Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 8,1-3.
 
In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni. 
Il commento di don Antonello Iapicca
 
La missione nasce sempre dalla gratitudine. L’annuncio del Vangelo e ogni opera e attività al servizio della missione non si possono imporre. Non hanno nulla a che vedere con un volontariato di chi cerca se stesso. Sono opere della Grazia, di quel dono unico e gratuito dell’amore di Dio che risana, libera, ridona dignità e pienezza. L’esperienza del perdono e della vita nuova ricevuta gratuitamente muove “naturalmente” il cuore alla gratitudine. E la gratitudine si fa sempre sequela, offerta della propria vita. Chi ha sperimentato l’amore che sazia il cuore, chi ha scoperto per Chi e per che cosa vale davvero la pena vivere, non ha bisogno di appelli, di comitati, di convegni, di spot pubblicitari. Chi ha conosciuto l’amore di Cristo che lo ha guarito, ne è attratto, coinvolto e assorbito completamente. Quell’amore che ha colmato ogni suo desiderio, che ha ricreato un’esistenza agonizzante sotto i colpi del peccato, diviene, con evidenza, il centro e il motore della vita. Per esso si dedicano tempo, energie, beni. Le membra una volta offerte al peccato, vivificate da quell’amore, ne divengono strumenti privilegiati.
E’ la storia delle donne che appaiono nel Vangelo, fondamento della missione della Chiesa.
Come quella di Pietro, cercato e perdonato sulle sponde del lago di Galilea. La Chiesa è fondata sul perdono perché l’annuncio del Vangelo sia una Buona Notizia autentica nella vita dei testimoni. Pietro, gli Apostoli, le donne al seguito di Gesù, una comunità di “graziati”, un Popolo scampato alla spada e alla morte. Un popolo che, per pura gratitudine, annuncia l’unica notizia capace di salvare l’uomo; e serve con i propri beni, con la propria vita, l’opera più importante che si possa compiere sulla terra. Annunciare il Vangelo è il culto che San Paolo offre a Dio, il compimento dello Shemà, amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze: il Signore è uno solo perché Lui solo ha liberato il Popolo dalla schiavitù. Ha compiuto un’opera che nessuno avrebbe potuto compiere, e per questo la gratitudine si fa amore indiviso, ascolto obbediente trasformato in vita e testimonianza, dove anche i beni sono offerti con gioia. Nessun “dovere” moralistico, solo un’immensa gratitudine per un amore gratuito e senza condizioni: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. C’è da chiedersi allora come mai tanti problemi economici e di bilancio affliggano Diocesi e Parrocchie… E anche le nostre famiglie. Se è dando che si riceve… Forse non abbiamo ancora compreso quanto abbiamo ricevuto, e per questo non possiamo dare, e quindi continuare a ricevere…
E’ probabile che molti tra quanti frequentano e si impegnano nella Chiesa non abbiano ancora l’esperienza decisiva del perdono, della liberazione, dell’amore infinito di Dio: “colui al quale è stato perdonato poco ama poco”, e la carne e la paura impediscono la generosità che, solo, scaturisce dalla gratitudine e dalla libertà. Chi è stato amato molto ama molto, e l’amore si manifesta attraverso la totale generosità e il distacco dai beni, nell’intima certezza che Chi lo ha perdonato può, a maggior ragione, provvedere alla sua vita. La gratitudine, il segno di un Popolo che si sente amato, e così anche di famiglie dove l’amore ed il perdono ne costituiscono il fondamento, e così di amicizie, di fidanzamenti, anche di rapporti di lavoro: laddove regna il perdono, nelle relazioni fondate sulla misericordia di Dio, non può insinuarsi il veleno dell’avarizia, anche se la lotta con la carne e  il mondo ne tessono le trame. Chi vive abbandonato alla misericordia è misericordioso, offre senza riserve se stesso, progetti, schemi, tempo, denaro.
 
La Chiesa è il luogo della gratitudine. Con Cristo percorre ogni giorno le strade del mondo, annunciando la Buona Notizia. In ebraico la prima e l’ultima parola del primo versetto dello Shemà, Ascolta – Shemà e Uno – Echad terminano il primo con la lettera ‘ayin e il secondo con la lettera dalet: unite insieme queste due lettere formano la parola ‘edtestimone. La testimonianza, il martirio, l’annuncio fatto carne sino al dono della propria vita, scaturiscono dall’ascolto dell’Unico Dio, dell’obbedienza ad un amore sconvolgente che ha consegnato tutto se stesso per ciascun uomo. Gli apostoli, e con loro Maria che ha ascoltato e accolto e obbedito, e le donne che seguono il Signore con i propri beni, vivono lo Shemà, l’unicità piena di gratitudine dell’amore di Dio. A Cristo hanno dato tutto, perché da Cristo tutto hanno ricevuto. Per questo le donne, che tutto hanno consegnato a Cristo, dai peccati alla loro stessa vita, saranno le prime testimoni della sua risurrezione. Uno le ha amate di un amore unico, Uno è morto per loro, Uno è risorto per la loro giustificazione. Lo hanno ascoltato, hanno creduto, hanno accolto quell’unico amore, lo hanno incontrato sulla soglia del sepolcro, vivo e vittorioso. Nella sua vittoria la loro vita salvata diviene testimonianza dell’unica Verità capace di salvare e donare la felicità autentica.
Che bella allora la missione della donna nella Chiesa, e che stolta ignoranza esigere per loro quello che non sono e non saranno mai. Certo, se si segue l’ideologia per la quale ormai non vi sono più padri e madri ma solo genitore 1 e genitore 2, allora anche nella Chiesa, potremo avere ministro 1 e ministro 2, preti e suore liberamente intercambiabili, secondo il desiderio e il sentimento del momento. E invece proprio la società attuale spinge con urgenza la Chiesa perché mostri al mondo profeticamente la verità. Come Dio ha creato l’uomo a sua immagine “maschio e femmina”, così nella Chiesa esistono maschi e femmine, diversi ma l’uno aiuto dell’altro. Mai uguali ma sempre persone con identica dignità e valore. Un prete vale più di una suora perché presiede l’eucarestia? Chi pensa così non ha compreso nulla di una famiglia, della sua natura e bellezza.
L’immagine completa e autentica di Dio non è solo o più in un uomo che in una donna, anche se prete. L’immagine di Dio risplende nella diversità e nella complementarietà: “Dio crea l’umano maschio e femmina perché fosse l’amore e non l’uguaglianza ad unire le persone” (San Giovanni Crisostomo). Le donne sono il seno di misericordia, la tenerezza, l’accoglienza e la pazienza di Dio. Le donne sono il segno del perdono, perché in ciascuna, Maria ha dato compimento a quello che Eva ha interrotto. Se la “radice di tutti i mali è l’avarizia”, allora, tra le parole ingannevoli dette a Eva dal serpente, si nascondono anche quelle tese a innescare l’avarizia. Essere come Dio è anche appropriarsi dei beni che Lui ci dona. L’essere donna, madre e sposa ad esempio, è un bene immenso, se vissuto da figlia e creatura docile e abbandonata alla volontà del Padre e Creatore. L’orgoglio innescato da satana rompe anche l’essenza e il fondamento della natura e della specificità femminile. Non a caso le conseguenze del peccato annunciate dal Creatore ai progenitori toccando in modo decisivo l’essere sposa e madre della donna. Una donna avara che si chiude alla vita e all’amore, attaccandosi al denaro e al prestigio, cercando al di fuori del suo essere più intimo il compimento e la gioia, e rifiutandolo come fosse una umiliazione, è ormai presa nei lacci dell’inganno. Quanti disastri stia producendo questa menzogna lo vediamo oggi più che mai, nelle famiglie, nella Chiesa, ovunque; sta scomparendo l’equilibrio e la confusione sessuale, che vira sempre più verso perversione e libidine sfrenate, nasce dall’attacco ormai quasi vincente sferrato alla donna. E’ già profetizzato nell’Apocalisse e oggi ne stiamo vivendo il dramma profondo. Le Istituzioni “civili” (sic) hanno assunto senza fiatare l’inganno, sino a legiferare contro la donna nel nome delle donne: legittimare e promuovere che una madre possa uccidere il figlio del suo grembo è uccidere la donna, in quanto madre e sposa.

