11 giugno. San Barnaba

11 giugno. San Barnaba

dal vangelo secondo Mt 10,7-13

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
Non procuratevi oro, nè argento, nè moneta di rame nelle vostre cinture, nè bisaccia da viaggio, nè due tuniche, nè sandali, nè bastone, perchè l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza.
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi». 

Il Commento di don Antonello Iapicca

“Il Regno dei Cieli è vicino”: l’annuncio della Chiesa è una sorta di “work in progress”, si compie “strada facendo”. Se gli apostoli non camminano, il Regno di Dio non si avvicina all’umanità. L’evangelizzazione infatti è legata indissolubilmente a una dinamica, ad un uscire da se stessi per mettersi in cammino alla ricerca degli “infermi”, dei “morti”, dei “lebbrosi”, dei “demoni” che si nascondono nella vita delle persone, per stanarli e “cacciarli”. L’evangelizzazione, dunque, non è questione da pianificare in un consiglio di amministrazione, perché essa è il frutto dell’amore, il più puro perché l’unico autenticamente gratuito: essa nasce dal cammino di Dio verso la pecora perduta, l’umanità, tu ed io, dispersi e schiavi del peccato. Il cammino della Parola fatta carne e giunta, attraverso la carne di Maria, ad ogni uomo. Come quel mattino sulle rive del Mare di Galilea, quando i passi di Gesù hanno recapitato la sua chiamata, muovendo così i passi di Giacomo e Giovanni, di Pietro e Andrea alla sua sequela. “Strada facendo” Gesù si è “avvicinato” ai peccatori, e, in una carne simile alla loro, ha annunciato e mostrato il “Regno dei Cieli” come il Destino possibile alla loro carne “inferma”, azzannata dalla “lebbra”, “morta” a causa dei “demoni” che se ne sono impossessati. In ebraico, la radice BSR del verbo “evangelizzare” è la stessa di “carne”: “La prima circostanza in cui nella Torah ricorre la parola carne non è insignificante. Essa è pronunciata dall’Adamo, al quale il Signore dà colei che Egli ha desiderato per porla di fronte a Lui. Il Signore l’ha creata con la “costola” o il “fianco” dell’Adamo. Allora, l’uomo che aveva chiamato per nome gli animali, pronuncia la parola carne. E, con tenerezza, dice: Questa volta essa è carne della mia carne, osso delle mie ossa. La Torah chiama l’uomo a essere due, uno di fronte all’altro. Ma allora bisogna parlarsi. Allora soltanto, avremo una comunicazione, una carne insieme, BSR. Questa relazione potrà essere chiamata evangelizzazione, Vangelo, BSR” (M. Vidal, Un ebreo chiamato Gesù).

Così, l’evangelizzazione riporta in luce l’origine, e per questo guarisce dalle malattie. “Questa volta” la moglie che ho di fronte, come il marito, il figlio, il salumiere, il collega, il compagno di scuola, anche e soprattutto quando mi sono nemici, “è carne della mia carne, osso delle mie ossa”; non sono più animali a cui dare il nome per dominarli, ma altri me stessi, ciascuno è il “tu” che mi è stato tolto dal petto e che manca al mio “io” perché sia completo, quel frammento unico e irripetibile nel quale riversare l’amore ricevuto, a cui donare la vita perché la mia vita sia finalmente pacificata, realizzata, compiuta. E’ esattamente quello che Gesù afferma quando dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”, e poi, durante l’ultima cena, “ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi”. L’evangelizzazione è dunque la Pasqua di Cristo che riverbera nei suoi fratelli, il battesimo della Croce che dà compimento al cammino di ricerca della pecora perduta, del “tu” che manca all’appello del suo cuore: per questo San Paolo afferma che non è un vanto annunciare il Vangelo, ma un dovere, un incarico, un imperativo che sgorga da un cuore mutilato e angosciato, capace di lasciare l’apparente successo, l’ingannevole sicurezza delle novantanove pecore nell’ovile e gettarsi a cercare ovunque l’unica perduta, la più tonta, ostinata, ribelle. Senza di lei, infatti, anche l’avere assicurato all’ovile le altre novantanove non ha alcun senso, perché la vita, senza quel “tu” a cui donarsi resterebbe comunque un fallimento. Così ogni relazione è illuminata dal “desiderio ardente di mangiare la Pasqua” con chi ci  è stato donato e affidato, con tutte le Eva che sono carne della nostra carne, offrendo loro noi stessi da mangiare, in una moltiplicazione di vita che solo l’amore di Dio può realizzare.

