita. Gesù ama Marta e ciascuno di noi non come vorrebbe la nostra carne ribollente di concupiscenze, che esige la propria giustizia.
Gesù ci ama mostrandoci Maria, nostra “sorella”, proprio quella che disprezziamo e giudichiamo. Anche lei, come noi, è figlia della stesso padre e della stessa madre. Anche lei è stata creata da Dio e rigenerata nella Chiesa. E’, infatti, l’immagine della parte di noi che abbiamo nascosto sotto i detriti dell’orgoglio. E oggi Gesù viene a destarla, per riaccendere in noi l’amore, l’unico che genera il servizio autentico, il compimento della volontà di Dio. Sì, perché servire Gesù è, essenzialmente, stare “seduti ai piedi del Signore, e ascoltare la sua parola”. Questo è l’amore rivelato sul Sinai: se non si ascolta non si può obbedire, si è incapaci di compere la volontà del Padre, che è quella di donare noi stessi gratuitamente. Se non si ascolta si seguiranno solo i propri istinti. Magari di servizio e di solidarietà, come accade anche nella società e nella Chiesa, ma non per questo gratuiti, anzi; per questo poi si giudicano istituzioni e superiori, fratelli e sorelle, gli altri che, pigri, “lasciano soli a servire”.
Gesù ci ama annunciandoci la verità, per liberarci così dall’inganno con il quale il demonio ci tiene schiavi e ci conduce a giudicare tutto e tutti. Certo che un vestito e un piatto caldo sono “necessari”, ed è doveroso donarli a chi non li ha; certo che molto di quello che facciamo a casa e al lavoro, in parrocchia e tra gli amici è “necessario”. Ma Gesù, con amore, ci aiuta a discernere, anche a costo di farci star male: per chi e per che cosa è “necessario”? Per noi o per chi ci è accanto? Per la loro salvezza o per la nostra gratificazione? Per dare un senso e un ruolo alla nostra esistenza o perché gli altri conoscano il Signore? E’ qui che dobbiamo cercare le ragioni per le quali i figli non comprendono i nostri sforzi e la nostra dedizione, al netto dei loro peccati è ovvio. E perché la moglie non riesce a decodificare il nostro amore nell’alfabeto morse con cui la serviamo; o il marito non apprezza le mille camice stirate…. Serviamo, accogliamo, ma ci sfugge «l’unica cosa buona e necessaria», il dono riservato ai “disoccupati” che si sono arresi alla Grazia, che ascoltano e obbediscono invece di fare per non ascoltare…
Maria ascolta perché è innamorata. E si vede. Nulla più la «preoccupa», le «cose della terra» trovano il suo cuore «occupato» dall’unico Ospite «buono e necessario» capace di saziare ogni desiderio. Gesù Cristo, il Cielo disceso alla sua terra per farne la propria dimora. Era felice Maria, non aveva bisogno d’altro, aveva sperimentato che niente è “necessario”, neanche l’affetto, la stima, la salute o il denaro. Non sono “necessari” neanche la famiglia, i figli, o il ministero, perché passa la scena di questo mondo, e possiamo perdere tutto in un istante. Un ictus e tac, un prete non può più predicare, e un padre non può lavorare e parlare con i suoi figli o unirsi a sua moglie… Maria lo aveva capito e per questo stava dove era Gesù, e lo guardava come quando un ragazzo fissa estasiato gli occhi della sua amata, e ascolterebbe le sue parole per mesi. Amiamo così Cristo? Abbiamo conosciuto davvero il suo amore? Forse ancora no, forse speriamo ancora dalla terra il Cielo che non può darci. Forse ci deve essere ancora tolto quello che ci occupa il cuore. Solo allora potremo accogliere lo Sposo che viene a casa nostra, nello gratitudine e nella gioia, perché è “l’unico necessario” per noi e per chi ci è affidato. Per questo il Signore ci chiama a vivere “ai suoi piedi” come Maria, con un cuore innamorato di Lui, capace di ascoltare e obbedire alla sua voce, e riconoscerlo e amarlo in chi ci è accanto.