Per questo, le donne che, come quelle del Vangelo, sono state Madri, spose e vergini sono “state guarite da spiriti cattivi e da infermità”, sono il tesoro più prezioso della Chiesa, il suo cuore risanato, il suo seno rigenerato. Se la Chiesa è Madre, non può che esserlo nella continua purificazione, nel perdono che risana, guarisce, scaccia i “sette demoni” che si insinuano nelle donne cristiane. Come già fecero le Brigate Rosse, il demonio sa che puntando la donna può sferrare l’attacco decisivo “al cuore” della Chiesa. Ma c’è Maria, la docile e obbediente che accompagna ogni donna ad offrire tutto se stesse al compimento della Parola di Vita che genera nella Chiesa e per il mondo Gesù, l’unico Salvatore. Per questo le donne sono il Cielo terso che si affaccia sulla terra, la profezia della Vita eterna. Una madre non sarà mai un padre, e una moglie on sarà mai un marito, come la Vergine Maria non sarà mai Gesù suo Figlio. Lei non ha mai avuto problemi di ruolo e di prestigio, di identità e di parità. Lei era la Madre di Dio, la Sposa immacolata dell’Amore che non muore. Non desiderava altro perché quello che aveva era tutto, soprattutto perché quello che era stata chiamata a essere da prima della creazione era tutto, era l’avventura più affascinante, anche se piena di dolori: “Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità” (Papa Francesco, Intervista a Civiltà Cattolica).

Come le donne che hanno incontrato l’amore di Cristo e il suo perdono, e non possono più fare a meno di seguirlo e servirlo con tutto se stesse. Questo servizio, questa dedizione premurosa, questo amore di spose amate infinitamente è il ministero insostituibile e perfettamente complementare a quello dei presbiteri. Entrambi vivono per Cristo, entrambi servono la sua missione. Se i preti celebrano messa è per annunciare Lui; se le donne li servono perché possano celebrare messa, è, allo stesso modo, per annunciare Cristo. Le donne sono state le prime testimoni della risurrezione, le prime a sperimentare il suo perdono!!! Che privilegio, in una società nella quale alle donne non era consentito testimoniare nulla… Senza il loro annuncio Pietro non sarebbe andato al sepolcro… Quindi, senza l’annuncio delle donne niente messe, niente confessione e niente preti. 

Così è anche oggi: senza le donne che annunciano la resurrezione di Cristo, il perdono dei peccati attraverso il loro essere donne, madri, spose e vergini, nulla ha senso nella Chiesa, neanche il Papa: “Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! E’ più importante! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Ma la donna, nella Chiesa, non solo deve finire come mamma… Soltanto può fare questo, può fare quello, adesso fa la chierichetta, adesso legge la Lettura, è la presidentessa della Caritas … Ma, c’è di più! ma profondamente di più, anche misticamente di più. Se la Chiesa perde le donne, nella sua dimensione totale e reale, la Chiesa rischia la sterilità” (Papa Francesco, Brasile 2013).
Il profondamente di più è proprio questa avanguardia della storia (la guerra ad esempio, le carestie, e le nostre famiglie…) nella quale si trovano le donne, la madre di famiglia come la suora di clausura, la sposa come la vergine consacrata: la donna è al sepolcro prima di tutti, prima degli uomini, prima dei preti, dei padri e dei mariti. E’ lì perché ha seguito fedelmente il Signore, come Maria e la Maddalena, le uniche sotto la Croce. La donna ama e ha coraggio dove l’uomo teme e tradisce. La donna “apre” la Chiesa e il cammino che ad essa conduce. La donna è la Chiesa e per questo si apre e si dona, e accoglie ogni peccatore perché in essa incontri la misericordia nei sacramenti e nella Parola. Questo è fondamentale in ogni famiglia, come anche nelle comunità. Non può mancare l’amore ardente delle donne, la loro ricerca innamorata, il loro giungere all’alba e prima di tutti sulla soglia delle situazioni disperate. La mamma arriva sempre dove sente puzza di bruciato: guarda un figlio, lo “annusa” con il suo sesto senso, e ne intercetta subito il disagio, il dolore, la crisi; la madre, non si sa come, giunge sempre per prima al sepolcro dove si è infilata la vita dei suoi figli. E sempre per venerare e amare, donne innamorate e non “zitelle” come dice ancora Papa Francesco, donne feconde e fedeli, come le mirofore al sepolcro. E sempre accade lo stesso, appare Cristo risorto, e parla al loro cuore, e le apre alla speranza. Per questo, le madri corrono poi a chiamare il padre, perché vada anche lui alla tomba, e veda, e creda, e prenda decisioni… Prima la misericordia di una madre, e poi l’autorità del Padre, autorità che può essere accolta solo se scaturisce dalla misericordia materna.

E’ quanto ripete sempre Papa Francesco: “Una bella omelia, una vera omelia, deve cominciare con il primo annuncio, con l’annuncio della salvezza. Non c’è niente di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Poi si deve fare una catechesi. Infine si può tirare anche una conseguenza morale. Ma l’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa” (Papa Francesco, Intervista a Civiltà Cattolica). E questo ordine che è opera dello Spirito Santo, colloca proprio “il genio femminile nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti” (Papa Francesco, Ibid.); Infatti “è necessario” l’annuncio delle donne, la loro esperienza di essere guarite dalla misericordia, la loro intercessione che si fa annuncio invincibile di speranza, laddove si deve governare. Nelle famiglie come nella Chiesa, è questo l’equilibrio che oggi, in poche parole, il Vangelo ci annuncia: “C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità”. Con Cristo, nel cammino della Chiesa per le “città e i villaggi” delle generazioni del mondo, gli apostoli sono insieme alle donne per condividere e realizzare la volontà del Padre compiuta nel Figlio. Con Lui, insieme perdonati e salvati, rigenerati e inviati, uomini e donne, sacerdoti e suore, padri e madri sono inviati nel mondo a testimoniare con gratitudine l’immagine amorevole di Dio che ogni uomo desidera ardentemente di vedere.

Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Giovedì della XXIV settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 7,36-50.

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, dì pure». «Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va in pace!». 