Il matrimonio,il fidanzamento, i rapporti con i figli, gli amici, i colleghi, ogni relazione è allora un passo mosso   dall’evangelizzazione; “strada facendo”, a casa come in ufficio, a scuola, al bar o al banco della frutta, insieme con noi si “avvicina il Regno di Dio”, la carne dalla quale è tratto chi ci è accanto, perché in essa, nelle Parole onnipotenti dell’annuncio del Vangelo, tutti possano ritrovare il proprio posto, quello lasciato vuoto proprio per loro, come quando in un puzzle, per ogni pezzo vi è una e una sola collocazione. Cristo vivo in noi suoi apostoli è lo spazio dove il prossimo può trovare la “Pace”; lo Spirito Santo ci guida da chi è “degno” del Regno, sino alla “casa”, alla vita di colui per il quale è stato preparato. Chi ci è accanto, infatti, ha la “dignità” di cittadino del Cielo; forse l’ha sepolta sotto i peccati, forse la sta rifiutando. Non è questo il problema della Chiesa e dei suoi figli; Dio, infatti, ama ogni uomo lasciandolo libero di rigettare perfino la propria dignità di “figlio della Pace”. A noi sono dati, per Grazia, occhi celesti per guardare chiunque con lo sguardo del Creatore, intercettando senza parzialità e pregiudizi, in tutti, la dignità.

Spinti dall’amore che ci ha raggiunti, siamo inviati, istante dopo istante, a “rivolgere il saluto”, che per un ebreo è sempre “shalom! Pace!”, il saluto di Cristo risorto. E’ la sintesi del Kerygma, dell’annuncio della Buona Notizia, le parole stupite e potenti che destano nell’altro la speranza e la fede, di fronte alla Verità che questo saluto trasmette: “Pace!”, che è come lasciar dire a Cristo attraverso le nostre parole: “tu sei carne della mia carne, tu sei fatto per Me, per il Regno che si è avvicinato a te; sono morto e risorto per te e ti ho preparato questo posto di Pace, di amore e misericordia”. Con noi Cristo torna da ogni suo fratello disperso, e ripete a ciascuno: “Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite!  Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste…  pronto per te, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli” (Da un’antica omelia per il Sabato Santo).

Per questo, la “strada” di ogni apostolo non può essere che quella percorsa da Colui che li ha inviati e del quale sono ambasciatori, la via della Croce. Sono crocifissi con Cristo perché in loro chiunque possa vedere chiaramente il perdono di Dio. Si comprende allora perché sono inviati senza portare con sé alcuna sicurezza, alcun appoggio se non la Parola da annunciare e che ha salvato loro per primi: “Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore – «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima, 2013). La missione sorge dunque dalla gratitudine per la gratuità con la quale gli apostoli hanno ricevuto tutto dal Signore. “Monete, sandali, bisacce” non fanno parte del loro bagaglio, come fu per per Davide dinanzi a Golia: solo cinque pietre, i cinque libri della Torah, la Parola trafitta nelle cinque piaghe del Signore. In essa vi è il potere di curare e guarire che li accompagna, per schiudere il Cielo attraverso la vittoria sul mondo e la corruttibilità della carne, mostrando a tutti la vita più forte della morte. La Chiesa è il segno del Cielo: senza timore essa opera prodigi, non è inviata nel mondo che per questo. Non serve se perde il sapore della Croce, il sale che purifica, sana e scaccia i demoni, liberando chi è schiavo del peccato! La Chiesa compie ciò che annuncia sulle strade degli uomini, perché Cristo è vivo in Lei. Con la forza creatrice di questa Parola siamo inviati anche noi, per sconfiggere il gigante Golia, immagine del demonio che insidia la loro vita, per portare a tutti la “consolazione” di Dio, come Barnaba, che significa appunto “figlio della consolazione”, e aprire le porte di casa, del Regno dei Cieli, dove solo incontreranno Pace, libertà e felicità autentiche: “E’ importante ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: “l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8) (Benedetto XVI, ibid.)

APPROFONDIMENTI

Benedetto XVI. San Barnaba, Apostolo

Altro che Ior e Vatileaks, la vera sciagura della Chiesa sono i cristiani insipidi

Altro che Ior e Vatileaks, la vera sciagura della Chiesa sono i cristiani insipidi

di Pippo Corigliano da  www.tempi.it

Oggi è il momento di formare i giovani su questo doppio binario, fede e professionalità, e la migliore formazione è l’esempio. Basta con gli adulti smarriti

 vaticano_statuar375-jpg-crop_displayLa pedagogia di papa Francesco è chiara: da una parte induce a uscire da se stessi, ad andare incontro agli altri, a darsi da fare per il bene materiale e spirituale delle persone. Dall’altra consiglia di coltivare un intenso rapporto con Dio: confessarsi, pregare un tempo consistente davanti al tabernacolo, recitare il rosario e così via. Il Papa elimina il dualismo tra vita attiva e contemplativa, fonte di equivoci.

Oggi il problema principale della Chiesa non è il Vatileaks o lo Ior. E nemmeno la legislazione sulle nozze gay, l’aborto, l’eutanasia (temi importanti ma non decisivi). Il problema sta nei cristiani insipidi. Sant’Agostino diceva che se i cristiani fossero cristiani non ci sarebbe nessun pagano. De Gasperi non voleva che la Democrazia Cristiana si chiamasse così, ma cedette per il pericolo comunista. Sappiamo che il nome “cristiana” è stato fonte di scandalo nel momento della decadenza ma sappiamo anche che nel Dopoguerra c’erano politici che univano una profonda vita interiore, una fede vissuta, al desiderio di servire il paese con grandi capacità professionali. Grazie a quegli uomini, e al lavoro di tutti gli italiani, l’Italia ebbe uno sviluppo prodigioso.