Il commento di don Antonello Iapicca
Come al fariseo Simone il Signore oggi “ha qualcosa da dirci”. Ci vuol parlare dell’amore. E, invece di dissertare e proporre slogan, racconta fatti, gesti e atteggiamenti che i suoi occhi hanno appena visto. Soprattutto ci mostra le lacrime. In poche parole, e una donna tra le peggiori, Gesù ci dice che cosa è l’amore. Quello autentico, reale, e, soprattutto, possibile all’uomo. Non c’entra nulla la passione, il sentimento narrato e cantato, filmato e postato sui social networks. Lo diceva San paolo, tutto quello che sembra amore, e di quello magnifico e sorprendente come gettarsi nelle fiamme o donare tutti i beni, è pura vanità se non ha il timbro della carità… Per questo, con l’amore c’entra invece il peccato, e la carità di Cristo che è l’unica che può perdonarlo. Con l’amore c’entra il peccato originale del quale ci si è sbarazzati troppo presto, ingessati come siamo nella stessa ipocrita certezza di impeccabilità di Simone. Invece il peccato esiste, eccome. La “peccatrice di quella città” è immagine di ogni abitante di quella città; narra il Libro della Genesi che gli uomini, “emigrando dall’oriente capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono… Si dissero l’un l’altro: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gen. 11,2-4). Allontanandosi da Dio Oriente di luce perché gli uomini possano orientarsi nelle vicende della vita, gli uomini si “stabiliscono” e si “costruiscono una città e una torre”. Lasciano di essere nomadi e itineranti, ovvero abbandonati all’amore provvidente di Dio, e con le proprie forze cercano di farsi un nome senza Dio. Anzi, costruendo una città ben installata smettono di camminare e cercano di assaltare il Cielo, di innalzarsi e diventare come Dio. E’ il peccato di Adamo ed Eva, la superbia che sostituisce l’io a Dio. La peccatrice di quella città” altri non era che tu ed io, ogni uomo installatosi nei beni e seduto sulla propria anima. Era nota, famosa, e molti ne avevano approfittato: era un segno, come uno specchio nel quale tutti potevano vedere il proprio orgoglio e il proprio cuore adultero e idolatra. Ebbene questa donna diventa l’immagine più fedele dell’amore, perché esso può sgorgare solo dalla verità che si fa umiltà distillata in lacrime di pentimento.

Questa donna è immagine dell’anima che non si illude, sa che non può amare perché “peccatrice”. E’ come l’emoroissa che non può far nulla per fermare l’emorragia, come il figlio prodigo che non ha nulla e sente fame e rammenta l’abbondanza di casa. Questa donna sa che solo inginocchiata ai piedi di Gesù e piangendo i propri peccati può sperimentare la carità che è mancata alla sua vita e al suo amore adultero e di prostituta; sa che solo in essa può ritrovare la dignità e l’identità perdute. Esiste il peccato, nessuno può amare superando la carne. Abbiamo solo le lacrime con le quali abbandonarci alla misericordia di Dio perché le trasformi in dono. Le lacrime sono l’unico linguaggio possibile per uscire dal nostro orgoglio ed egoismo, e dire a Gesù  che lo amiamo, così come siamo e possiamo, con quello che abbiamo, il pentimento e le sue lacrime. Come quelle di Pietro, traditore e apostata, con la carne peccatrice trapassata e perdonata dallo sguardo misericordioso di Gesù. Chissà, forse questa donna avrà incrociato lo stesso sguardo, da dietro la folla, nascosta e tremante. E ora era ai suoi piedi, sperando che le sue lacrime scivolate sui piedi di Gesù possano introdurla nel suo cuore, essere liberata e “andare in pace”. L’amore vero e reale e possibile a te e a me oggi non può che essere bagnato dalle lacrime. Di nessun altro nel Vangelo il Signore ha mostrato l’amore – ponendolo addirittura come esempio – se non quello della donna del Vangelo di oggi. Così anche noi oggi possiamo versare le lacrime su Gesù supplicando la carità che può trasformare il nostro amore limitato al pentimento in dono e perdono che oltrepassa la soglia della morte e del peccato.

I fatti con i quali oggi il Signore ci parla dimostrano inequivocabilmente le due possibili relazioni con Lui. Una supponente, che lo cerca sì, e lo invita a pranzo, addirittura pregandolo di condividere la mensa, ma con il cuore lontano. L’atteggiamento di Simone, che si ferma sulla soglia dell’intimità, che resta imprigionato nella sua pretesa giustizia di fariseo, in quella sottile e subdola certezza che la visita in fondo gli sia dovuta, quasi un tributo. Il suo cuore non si stacca dal suo io, nessuna lacrima solca il suo viso, crede di conoscersi ed invece è prigioniero della menzogna. E giudica, appoggiandosi sulla propria conoscenza delle Scritture, guidato solo dai propri criteri, quelli fondati su regole e “precetti di uomini” buoni solo ad ingrassare l’uomo vecchio, accecato nell’orgoglio. Simone è con Gesù a mensa, ma è puro formalismo, ed il suo ego lo catapulta in una posizione di superiorità e sufficienza che gli fa dimenticare anche le regole elementari dell’accoglienza. Crede di compiere la Legge e i precetti, ma tralascia l’essenziale. Parla con parole carnali, pensa con pensieri mondani, e il suo rapporto con Cristo rimane superficiale.
E vi sono le lacrime di questa donna, una peccatrice. Immonda e indegna, che il solo toccarla infetta e rende impuri. Lei lo sa, conosce la propria assoluta indegnità, i peccati sono lì, tra le sue mani, evidenti. Ed un dolore acuto a percuoterle il petto, un’angoscia mortale. Questa donna ha toccato la morte. “Cinquecento denari di debito”, non basterebbe una vita a restituirli. Lei sa che non ha amore a sufficienza per riparare al non amore che ha seminato morte nella sua vita e in quella di tanti altri. Non basterebbero lavoro e fatica, neanche sfiancarsi tutti i giorni che le rimangono sarebbe sufficiente a rifondere il debito. Non ha altro che le lacrime, e proprio quelle sono, per Gesù nostro “creditore”, il debito che possiamo restituire. E’ inutile cercare di rabberciare le situazioni e di restituire quello che ormai abbiamo sottratto. Certe situazioni sono passate, certe occasioni di amare non tornano più. Però possiamo piangere ai piedi di Gesù, implorando che sia Lui a perdonare e donare la “pace” laddove abbiamo innescato guerre, e ripiani Lui per noi il debito contratto con i nostri “creditori”.

Per questo la donna non resiste, e, nonostante sappia di non potersi avvicinare a Gesù, “si avvicinò dunque non al capo, ma ai piedi del Signore; lei che aveva a lungo battuto la strada del vizio, cercava di seguire le orme segnate dai piedi santi del Signore. Cominciò a versare lacrime, che sono come il sangue del cuore, quindi lavò i piedi del Signore con l’umile confessione dei propri peccati” (S. Agostino). E dal fondo del dolore e del pentimento, la “fede”, ovvero la certezza che solo Gesù poteva perdonarla e riscattarla, la spinge ad inginocchiarsi dinanzi a Lui. A differenza degli altri “commensali” che “cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?»” lei non si chiede chi sia. Lei non ha tempo per pensare, deve inginocchiarsi, piangere e spandere la sua vita su quei piedi che hanno condotto Dio così vicino ai suoi peccati. Gli occhi della sua anima guardano Gesù, e lo vedono adagiato a mensa e ne intuiscono il destino, il sepolcro nel quale sarebbe adagiato, la tomba nella quale ella stessa giace a causa dei propri peccati. Gli occhi di questa donna vedono oltre, e, come la Maddalena al mattino di Pasqua, contemplano la vittoria sulla morte di Gesù, la pietra rovesciata e il suo sorgere dal sepolcro. Lei conosce quel sepolcro, per questo, con l’audacia figlia dell’amore, cerca Colui che, solo, può spalancare la sua tomba e ridonarle la libertà. E, ai piedi di Gesù, sperimenterà il perdono, “la pace” nella quale “andare”, il frutto squisito del Regno dei Cieli donato agli apostoli da Cristo risorto. Le sue lacrime hanno toccato il cuore di Gesù di un amore puro, e, scese sui suoi piedi, li hanno mossi ad entrare nel suo sepolcro e a dischiuderle le porte alla libertà e alla vita.