Oggi è il momento di formare i giovani su questo doppio binario, fede e professionalità, e la migliore formazione è l’esempio. Basta con gli adulti smarriti: dobbiamo dare esempio e fiducia. Si veda che frequentiamo i sacramenti e che affrontiamo con serenità e determinazione le difficoltà del nostro tempo.

Papa Francesco e “Il Signore degli anelli”: La via per la salvezza

Papa Francesco e “Il Signore degli anelli”: La via per la salvezza

Giovanni Paolo II è stato un grande papa condottiero della libertà. Benedetto XVI è stato il vero illuminista – ha inondato di luce razionale illuminata dalla fede – un occidente ottenebrato dall’irrazionalità nichilista.

Ma né l’uno né l’altro sono stati ascoltati da questa Europa in declino che sembra correre verso il baratro.

Così – per uno spettacolare colpo di fantasia del Conclave (e dello Spirito Santo) – è arrivato papa Francesco che parla più ai piccoli e ai semplici cristiani che alle élite, alle accademie e ai salotti. Col risultato che le élite non lo capiscono. Esce da tutti i loro schemi mentali.

Ebbene, per sintonizzarsi con questo pontificato secondo me bisogna leggere “Il Signore degli Anelli” di John R. R. Tolkien. O meglio rileggerlo attraverso l’interpretazione che ne dà un monaco benedettino, Giulio Meiattini, nel libro “La discrezione di Dio”. Interpretazione che ha, sullo sfondo, il libro di Paolo Gulisano, “Tolkien: il mito e la grazia”, opera che ha il merito di mettere a fuoco la cattolicità di Tolkien.

 

OCCIDENTE

 

Padre Meiattini nota che lo scenario  su cui si muovono le vicende narrate dallo scrittore inglese è “quello, storicamente determinato, della crisi contemporanea della civiltà occidentale”, l’epoca di Spengler, Huizinga, Jasper.

Tolkien scrisse il suo poema epico negli anni fra le due guerre mondiali, quando imperversavano i due orrendi totalitarismi, nazista e comunista, e nuove minacce planetarie – come l’arma atomica – venivano apparecchiate dalla scienza.

La Terra di mezzo “possiede alcuni tratti fondamentali del Vecchio Continente, del mondo occidentale europeo” che – in rovina – si trova a dover “fronteggiare un’immensa forza negativa, violenta e distruttrice, che da Est, dalla terra di Mordor, allarga sempre più il suo raggio d’azione”.

In questo quadro l’ultimo “baluardo a difesa dell’Occidente” – come scrive Tolkien, è rappresentato dalla fortezza di Minas Tirith, eretta degli uomini di Gondor. E’ ciò che rimane di quello che fu il magnifico regno di Numenor (nome che significa appunto “regno dell’Occidente”).

Negli anni in cui l’inglese Tolkien scriveva l’Oriente era il luogo dei totalitarismi, dell’orrore e delle ideologie assassine. Proprio perché egli non volle scrivere un poema allegorico a sfondo politico, morale o religioso, ha creato un capolavoro che contiene tutte insieme queste chiavi di lettura.

Così è attuale anche oggi che la minaccia per l’Europa è cambiata. Infatti nella nostra epoca il tenebroso oriente, la terra di Mordor e l’oscuro Sauron sono impersonati da altre forze. Ma i Sauron di tutte le epoche sono accomunati dalla stessa menzogna: la pretesa di porsi al posto di Dio.

 

LA SPERANZA

 

Per questo – come scrive Gulisano – “Il Signore degli Anelli rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della modernità”.

Anche oggi del resto sentiamo risuonare l’allarme apocalittico di Denethor, re di Gondor: “L’Occidente soccombe. Avvamperà un enorme incendio e tutto scomparirà”.

Qual è dunque – per Tolkien – la via della salvezza? Egli mette sulle labbra del grande e saggio Gandalf  l’intuizione più preziosa: “Le nostre forze sono state appena sufficienti a respingere il primo assalto. Il prossimo sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Denethor aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi”.

Sembrerebbe un’affermazione disperata, ma poi Gandalf precisa: “Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi”.

E qui c’è la sorpresa, la grande intuizione di Tolkien, che poi è il paradosso cristiano. In chi Gandalf ripone la sua speranza? In un Eroe solitario? In una pattuglia di arditi? In una qualche stregoneria esoterica? In una nuova arma spettacolare e devastante?

No, nel giovane Frodo Baggins, uno hobbit, un ragazzino inerme, senza alcun potere, senza alcun sapere, un adolescente buono, semplice e inesperto.

E’ lui – la creatura meno tentata dall’Anello (metafora del Potere) – che si prenderà il gravoso incarico di avventurarsi nell’orrida terra del nemico e, in cima al monte Fato, gettare l’Anello nel vulcano.

Quell’Anello va distrutto perché – come dice Gandalf – “se Sauron lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale… se invece l’anello viene distrutto egli soccomberà”.

 

PER VINCERE

 

A prima vista viene da obiettare: perché non usare proprio l’anello di Sauron per sconfiggere lo stesso Sauron? Tolkien mostra che questa è la tentazione di tutti, ma è anche l’inganno più terribile e devastante.

“La salvezza dell’Occidente” scrive padre Meiattini “non è dunque dipendente dal potere militare o tecnologico, cose in cui Sauron non teme rivali e sulle quali edifica il suo regno, distruttivo contemporaneamente della natura e dei legami umani più veri”.

La salvezza è di natura spirituale.

“La salvezza” spiega Meiattini “dipende dal solitario cammino di un hobbit debole e inerme che porta, senza cedervi, il peso della tentazione e che alla fine distrugge la tentazione stessa, insieme all’anello che ne è l’oggetto e la fonte, vincendo non per forza propria, ma per un colpo di scena della Grazia”.

Quella di Frodo, “il Portatore dell’Anello”, è un’autentica Via Crucis, ma – osserva padre Meiattini – “chi sceglie la via della debolezza e della povertà, proprio grazie alla sua totale estraneità ai percorsi storici e mentali dell’autoaffermazione prevaricante del soggetto, sfugge alla presa dell’Occhio e dell’Ombra. Questa è l’unica mossa che Sauron non si aspetterebbe mai, l’unica che lo prenderebbe di sorpresa: che qualcuno decidesse di disfarsi dell’Anello del potere, di distruggerlo, invece di usarlo. Per lui questo sarebbe follia”.

E’ precisamente la “follia” cristiana, la “follia” di un Dio onnipotente che si fa uomo e che si lascia crocifiggere.

Conclude Meiattini: “la vera battaglia che salva l’Occidente, perciò, non è quella che si combatte sotto i bastioni di Minas Tirith, ma la battaglia del cuore, della mente e del corpo che in primo luogo Frodo sostiene per tutti”.

 

IL CAMMINO E LA GRAZIA

 

La sua “progressiva purificazione”, il sostegno della Compagnia dell’Anello, preziosa pur essendo anche i suoi membri soggetti alla caduta e al tradimento, come lui del resto (ma ce ne sono anche puri e fedeli come l’amico Sam), infine certi aiuti come quel cibo degli elfi, il “lembas”, che è una chiara metafora dell’eucarestia, segnano un cammino spirituale che porta il giovane Frodo alla salvezza del suo mondo.

Frodo vince non con l’autoaffermazione, ma proprio col sacrificio e la rinuncia. Del resto egli è il vero antieroe.

Il Novecento (quel Novecento delle ideologie che tanto hanno disprezzato il “piccolo borghese”) si è ubriacato con il culto dell’eroe, del superuomo, del Capo, delle forze storiche (la Classe, la Razza), delle entità divinizzate a cui sacrificare i popoli (il Mercato, lo Stato, il Partito, la Rivoluzione, la Scienza). Da qui è venuta e viene la minaccia e la rovina per la loro “pretesa divina”.

Invece la salvezza viene dal piccolo e debole uomo singolo, dalla sua silenziosa offerta di sé. Secondo Meiattini “è presente nell’opera di Tolkien una teologia della sostituzione vicaria che lo avvicina ad altri grandi romanzieri cattolici come Bernanos, Mauriac, Gertrude von le Fort”.

Vorrei aggiungere che lo avvicina ai santi del Novecento (cito padre Kolbe e padre Pio per tutti). Ma Frodo, il vero eroe del nostro tempo, è anzitutto il simbolo del bistrattato uomo semplice, del singolo, il fante delle due guerre mondiali, il padre di famiglia, l’uomo comune, il piccolo borghese, l’adolescente.

E’ soprattutto a lui che parla papa Francesco chiamandolo a salvare il mondo. Non con le proprie forze, ma con la Grazia.

Dice Meiattini: “è la grazia infatti la protagonista invisibile, ma palpabile del Signore degli Anelli”. E’ solo la Grazia che crea eroi veri.

 

Antonio Socci

http://www.youtube.com/watch?v=FmjIaWIDtCk

Da “Libero”, 9 giugno 2013

 

11 giugno. San Barnaba

Lunedì della X settimana del T.O.

dal vangelo secondo Mt 5,1-12

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”.