La compunzione, quella trafittura che prende il cuore e lo lacera nel pentimento è la fonte dell’amore. La verità che si fa umiltà e mendicanza di misericordia schiude il cuore all’intimità. E’ paradossale ma è così. L’amore vero sorge sempre da un cuore che mendica misericordia nella consapevolezza della propria indegnità. Un cuore umile incapace di esigere, chinato a ricevere le briciole come la Cananea, certa che un solo frammento di quell’amore è capace di colmare ogni fame. E’ il cuore che sa di non avere altra possibilità, che riconosce in Cristo l’unico che non si scandalizza, Dio fatto carne perché la carne più corrotta possa essere trasformata in Dio. “Ama di più” chi ha più bisogno d’amore, e per questo piange e si fa audace e spende tutto se stesso e ogni suo bene pur di conoscerlo e riceverlo. “Ama di più” chi ha compreso di non avere neanche un frammento d’amore e si inginocchia piangendo per supplicare dall’Amore fatto carne quel frammento con cui potrebbe amare.

Cosa ci manca per avere questo cuore? Perché siamo ancora così stolti da ritenerci giusti? Ancora non abbiamo compreso che, in molti, forse in tutti i casi, sono le lacrime ad avere partite vinta. Lacrime di moglie a scorrere sui piedi del marito, e lacrime di marito a scorrere sui piedi della moglie. Oggi, nel bel mezzo di una lite che si protrae da settimane, prender su e inginocchiarsi, senza parole, di fronte al fratello, coniuge, genitore o figlio che sia, e cominciare a piangere nel ricordo struggente dei nostri peccati. Solo la memoria che non fa sconti sulla verità sul nostro passato e sulla debolezza del nostro cuore può far sgorgare lacrime di pentimento autentico. Saranno queste lacrime a cancellare il ricordo dei peccati del prossimo, e a purificare ogni relazione. E accanto alle lacrime l’olio prezioso e profumato, i nostri beni – tutti perché no? – e quanto abbiamo di più importante, forse il tempo, i criteri, i progetti… noi stessi finalmente offerti al fratello. La conversione, infatti, spazza via idolatria e avarizia, e ci fa liberi per amare d’amor puro che non cerca contraccambio, e ci fa consegnare all’altro gratuitamente e senza misura.

Non dimentichiamolo mai, di fronte a noi vi è Cristo, adagiato nella carne e nella vita del fratello. Anche quando l’altro ci è nemico, in lui vi è Cristo fatto peccato nei suoi peccati, così come nei nostri. Allora, come la “peccatrice di quella città”, anche noi peccatori delle nostre città possiamo con fiducia prostrarci ai piedi di Cristo che viene a visitarci attraverso il fratello, nel luogo e nel momento che non ci aspetteremo. Non temiamo nulla se non la superbia, e gettiamoci ai piedi del fratello: incontreremo lo sguardo d’amore e di perdono di Gesù. Impareremo così che la comunione autentica tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, nasce solo dalla comune debolezza accolta e amata da Cristo.

Siamo alle fonti del cristianesimo. Non esiste vita spirituale laddove non è scoccata la scintilla di un incontro tra le lacrime e il perdono. La coscienza del proprio peccato e la consapevolezza dell’indegnità ha condotto, misteriosamente, questa donna ad inginocchiarsi dinanzi a Gesù. L’inganno della superbia di Simone invece, lo allontana e lo fa precipitare in un abisso ben più grave dei peccati commessi da questa peccatrice. L’orgoglio infatti getta nell’abisso del non-amore, dell’ipocrisia che sbarra la strada alla misericordia, e dove non c’è amore a Cristo regna la morte. Tra Dio e l’uomo, tra Gesù e ciascuno di noi vi è una sola relazione possibile: l’amore. Amore che si fa lacrime di compunzione nell’uomo e Parole di perdono in Dio.
Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Mercoledì della XXIV settimana del T.O.

 dal Vangelo secondo Luca 7,31-35. 

A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? 
Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto! 
E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. 
E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. 
Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli». 

Il commento di don Antonello Iapicca

Stolti o sapienti, non si può restare nel mezzo. O siamo “figli” della Sapienza rinati nella misericordia di Dio, o figli eternamente bambini che non sanno far altro che giocare e passare il tempo tra capricci e mormorazioni. Allora, siamo i figli di “questa generazione”, o siamo  ifigli di una “nuova generazione”, che non procede da carne e sangue ma dalla Sapienza della Croce? In essa è rivelato l’amore di Dio, la sua infinita pazienza e lo zelo pieno di compassione con il quale cerca ogni uomo. Il suo amore non resta invischiato negli schemi. Pur di salvare una persona si fa musica da ballare o lamento da piangere.

Non lo abbiamo sperimentato nella nostra vita? Quante volte il Signore ci ha raggiunto sui cammini nei quali ci eravamo perduti. Dio è così! Dio entra nelle discoteche pur di salvare un ragazzo che, ballando si sballa e butta la sua vita. Dio non lo ferma niente e nessuno! Vengono in mente le parole ripetute dagli ultimi tre Pontefici: di fronte alle sfide della Nuova Evangelizzazione essi hanno insistito sulla necessità di una “creatività pastorale”, perché anche la Chiesa non si fermi dinanzi alle difficoltà. Incontrando i presbiteri della Diocesi di Roma Papa Francesco sottolineava che bisogna “cercare la strada perché il Vangelo sia annunciato, anche se questo non è facile”. La creatività, infatti, “non è soltanto cambiare le cose. Essa viene dallo Spirito e si fa con la preghiera e si fa parlando con i fedeli, con la gente”. Non bisogna dunque aver paura, ma uscire proprio nelle “piazze” dove si raduna una generazione bambina, che ha bisogno di essere raggiunta laddove si trova, fosse anche, e spessissimo lo è, impigliata nei capricci.

Scriveva S. Ireneo che “Cristo, nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità” (S. Ireneo, Adversus haereses, IV, 34, 1). Ma come far giungere “tutta la novità” al collega, al cugino, forse anche ai figli che, incapaci di assumersi responsabilità, galleggiano sulla vita seguendo gli istinti e le concupiscenze? Innanzi tutto facendo memoria della nostra stessa esperienza. Dove ci è venuto a cercare il Signore? Come ci ha parlato? Come ha vinto la nostra durezza e la nostra superficialità? Con amore infinito e pazienza smisurata. E’ entrato nella nostra vita, si è fatto nostro compagno sul cammino, si è sporcato, è venuto con noi, anche laddove abbiamo deciso di peccare. Sì, non è restato fuori dalle bettole e dalle discoteche, non ci ha lasciati soli mentre ci dimenticavamo di Lui. Si è fatto peccato! Ah, ma questo è scandaloso! Sì, lo è, perché scandaloso è stato il nostro cuore, scandalosi i nostri peccati. Scandaloso l’esito della nostra vita lontana da Lui.

Per questo, come Davide quando, nella gioia immensa di aver recuperato l’Arca, danza mezzo nudo senza vergogna davanti al Popolo, Dio non ha avuto remore nel farsi giudicare come un “mangione e un beone” o come un “indemoniato”. Lo ha fatto per noi, per te e per me, bambini capricciosi, sempre attaccati alla carne dalla quale abbiamo creduto di mungere la vita. Sesso, oggetti, vacanze, denaro, potere e prestigio, successo e visibilità, ecco i prodotti acquistati nelle nostre “piazze”. E in mezzo al commercio che non ci ha mai arricchiti è giunta la sua Parola: quella seria e dura della verità che illumina i peccati, come “un lamento” nel quale avremmo potuto deporre le nostre lacrime. E quella dolce e compassionevole della misericordia, come di “un flauto” sulle cui note avremmo potuto danzare di gioia e gratitudine. Giovanni e Gesù: la Legge e la profezia che illumina la realtà e mette in ordine ciò che è disordinato; e la compassione che si siede accanto ai peccatori che hanno infranto la Legge, per scriverla nei loro cuori risanati. Ma forse non abbiamo accolto né l’una né l’altra, schiavi del nostro orgoglio capriccioso.