Il commento di don Antonello Iapicca

Può darsi che qualcuno si sia svegliato con un peso allo stomaco. E, forse, le lacrime abbiano attraversato il viso impregnandolo di un’amara malinconia. Può darsi che per qualcuno, oggi, sia un altro giorno triste: Angoscia, fallimento, paura e una totale povertà, l’aridità di chi ne ha provate tante, probabilmente si è anche impegnato, e non ha tratto un ragno dal buco. Il nulla nelle mani, e una serie di rimpianti da serrare gli occhi su qualsiasi presente. Poveri, pitocchi, nullatenenti, nelle relazioni disastrose, e un cuore esanime dopo l’infruttuosa rincorsa a un po’ d’affetto. Marziani in una società travestita, che per il solo fatto di varcare la soglia di una Chiesa ti impacchetta in una vetrina d’antiquariato. Abbiamo tentato di vivere diversamente, ma poi, quanta fatica ad andare controcorrente, lusinghe, tentazioni, pensieri, tutto a congiurare contro il brandello di vita cristiana che è questa nostra vita. E quella “fame” d’affetto, di abbracci, di qualcuno che ti accolga così come sei; “fame” di pace, di gioia, di un sorriso pieno che non scivoli dentro una lacrima di delusione; “fame di giustizia” tra mille ingiustizie che sembrano lastricare i nostri cammini, al lavoro, tra gli amici, a scuola, ovunque. Fame di eterno tra le sabbie mobili di un veleno che corrompe anche i momenti più belli. Un pellegrinaggio, un incontro, una catechesi, una liturgia, e tutto sembra risorgere, ma poi ecco la “solita vita” che incalza e sembra fagocitare voracemente ogni speranza di cambiamento.
E ci ritroviamo “poveri”, anche se non riusciamo ad accettarlo: “pitocchi”, capaci solo di mendicare e accumulare un compromesso dopo l’altro; e lacrime di “afflizione”, quasi sempre nascoste, timide, incerte, chiuse in un grido di tristezza strozzato negli obblighi di tutti i giorni. Lacrime impresentabili, cucite sulla fodera dei sorrisi di circostanza dinanzi ai genitori, ai mariti, alle mogli, agli amici, ai colleghi. E con l’odio di tutto il mondo addosso. Perché? Perché la sola nostra esistenza è oggetto di ripulsa, di veleni, di invidie, di odio? Perché siamo suoi, chiamati alla sua stessa beatitudine, e, per questo, tutto ciò che all’interno e all’esterno di noi stessi contrasta la nostra vocazione, ci muove guerra, cercando di strapparci la primogenitura che ci ha fatti eredi della “Terra”, perché ogni uomo possa entrarvi seguendo le nostre tracce.
La “giustizia della Croce” che si rivela inerme nei cristiani è sempre oggetto dei conati di violenza di chi la “perseguita” perché trionfi la menzogna della giustizia carnale. Due fidanzati che desiderano vivere un fidanzamento casto sono “perseguitati per causa della giustizia” ogni giorno, attaccati dai perversi sofismi del mondo e della sua cultura di morte e piacere, dagli ormoni che reclamano libertà, dalle passioni che bussano violentemente alle porte della carne, alleate del pensiero dominante che ha scardinato la Verità sull’uomo sostituita dalla dittatura del desiderio; ma proprio per questo sono “beati”, perché “di essi è il Regno dei Cieli”, cominciando a vivere già qui ed ora, nel loro rapporto, le primizie dell’amore puro e incorruttibile che Dio dona ai suoi figli: camminano nella semplicità, nel pudore, nella libertà, nella sincerità, nel rispetto e nel dono reciproco che crescono giorno dopo giorno, confermando quell’abbozzo e speranza di amore indissolubile deposto nelle loro mani, sino al giorno che, davanti a Dio e alla Chiesa, sarà benedetto e sigillato nel sacramento che li farà carne della propria carne.
Così, ogni sposo e sposa è chiamato ad essere “operatore di pace”, di quella annunciata e donata dal Signore risorto, e non quella che, illusoria, dà il mondo, frutto di ricatti e compromessi, schiava del ricordo, che assolve accumulando il risentimento perchè, giunto al limite, esploda senza pietà; nella vita di ogni giorno, essi possono vivere “beati” rinunciando a se stessi, al programma televisivo, alla camicia stirata, all’egoismo che fa del proprio corpo uno strumento di ricatto e vendetta, all’avarizia che chiude il portafoglio nel cassetto quando si tratta dei desideri dell’altro, ma lo apre quando si tratta dei propri; “beati” perché Cristo, vivo in loro, li accompagna ad incontrarsi nel perdono, la fonte pura della Pace che incorona di vittoria gli umili, i piccoli, i poveri, i perdenti, l’altro quando è più fragile, e magari ha torto marcio.