E allora ecco la Croce, la Sapienza che spazza via ogni tentativo della carne di saziare e dare ragioni che non può dare. Ecco Cristo crocifisso, eccolo farsi peccato nell’amore sino alla fine che l’ha unito al Padre. Ecco la Sapienza crocifissa, ecco lo Spirito Santo, dolce soffio che ci ha consegnato il perdono e la rigenerazione. Non a caso lo Spirito Santo è stato raffigurato dalla Tradizione come una colomba, quasi una figura femminile e materna. In ebraico il termine “ruah” è femminile. La Sapienza è una madre che rigenera e dà alla luce i suoi figli che ne testimonieranno la “giustizia”. Ecco il culmine inaspettato della “creatività coraggiosa” di Dio, quella alla quale Papa Francesco ha chiamato i suoi preti e la Chiesa. Sposa e Madre crocifissa con il suo Sposo e Figlio, è lei che annunciando il Vangelo genera “figli” alla Sapienza perché le rendano testimonianza. Tutti noi, raggiunti dalla sua predicazione, abbiamo potuto sperimentare la liberazione e la salvezza. Dopo esserci induriti tante volte è giunto per noi l’annuncio decisivo, e lo Spirito Santo ha sigillato nel nostro cuore l’amore infinito di Dio. Ora lo vediamo chiaramente, quante volte ci ha cercato, perdonato, ripescato nelle pozzanghere inquinate. Quante volte, sino a che non ci siamo abbandonati alla sua Sapienza crocifissa.

E ora siamo chiamati a rendere testimonianza alla “Sapienza”: siamo i suoi figli, non possiamo perdere neanche un’occasione. Il mondo capriccioso ci attende ovunque la storia ci conduca. E’ necessario aprire le parrocchie e i cuori, scendere sino alle periferie esistenziali, quelle fisiche e quelle spirituali, senza temere che lo Spirito Santo ci avvinca e ci conduca nella sua “creatività”: “bisogna cercare strade nuove, come una missione nel quartiere promossa dai laici” diceva Papa Francesco. E auspicava per la Chiesa e per ciascuno di noi “la conversione pastorale, perché anche il Codice di diritto canonico ci dà tante, tante possibilità, tanta libertà per cercare queste cose”. Esattamente come ripeteva Giovanni Paolo II, invitando i Vescovi a lasciare le forme vecchie e atrofizzate per aprirsi ai carismi che suscita lo Spirito Santo. E’ la sua creatività che ci ha salvato, è lei che dobbiamo seguire, senza paura…

Parole nuove, gesti nuovi e unici per tutte le uniche e irripetibili persone e situazioni che incontreremo: i piccoli, i poveri, i divorziati e i loro figli, le mamme che hanno abortito, i giovani che convivono, quelli che sporcano la vita con droghe e sesso, tutti quelli imprigionati nella rete del mondo e dei suoi messaggi virtuali; tutti ci attendono proprio nelle “piazze” dove si sono “seduti” lasciandosi vivere per morire. Ci aspettano per ascoltare la musica dello Spirito, le note dell’amore che si fa “danza o lamento”, di certo melodia crocifissa. Forse oggi con nostro figlio dovremo digiunare per annunciargli che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio; per questo dovremo proibire ciò che sazia la carne, senza paura di “cantare un lamento” per l’uomo vecchio che muore senza l’ossigeno delle concupiscenze. O forse dovremo, al contrario, sederci a mensa con nostra figlia, laddove ella sta gettando alle ortiche la propria vita; “mangiare e bere” il veleno che lei ingerisce ogni giorno per deporvi l’antidoto della tenerezza e della compassione che nulla giudica e niente esige; senza il timore di “suonare il flauto” della misericordia gioiosa perché possa “ballare” con noi la danza del banchetto autentico che sazia spirito e anima.

Ecco, il Signore ci manda oggi crocifissi con Lui a rendere testimonianza della Vita che nasce dalla morte, Sapienza nascosta al mondo. Ci manda come “madri” di figli capricciosi, perché, nell’incontro con la Sapienza misteriosa che incarna lo Spirito d’amore di Dio, possano ritrovare pace e maturità. Come Maria, nella Chiesa, in comunione con il Padre e il Figlio e sospinti dal soffio e dall’ardore dello Spirito, anche oggi siamo inviati a tutti per accoglierli nel grembo misericordioso nel quale anche noi abbiamo sperimentato la salvezza e la gioia. Nella libertà che non esige nulla per soddisfare il desiderio di successo. Anche oggi ci attendono “bambini” ostinati che non accoglieranno né Giovanni né Gesù. Ma proprio per questo saremo lì di fronte a loro, come Gesù fu accanto a Giuda. Le parole di Gesù non offrono spazio a sentimentalismi: quando il mondo rifiuta l’annuncio serio e misericordioso del Vangelo resta solo la testimonianza-martirio dei “figli della Sapienza”. Di fronte alla marea di insulti e persecuzioni non vi è che lo scoglio della Croce dove infrangersi. Forse in certe persone, forse addirittura in nostro figlio, non vedremo con gli occhi della carne nessun cambiamento, nessuna conversione; forse moriremo e lasceremo la persona cara schiava della droga o sull’orlo del divorzio. Ma in noi sarà incrollabile la certezza della fedeltà di Dio che, pur di salvare a ogni costo qualcuno, continua ad offrire suo Figlio nei “figli della Sapienza”. Proprio la nostra Croce, segno visibile di quella di Gesù, è il pegno della Grazia per chi ci rifiuta.

Quando tutto fallisce significa, infatti, che è giunto il momento della “creatività” che neanche il demonio poteva immaginare: la Croce sulla quale distendere le braccia e amare, caricandosi dei peccati dell’altro come un agnello muto di fronte ai suoi tosatori. Forse in ufficio, forse con quel parente, saremo chiamati oggi a offrire la nostra vita senza dire una parola e senza opporre resistenza polemica alle ingiustizie, alle calunnie, alle malvagità. Gesù è morto solo come un fallito, ma la sua Croce ha reso giustizia alla Sapienza: con essa stava salvando ogni uomo. Per questo il Signore ci chiama alla libertà che non spera nulla per sé, neanche di vedere la conversione; la Sapienza celeste attraversa la carne e il tempo e sa sperare oltre ogni apparenza. Quando ci lasceremo crocifiggere, i nostri occhi di fede giungeranno a vedere l’incontro della misericordia di Dio con chi ci sta togliendo la vita: collega, amico, figlio o nemico, tutti attendono di incontrare in noi i testimoni di una “giustizia” più grande di quella umana che apra loro le porte del Cielo.

Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Giovedì della XXIII settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Luca 6,27-38.

Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano.
A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica.
Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo.
Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.
Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato;
date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Il commento di don Antonello Iapicca

Gesù parla “a noi che ascoltiamo”, non a tutti. Attenzione, questo è fondamentale. Gesù non sta annunciando un nuovo ordine mondiale, non sta promulgando una nuova Costituzione, fosse anche, parafrasando Benigni, la più bella del mondo. Gesù parla a chi ascolta. La fede, infatti, viene dall’ascolto della predicazione. Essa è sempre “stolta” per il mondo, perché annuncia Cristo crocifisso. Eccolo infatti emergere dalle sue stesse parole: l’amore al nemico è l’amore crocifisso. Gesù parla a noi che abbiamo l’orecchio aperto per ascoltare, e ci invita innanzitutto a contemplare Lui, disteso sulla Croce ad offrire la vita per te e per me, suoi acerrimi nemici. O non è così? Non lo abbiamo maledetto ogni volta che abbiamo mormorato parlando male di Lui e della sua volontà? E come ha risposto? Benedicendoci! Ad ogni nostra maledizione Gesù ha sempre risposto parlando bene di noi al Padre, ripetendo senza sosta: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Ci ha giustificati, sino a dare la sua vita per noi. Questo è Cristo crocifisso. E così quando lo abbiamo maltrattato, nelle persone che ci sono accanto; non soltanto quando abbiamo alzato le mani, con i figli ad esempio, solo per dar sfogo alle frustrazioni; ma anche quando abbiamo ingannato e sedotto, usato e gettato via le persone come fossero oggetti. O quando lo abbiamo “percosso sulla guancia” in senso di sfida, togliendogli l’onore nelle offese e nelle calunnie con cui abbiamo colpito il prossimo.

Quante volte abbiamo “spellato” chi ci è accanto, come ripete Papa Francesco. Quante volte, con una superficialità disarmante abbiamo lasciato che la nostra lingua si facesse compagna di tante altre impegnate nello smontare pezzo a pezzo la dignità di un collega o anche di un amico? E quanti “mantelli” abbiamo sfilato da chi aveva solo quelli per coprirsi: quante ingiustizie per mettersi in tasca quattro soldi in più; le tasse, ingiuste e chi lo nega, non pagate, senza pensare che qualche anziano, per causa nostra, mangerà meno… Abbiamo preso ciò che non è nostro, mille volte al giorno. Non è nostra quella ragazza che appare nuda sul sito porno che abbiamo cercato. Anche se si sta prostituendo, quella donna è di Cristo che ha pagato per lei con il suo sangue; e di colui per il quale il Padre l’ha pensata; non è nostra la fidanzata sulla quale abbiamo allungato la mano; non è nostra neanche la moglie, e nemmeno il marito e nemmeno i figli. Ma quante volte ce ne siamo appropriati, volendo sapere delle loro cose intime, violando il segreto riservato a Dio; o cercando di assoggettare chi ci è accanto perché pensino e facciano come vogliamo noi. E Gesù ci ha sempre perdonato, amandoci senza riserve.

Non lo avremmo meritato, eppure…. Se il matrimonio è ancora in piedi è grazie alla sua Croce sulla quale si è donato, offrendoci la guancia, la tunica, tutto se stesso. E’ su di Lui che si è abbattuta la nostra concupiscenza e mille volte si è infranta perché non provocasse danni più grandi. Questa è la Croce predicata dalla Chiesa, la salvezza che abbiamo sperimentato tante volte. Siamo stati amati senza alcun merito, senza nessun diritto, gratuitamente. E oggi di nuovo ci viene annunciato l’amore svelato sulla Croce di Gesù, per ridestare la gratitudine e scoprire in essa la nostra vocazione. “A noi che ascoltiamo” è riservato il privilegio di essere, per il mondo, crocifissi con Cristo. La Chiesa, assemblea convocata per ascoltare il Signore, è la Sposa che Cristo ha unito a sé sul Legno benedetto: l’amore infinito che essa sperimenta si rivela proprio attraverso la sua presenza nella storia. Unita allo Sposo ne mostra la vita: i suoi figli amano i nemici per strapparli all’inimicizia. Stretti nel suo abbraccio che ci infonde la vita che non muore, stendiamo le braccia per donare tutto quello che abbiamo, liberi, senza difendere nulla. Mantello e onore, denaro e vita, tutto è per chi ancora non ha conosciuto il Signore, per quelli che lo odiano, perché la “misura” del suo amore è ben più grande di quella dei peccati più atroci.
“Manikos eros” diceva Casabilas, amore folle quello di Dio. E lo stesso Elisabetta della Trinità, quando affermava di credere nel “troppo amore di Dio”, per abbandonarsi e non vivere altro che di quella misericordia, la molecola fondamentale della stessa aria che respiriamo. “Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro” (Elisabetta della Trinità). La vita autentica nasce dallo stare interiormente prostrati dinanzi al seno materno di Dio, in attesa, come la donna fenicia, come Maria ai piedi di Gesù, come la Maddalena. Aspettando trepidanti la sua misericordia, che si schiuda il suo seno (misericordia traduce il greco oiktirmon che a sua volta traduce l’ebraico rahamin, che indica il ventre, l’utero) e ne sgorghi quel liquido amiotico senza il quale non possiamo essere gestati alla vita celeste. La sua misericordia è, infatti, l’acqua della vita.

Non esiste unità di misura per l’amore di Dio. E noi, quante volte misuriamo il tempo speso per gli altri, il perdono offerto, la quantità di vita consegnata? Sì, perchè in fondo, quel che facciamo è prestare e mai donare. Per chi dona le misure non contano. Il dono non conosce calcoli. Quando nel cuore si comincia a tenere una segreta contabilità, una partita di dare e avere, è il segno che il Cielo è ormai chiuso, e la vita dei figli è divenuta vita di orfani. Come nella parabola del figliol prodigo, che esige dal padre di conteggiare la parte che gli spetta per spendersela in libertà e autonomia. E’ proprio questo il primo passo verso la rovina: aver obbligato suo padre a misurare ciò che non ha misura; ed è esattamente quello che, malmostosamente, ha fatto anche il figlio maggiore, quando, preda della gelosia, si è messo a calcolare l’incalcolabile amore del padre. Entrambi non avevano compreso che il tranello antico posto dal demonio ad Adamo ed Eva, era proprio quello di misurare l’eredità, che, da infinita, diviene così qualcosa di finito, esauribile, invidiabile, oggetto di gelosie, avarizia e concupiscenza, di difesa strenua a costo di uccidere l’altro con giudizi e condanne: misurare l’amore del Padre conduce sempre a rinchiuderlo nello spazio angusto della carne, dell’umano, farlo decadere dall’agape all’eros. E’ questo, in definitiva, il frutto mortale del peccato, voler accaparrarsi della Grazia, del dono, e ritrovarsi così padroni del nulla, schiavi delle passioni, sempre a corto di pazienza e misericordia, privati di quell’eccedenza d’amore, di quell’amore smisurato che, solo, può compiere la vita. Senza l’agape, i matrimoni restano senza vino, e fanno acqua, incapaci di sopportare l’urto della carne. Senza l’eccedere della carità, le amicizie evaporano, i fidanzamenti si piegano ai compromessi, le relazioni tra genitori e figli divengono campi di battaglia.
Eccoci in un giorno nuovo; ci aspetta un momento difficile con la moglie, un figlio ribelle, una suocera indurita, un collega geloso, un fidanzato in crisi, di fronte a quello che ci presenta la storia ferita dal peccato, possiamo davvero misurare quello che abbiamo tra le mani? “Che cos’è questo nulla per sfamare tanta gente, per vivere in pienezza e secondo la volontà d’amore del Padre?”. Misuriamo, come i discepoli, e ci ritroviamo con cinque pani e due pesci, nulla di fronte all’eccezionalità della necessità. Perché ogni situazione che siamo chiamati a vivere è eccezionale e necessita un amore smisurato, che, come il Nilo, tracimi dal letto abituale, quello dell’ordinaria amministrazione dei compromessi ipocriti e impauriti, per fecondare e donare la vita. Il peccato ha ferito la storia, per viverla da figli di Dio è necessario un amore che ha vinto il peccato.
Occorre un amore senza misura per custodire la castità nel fidanzamento, che superi la passione e il sentimento, per rispettare e custodire l’altro nella purezza di un figlio di Dio, attendendo con pazienza di vedere confermata la volontà di Dio nel matrimonio; è necessario un amore che trascenda ogni calcolo per aprirsi alla vita e vivere la sessualità coniugale abbandonati alla volontà di Dio; un amore più forte della vanità femminile, delle angosce per la precarietà economica, un amore che abbracci la vita consegnandola al suo Autore, affidandola a Colui che la rende eterna, superando i confini della carne.
Gesù ci guarda oggi e ci chiede il nulla che abbiamo per trasformarlo in un folle e smisurato amore, capace di eccedere e condurci in una vita nuova, quella dei figli, somiglianti al Padre, allevati nella sua misericordia per essere pura misericordia per ogni nostro prossimo. Chi vive nascosto nel seno del Padre, immerso nella sua misericordia, chi si nutre, istante dopo istante del suo perdono, chi sperimenta, quotidianamente, il suo amore incalcolabile, ha smarrito il giudizio, il suo cuore è ormai intento a succhiare il latte della misericordia e non può preoccuparsi di condannare e pensar male degli altri. I suoi occhi sono intrisi nello sguardo del Signore, non sanno guardare nessuno se non attraverso gli occhi di Dio. E non può amare che con il cuore di Dio, senza timore, perché il proprio cuore è già nel Cielo e nessuno potrà mai trafugare ciò che non si si può misurare e non si esaurisce. Un amore donato nella carne delle proprie ore, spese gratuitamente, senza difendere nulla, senza invidia e gelosia perché Dio è lo stesso e ama tutti con lo stesso cuore.
Israele conosceva l’attenzione al forestiero perché ne aveva fatta l’amara esperienza in Egitto e aveva visto e assaporato la vittoria del braccio di Yahwè disteso a liberarlo. Così l’uomo creato per amare e perdonare, straniero in una terra d’odio e rancore, liberato gratuitamente dalla tirannide dell’oppressore, conoscerà per esperienza l’angustia di chi è ancora straniero in una terra non sua. Saprà perdonare chi non sa perdonare. Non si tratta di cercare e sforzarsi di non giudicare, di non condannare, di allargare la misura del proprio cuore. E’ opera impossibile all’uomo. Si tratta di conoscersi, di avere chiaro l’abisso del proprio cuore, e in esso incontrare l’infinita misericordia del Padre. Chi vive ai piedi dell’amore è trasformato a poco a poco in amore misericordioso, capace di giustificare, senza misura. Dal suo grembo, dalle sue viscere, nascerà solo misericordia, in misura traboccante, incalcolabile, la stessa nella quale è rinato, gratuitamente.
Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Venerdì della XXII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 5,33-39