“Beati” tutti noi, proprio perché il mondo “mentendo, dice ogni sorta di male contro di noi”. Il mondo che forse ha ingannato chi ci sta accanto, in famiglia, o tra gli amici, o al lavoro. Beati quando tutti ci ritengono dei poveracci, sfortunati, maledetti. E’ in quel momento che la “gioia” vera può esplodere in noi, perché è quando la Verità risplende più luminosamente. Possiamo “esultare” perché Cristo è la nostra beatitudine, Colui che, con il suo amore infinito, colma di senso e pace le nostre ore, mentre il mondo, così apparentemente pieno, geme inconsciamente tra le angosce dell’inferno: nel vuoto e nella solitudine dove siamo per Lui, ora Lui è per noi, per donarci la Vita che non si esaurisce mai, sorgente dell’amore che ci fa consegnare alla storia e al prossimo in una libertà che la carne non conosce. Lì, dove tutto muore, Lui splende di vita eterna. Per questo, oggi, il Signore ci chiama Beati, svelandoci il nostro nome autentico e l’indistruttibile nostra identità. Dove il mondo muore, noi cominciamo a vivere, anche per il mondo.
“In ebraico la parola “ashrei” – felice – tradotta con “beato”, non allude a sentimenti, sensazioni o stati d’animo. E neanche a quiete, tranquillità e appagamento. Ma indica, invece, dinamismo, relazioni dinamiche; in un senso un po’ più esteso, la parola beato, felice, significa “cammino rinnovato in ogni momento” (M. Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). Parimenti, le Dieci Parole del Sinai, i famosi “comandamenti”, sono sempre stati compresi dalla tradizione ebraica come il “cammino” stesso della vita. “Fa questo”, ovvero, cammina così e avrai la vita. La nuova montagna sulle rive del lago di Tiberiade consegna il nuovo cammino, compimento dell’antico. Il cammino degli eletti, dei chiamati, dei santificati, del Popolo diverso da ogni altro popolo, della Chiesa, sposa senza macchia né ruga del più Bello tra i figli dell’uomo. Il cammino celeste tra le strade del mondo. Beato è l’uomo che cammina nella volontà di Dio, che è una storia impregnata di Grazia, tra “persecuzioni, povertà, sofferenze, ingiustizie”, con il mondo che vomita veleno sul Figlio incarnato nei suoi fratelli più piccoli, mentre risplende in loro la Grazia celeste di un amore che consegna la vita ai propri nemici. Siamo chiamati ad essere, tra tutti, i più “poveri”, nullatenenti, senza diritti, talvolta anche disprezzati e calunniati, per divenire i segni di un Regno che non è di questo mondo, per aprire a questo mondo le porte della speranza. C’è un’altra “Terra”, un altro “Regno”, un’altra vita, e brilla vittoriosa nella carne perseguitata e ferita dei cristiani. Beato, dunque, per i figli della Chiesa, significa, oggi e ogni giorno, vero, autentico, senza ipocrisie. Beato, cioè ben dentro la storia. Beato, cioè in cammino nella volontà di Dio. Beato è chi ha i sentimenti e il pensiero di Cristo, e vive unito a Lui.
La vita beata sarà la vita eternamente immersa nel suo amore, senza ostacoli e inciampi, senza lo scandalo della carne. Ma la vita beata inizia tra gli sconvolgimenti di questo mondo, si anticipa qui ed ora nella realissima e comunissima vita nostra d’ogni giorno. Casa, ufficio, scuola, affetti, ansie, dolori, gioie, sofferenze, minuti, istanti, giorni, mesi, anni, queste sono le beatitudini, i cammini che ci sono donati perché brilli in noi la Vita che non muore. In essi Dio ci “ammansisce”, doma la nostra carne per farci “miti” dinanzi alla storia, liberi dal pungiglione che ha avvelenato Adamo ed Eva, e per questo “beati” che “ereditano” ogni istante come fosse la “Terra” dove gustare il latte e il miele dell’amore e della misericordia. Solo chi vive già come un cittadino del Cielo ha gli occhi “puri” per godere la beatitudine che sgorga dal “vedere Dio” in ogni evento, anche nella collera del prossimo, nella precarietà economica, in un cancro che appare improvviso, anche nella morte, interiore e della carne. Mitezza, purezza, pace e misericordia sono i battiti del suo cuore in noi, i bagliori della Sua grazia nei crogiuoli delle nostre esistenze, le parole autentiche e credibili dell’annuncio fatto carne in uomini uguali a tutti gli altri, ma eletti e chiamati per mostrare al mondo il Destino che attende tutti. Le beatitudini sono la Buona Notizia di Cristo Risorto nei suoi fratelli risorti con Lui. Così, nella vita quotidiana si compie la missione che Dio ci ha affidato sin dal seno di nostra madre. Vivere Beati perché ogni uomo sia beato. Così un padre e una madre, un sacerdote, un professore, un catechista, ognuno di noi di fronte a chi ci è stato affidato, sarà un educatore, un testimone credibile, impregnato nella beatitudine di chi ha conosciuto la misericordia di Dio e in misericordia è trasformato, e pensa, parla e agisce con magnanimità: “Noi dobbiamo essere magnanimi, con il cuore grande, senza paura. Scommettere sempre sui grandi ideali. Ma anche magnanimità con le cose piccole, con le cose quotidiane. Il cuore largo, il cuore grande. E questa magnanimità è importante trovarla con Gesù, nella contemplazione di Gesù. Gesù è quello che ci apre le finestre all’orizzonte. Magnanimità significa camminare con Gesù, con il cuore attento a quello che Gesù ci dice” (Papa Francesco, Agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti, 7 giugno 2013). Magnanimi perché beati, e beati perché siamo, esattamente come e dove siamo, in Lui, con Lui, per Lui.