In quel tempo, i farisei e i loro scribi dissero a Gesù: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!». 
Gesù rispose loro: «Potete forse far digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno». 
Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”».

Il commento di don Antonello Iapicca

Amore e libertà: i discepoli di Gesù digiunano per amore, in libertà. Il digiuno cristiano è memoria, non è solo una pratica religiosa per purificarsi. E’ inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno. E’ una condizione essenziale dell’esistenza, vivendo autenticamente la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, contemporaneamente, non lo è in pienezza, perché questa è riservata al Cielo. La terra è ancora un cammino, passi che si susseguono verso il compimento, mentre la mancanza e il desiderio si acuiscono all’avvicinarsi della meta. Le nostre nozze con il Signore sono certo indissolubili, eppure “vi sono giorni nei quali lo sposo ci è tolto”. E’ quando la vita si addentra nel mistero di una compiutezza pregustata ma non ancora completamente assaporata. E’ il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell’attesa della parusia. Essa vive del Memoriale del suo Signore, l’eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Per Lui getta ogni avere, gli spiccioli che ha per vivere, per Lui digiuna, perché Lui è la sua vita.
Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, che afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! E’ la parola che chiude la Scrittura: “Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap. 22,20). Il digiuno è il nostro Maràn athà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l’attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quel banchetto lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, nella speranza dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù deposto nel sepolcro. Un digiuno che custodisce la promessa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Digiunare è spogliarci in attesa d’essere una sola carne redenta con il nostro Sposo, nell’ansia del santo e castissimo amplesso, quell’amore eterno per il quale siamo stati creati.
Il digiuno esprime la novità di un rapporto autentico con Dio, non più basato sul timore ma sull’amore, come un’abitudine nuova, l’abito nuovo con il quale entrare nella storia quotidiana; come alle nozze di Cana, il digiuno prepara e spera, l’avvento del “vino nuovo”, il segno di una festa e un’allegria sconosciute che scaturiscono dall’amore più forte della morte. La Chiesa, come Maria, sa che Gesù è con Lei, nella vita dei suoi figli, anche se non è giunta ancora l’ora della sua definitiva manifestazione riservata alla parusia. Per questo prega e digiuna perché. anche se le nozze si compiranno solo nel mondo futuro, il demonio non abbia potere sul loro preludio che è la vita in questo mondo. Pur digiunando, la Chiesa non smette il “vestito nuovo” della festa per indossare abiti rattoppati che certamente si squarceranno.
I cristiani non cercano soluzioni superficiali ai problemi, come i digiuni fatti per dimagrire nel corpo e ingrassare così l’uomo vecchio schiavo dell’orgoglio e della vanità. In poco tempo, e senza accorgersene, la fame del superbo si fa più forte ed esigente, e finisce per divenire più grasso e tronfio di prima, l’esito inevitabile di chi cerca sempre il compromesso tra il passato di peccato e la vita nuova della Grazia, tra il mondo e Dio, come “toppe cucite sugli strappi”, “otri” incapaci di contenere e custodire l’assoluta novità dell’amore di Cristo. I cristiani, paradossalmente, digiunano pregustando già il “vino nuovo” che non spacca gli otri della propria vita, ma, proprio nella precarietà e nella debolezza di una vedova, la memoria dello Sposo che è il digiuno, costituisce la loro forza, con la quale entrano nei giorni senza dissipare e strappare nulla, donandosi con amore a tutti.
Per questo Santa Teresa d’Avila diceva “Muoio perché non muoio”, e San Paolo affermava che “il morire è meglio del vivere”. Non era disprezzo della vita, anzi: più si vive intensamente la vita terrena più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l’ansia d’un amore perfetto e definitivo: siamo chiamati a divenire “uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo” (N. Kabasilas). Feriti dal dardo d’amore del loro Sposo i figli delle nozze vivono un’attesa di pienezza che nulla sulla terra può colmare.
Quando sperimentiamo la lontananza da una persona cara che vorremmo vicino; quando dobbiamo vedere le persone amate dileguarsi e scomparire dall’orizzonte della nostra vita; quando forte è l’esperienza della frustrazione, e sforzi, progetti, speranze sembrano andare in fumo; quando le sofferenze, la precarietà, le malattie, la solitudine, i fallimenti, ghermiscono l’esistenza e non le lasciano proprio nulla cui appoggiarsi, nulla a dare consistenza alle giornate, al lavoro, agli affetti; quando le debolezze ci rivelano incapaci di donare la vita e amore; quando la Croce ci accoglie, spogli di ogni certezza, nell’esperienza dura di trovarci lontani dal paradiso, nudi e indifesi come Adamo ed Eva prostrati dalla fatica e dal dolore; quando, come a Cana, “non abbiamo più vino”, e questo definisce senza sconti la nostra vita; quando la guerra e la violenza incombono, e i demoni affilano le armi per ucciderci, il digiuno emerge quale condizione esistenziale autentica e ineludibile. Papa Francesco lo sa bene e per questo ha invitato tutti a digiunare perché il Signore ci doni la sua pace. Essa non può essere il frutto di compromessi terreni, precari e stabiliti per essere infranti; la pace può essere solo un dono celeste, che superi le barriere degli egoismi. Qualcosa di nuovo e imprevisto, un otre nuovo per contenere il vino nuovo della vita divina.
Per questo in alcuni momenti, quando più intensa è l’esperienza della mancanza di pienezza e più viva è la consapevolezza che la presenza assoluta dello Sposo è questione di vita o di morte – quando siamo incastrati sul legno della Croce – è “naturale” il digiuno, il segno con il quale affermare di voler accogliere la storia così come Dio ce la dona, perché proprio in essa è presente il nostro Sposo. Cristo crocifisso, infatti, appare come la feccia degli uomini, uno davanti al quale coprirsi il volto per non guardare, non di certo come lo Sposo più bello; eppure, celato in quel “digiuno d’uomo” c’è Dio. Sul Golgota nessuno era capace di vederlo; al contrario, era lì come il peggiore dei bestemmiatori. Esattamente come appare la nostra esistenza, ferita, nuda, affamata; ma in essa è nascosto Cristo, carne della nostra carne, la sua Vita divina vi è deposta come un seme nella nostra vita mortale, la pienezza incastonata nella precarietà e nella caducità.
Non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualcosa, non è allora solo una pratica ascetica per “saziare” e ingrassare l’uomo vecchio che, spesso, fa anche della religione qualcosa di carnale, idolatrando perfino la santità. Digiunare è un’esigenza, un grido dalla Croce, l’eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: “Dio mio, Dio mio, Sposo mio perché mi hai abbandonato?” (Sal. 21).Il digiuno sono le lacrime che sperano il suo amore. E’ questa l’ascesi, l’ascesa orante al trono della misericordia che sappiamo non deludere mai. Digiunare è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, nella speranza fiduciosa di fare la stessa esperienza del salmista e di Gesù descritta al termine del salmo: “E io vivrò per lui… «Ecco l’opera del Signore!»” (Sal. 21). La fame che il digiuno suscita rivela la nostra realtà, quella dei nostri figli, dei giovani ai quali, troppo spesso, indichiamo percorsi diametralmente opposti e che non potranno mai realizzare le loro vite, consegnandoli così alla menzogna della vanità.
E’ dovere ineludibile di ogni educatore e apostolo illuminare profeticamente la vita e indicare nel digiuno, nel sacrificio, nel combattimento quotidiano, l’unico cammino che svela la verità celata nelle apparenze, la sola via autentica per vivere e non sopravvivere. Digiunare è come dipingere un’icona, un’immagine del destino promesso celato tra le pieghe delle vicende umane: “… quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un “digiuno della vista”. La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la gloria di Dio sul volto di Cristo” (J. Ratzinger, Messaggio inviato al Meeting di Rimini, 2002). La nostra vita è come un’icona che svela al mondo la Verità trasfigurata nella carne delle nostre storie quotidiane. E’ dunque parte essenziale della missione che ci è affidata, camminare interiormente con Cristo per aprire il Cielo della speranza a questa generazione. Questi luoghi e quest’ora non sono il destino definitivo: ogni uomo è nato per il Paradiso. Il nostro digiuno ne è un segno, per tutti.
 