APPROFONDIRE

Commenti Patristici

Percorso esegetico

Catechismo: LA NOSTRA VOCAZIONE ALLA BEATITUDINE

Giovanni Paolo II. Le beatitudini. Omelia sul Monte Korazim

Benedetto XVI. La rivoluzione delle Beatitudini.

Don Umberto Neri. Le beatitudini

P. R. Cantalamessa. I destini diametralmente opposti nella vita umana. 

Le Beatitudini e i Comandamenti

Papa Francesco e “Il Signore degli anelli”: La via per la salvezza

Il Papa: “La morte di un uomo non è una notizia ma -10 punti in Borsa è una tragedia”

La catechesi di Francesco nell’udienza generale del mercoledì alla presenza di settantamila fedeli che ha ricordato come sia necessario contrastare la cultura dello spreco ” buttare il cibo è rubare al povero”

Alessandro Speciale da Vatican Insider

Il Papa tra la folla nell'udienza del mercoledì

Un fermo no alla “cultura dello scarto”, dell’usa-e-getta, del consumo veloce e senza freni che porta all’idolatria del denaro e degli indici di Borsa: in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, papa Francesco ha approfittato della catechesi dell’udienza generale del mercoledì per lanciare lanciare “un forte richiamo alla necessità di eliminare gli sprechi e la distruzione di alimenti”.

Per papa Bergoglio, questa “cultura dello scarto”, che “tende a diventare mentalità comune che contagia tutti”, mette in pericolo in primo luogo la persona umana. Dio infatti ha dato all’uomo il compito di “coltivare e custodire” il creato ma gli uomini troppo spesso dimenticano questo incarico, distratti dall’inseguimento ossessivo de soldi. E lo fanno fino al punto che “la vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora, come il nascituro, o non serve più, come l’anziano”. Invece è proprio all’esempio dei “nostri nonni” che bisogna guardare, con la loro attenzione a “non gettare nulla del cibo avanzato”.

Francesco ha denunciato l’indifferenza che fa sì che, nel mondo di oggi, una persona che muore di freddo per strada non faccia notizia: “Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia. Sembra normale! … Al contrario di questo, per esempio, un abbassamento di 10 punti nelle Borse di alcune città, costituisce una tragedia… Così le persone vengono ‘scartate’. Noi, le persone, veniamo scartati, come se fossimo rifiuti”. Colpa del consumismo sfrenato, ha aggiunto, che “ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale talvolta non siamo più in grado di dare il giusto valore, che va ben al di là dei meri parametri economici”.

“Quello che comanda oggi non è l’uomo, è il denaro: il denaro, i soldi comandano!”, ha tuonato il pontefice. Eppure, ha aggiunto, “Dio, Nostro Padre, ha dato il compito di custodire la terra no ai soldi, a noi: gli uomini e le donne! Noi abbiamo questo compito!”. “Così – ha proseguito – uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la ‘cultura dello scarto’. Se si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità”.

In questo senso, l’ecologia ha a che fare non solo con il “rapporto tra noi e l’ambiente” ma riguarda anche i rapporti umani: “Noi stiamo vivendo un momento di crisi”, ha ricordato Francesco, “la persona umana è in pericolo”.

11 giugno. San Barnaba

Giovedì della IX settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Mc 12,28-34 

In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Il commento di don Antonello Iapicca

La “saggezza” dell’uomo consiste nel saper rispondere a una domanda, quella decisiva: “Qual’è il primo dei comandamenti?”. Il Vangelo di oggi ci svela che, per essa, vi è una risposta intelligente da cui deriva una vita altrettanto intelligente, sapiente, gustosa. La parola comandamento traduce diversi termini ebraici che significano una parola che affida un incaricoun comando fissato come un ordine di servizio, la legge “incisa” che orienta e dirige il compimento di una missione. Secondo la tradizione di Israele, i comandamenti sono sempre parole di vita: il loro compimento non è mai una fredda osservanza, ma è, invece, qualcosa di esistenziale, il cammino che conduce alla riuscita della vita attraverso il compimento della missione affidata a ciascun uomo: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga” (Gv.15). Il comandamento è, dunque, una missione, rivela l’elezione e la primogenitura, la verità affidata a Israele prima e alla Chiesa poi perché sia annunciata al mondo. La domanda decisiva che appare nel Vangelo allora, può significare: “Che cos’è decisivo e imprescindibile nella vita? Quale è il cuore della missione che mi è affidata? Tra le tante che sento ogni giorno, qual’è la Parola che mi guida verso il Regno di Dio?”. La nostra vita, infatti, è come una freccia scoccata dall’arco verso un obiettivo ben preciso. Chet, uno dei termini ebraici del concetto di “peccato” significa “fallire il bersaglio”; in greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente direzione sbagliata di vita, come di un bersaglio che non si è riusciti a cogliere. Il termine peccato significa dunque una direzione sbagliata della propria esistenzaè relativo all’ontologia ancor prima che alla morale. S. Agostino considera il peccato come un “bene che non ha raggiunto il suo fine”. Il Concilio Vaticano II afferma che il peccato è un limite che l’uomo mette alla propria crescita, “ una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” (GS 1,13). Non è possibile vivere confondendo pensieri, affezioni e azioni nel grigio del compromesso; o si è sapienti o si è stolti, o con il Signore o contro di Lui: “Gesù, vedendo che aveva risposto intelligentemente“… ovvero con discernimento, con sapienza, fissando il cuore della vita nel cuore della Scrittura. L’incipit del Decalogo, le Dieci Parole di Vita vergate con il fuoco dell’amore divino e rivelate sul Sinai, rammenta un’esperienza. L’ascolto è preceduto e accompagnato da un’esperienza: la liberazione dall’Egitto. Lo stesso incipit dello Shemà, il comandamento più grande: l’amore a Dio e al prossimo scaturisce dall’esperienza dell’unicità di Dio. Per questo prima di essere un comandamento, lo Shemà è un annuncio e una profezia, la rivelazione di un’identità: Ascolta Israele, il Signore è uno. Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata a Israele prima e alla Chiesa poi, l’incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l’identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell’apostolo, dell’inviato. Nella relazione di intima comunione tra Liberatore e liberato è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande. Gesù e lo scriba sono entrambi figli di Israele, conoscono le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa “angoscia, luogo dove l’umano è definitivamente incastrato e rinserrato”. In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile, incastrato nel servizio agli idoli, e forse si è esso stesso sottomesso all’idolatria, disordine che dissipa “cuore, mente e forze”. “Disordine” in ebraico si dice “faraone”: a lui asservito il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l’arco scoccato stava fallendo il bersaglio, e la vita scorreva dissipata nella fatica della schiavitù. In questa situazione fallimentare è avvenuto l’impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo per condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo e il segno dell’opera unica compiuta dall’unico che ne aveva il potere: “Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che “solo il Signore suo Dio” può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del faraone. Vuole servire il solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto” (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). In quella prima Pasqua Dio era solo, non v’era con Lui alcun dio straniero; ha spiegato le sue ali e ha liberato il suo popolo rivelando se stesso nella forza incommensurabile del suo amore, l’unico che ha reso possibile l’impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E’ uno. E’ Dio. L’unica risposta alla questione che ci pone la vita è amarlo perché è unico: amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l’unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.
Nel dialogo tra lo scriba e Gesù si legge in filigrana tutta la storia di Israele che, proprio in quel momento, trova pienezza e compimento. E’ il dialogo tra il Liberatore-Gesù e il liberato-scriba che si incontrano nell’amore. Per questo Gesù conclude congratulandosi con lo scriba dicendogli che non è lontano dal Regno di Dio: aderendo alle sue parole lo scriba riconosce in quel comando la missione della sua vita che consiste nell’esodo dalla condizione servile alla libertà, dall’Egitto alla Terra Promessa, dalla morte alla vita, dal peccato al compimento, all’amore totale e senza condizioni. La missione di Gesù e la missione dello scriba-discepolo coincidono! Gesù è, nello stesso tempo, Dio e il prossimo oggetti dell’amore esclusivo e geloso di cui il comandamento dello Shemà. Ma anche lo scriba è l’oggetto dello stesso amore “unico” da parte di Gesù, che per lui, come per ogni uomo, si è fatto obbediente sino alla morte di Croce: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9). In ebraico i termini “ascolto” e “obbedienza” coincidono: così, nella parola dello Shemà, l’ascolto si fa obbedienza, nella quale l’amore si rivela autentico e incorruttibile. E’ il paradosso che smaschera le menzogne di questa società che reclama autodeterminazione e false libertà: solo nell’obbedienza di chi si abbandona senza riserve all’amore di Cristo si compie il “comandamento più grande”, il comandamento dell’uomo libero, e per questo capace di amare ad immagine e somiglianza del Dio libero che lo rigenerato nella misericordia. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perché non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il faraone vi è disordine e l’uomo vive dissipato: cuore, anima e forze si combattono conducendo l’uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge. L’ascolto della sua Parola è l’unica possibilità offerta all’uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. La Parola di Gesù è la Verità che annuncia la sua Croce gloriosa dove ha compiuto lo Shemà in una carne simile alla nostra; sulla Croce che ci attende ogni giorno il Signore ci offre il comandamento più grande come un dono gratuito nel quale ri-orientare la vita con cuore, anima e forze impiegate per amare. Allora, a chi consegnare se stessi se non a Gesù sul letto d’amore della Croce, dove Lui si è consegnato a noi? Dio infatti è “unico” perché il suo amore è l’unico che scende, con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l’unico che ci ama così come siamo. Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci di amare e di salvare? Tutto ha origine da un’esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà, ma dell’amore che sorge dall’essere amato, dal quale sgorga, naturalmente, l’amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico. Nulla di sentimentale, erotico e passionale, ma un amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente, amore unico per l’Unico amore. Per questo lo Shemà è il “comandamento più importante”, la roccia su cui erigere l’esistenza, la stabilità nell’instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà crocifisso è il fondamento del matrimonio, della sessualità vissuta secondo la volontà di Dio, del fidanzamento, dell’amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell’amore che compie lo Shemà. Esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate, sciogliendole dal laccio che le vorrebbe innalzare in un assoluto teso a nascondere il fondamento autentico. Lo Shemà è l’antidoto al fallimento dei rapporti: chi vive lo Shemà non dirà mai “non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima”, perché esso inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell’elezione a vivere sulla terra l’amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.