 
APPROFONDIMENTI
 
 

L’icona dello Sposo

Silvano Fausti. Lo Sposo è con loro

Giovanni Paolo II. Allora digiuneranno

Raniero Cantalamessa. I discepoli e il digiuno

Emiliano Jimenez. Elemosina, preghiera, digiuno.

Luigi Giussani. La tristezza

Beato Jan Ruysbroeck. Ecco lo Sposo, andategli incontro

San Giovanni della Croce. Lo sposo è con loro

San Paciano. Lo Sposo è con loro

Venerdì della XXIV settimana del T.O.

Lunedì della XXII settimana del T. O.

Dal Vangelo secondo Luca 4,16-30. 

Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: 
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, 
e predicare un anno di grazia del Signore. 
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 
Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 
Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 
Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 
Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 
Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 
ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 
C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro». 
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 
si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 
Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò. 
Il commento di don Antonello Iapicca
La fede non è un salto nel buio: «Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento» (Don Luigi Giussani). La fede, nel cristianesimo, è l’esperienza fondante che continua a ripetersi nell’arco di una vita, come quella offerta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. In ebraico la parola fede, emunah, non ha il significato che siamo soliti conferirgli: essa rimanda a un sostegno, a qualcosa di fermo su cui poter appoggiarsi: “in Cristo abbiamo come un’àncora della nostra fede” (Eb. 6,19). In quella sinagoga Gesù inaugura la sua missione, laddove era stato “allevato” nello studio della Torah, e aveva appreso, Lui l’Autore della Legge, la fede del suo Popolo. Gesù torna alle origini, alle fonti della sua storia, che è la storia di Dio con il suo Popolo, perché “il punto di partenza (del cristianesimo) è l’esperienza della fede come realtà” (Card. Ratzinger).
Gesù inizia dunque dalla sua stessa realtà, dall’avvenimento che lo ha introdotto nel mondo. Gesù incarna Dio nella carne di ogni uomo: e lo fa a partire dai suoi parenti, dai suoi amici; dalle strade, le botteghe, le piazze dove è cresciuto, dai luoghi e dalle persone che gli sono più familiari, come una profezia per tutte le Nazaret della storia, anche le nostre. L’annuncio del Vangelo, infatti, svela il mistero dell’appartenenza a Dio di ogni uomo. Ogni realtà nella quale viene proclamata la Buona Notizia diviene come Nazaret, la città del Figlio di Dio, perché essa illumina il passato e il presente con il bagliore della vittoria di Cristo, e cambia il corso della storia dischiudendo un futuro di salvezza. Chiunque ascolti la predicazione si sente familiare e amico di Gesù, protagonista della storia di salvezza con cui Dio ha condotto il suo popolo. La storia di un innamoramento fattosi amore travolgente, sigillato in un’alleanza eterna; ma anche storia di tradimenti, cadute, e perdono e misericordia. Una storia di “schiavitù, oppressione, povertà e cecità”, quella di un resto umiliato, con gli “occhi fissi” su una promessa, nell’attesa ardente del suo compimento. Il “Sabato” per Israele è tutto questo, il compimento delle nozze promesse. Ma, per guardare alla realtà senza pregiudizi e lasciarsi salvare dalla predicazione, occorrono occhi umili e semplici, “occhi fissi su Gesù”. In ebraico il valore numerico delle lettere che formano la parola emunah (fede), corrisponde al valore numerico della parola bambini. Occhi di bambini dunque, sempre in attesa, che, nella tradizione ebraica, si schiudono solo nello Shabbat.
In ebraico shabbat è femminile, e in tutta la simbologia il sabato è paragonato alla sposa. Il canto per eccellenza con cui si accoglie questa festa è Lehà doddì = Vieni mio caro, dalle prime due parole del ritornello che viene ripetuto dopo ogni strofa. Israele viene presentato come uno sposo invitato ad incontrare la sua sposa: “Vieni mio caro incontro alla sposa, accogliamo shabbat”. Nel sabato risuonano le parole del Cantico dei Cantici, e in quel sabato a Nazaret era finalmente giunto lo Sposo. “Secondo il suo solito” Gesù si reca alla sinagoga, ma quel giorno è diverso dal solito. Come da sempre Egli è stato con noi, in ogni istante, “secondo il suo solito”; ma vi è un momento che è diverso, quando tutto acquista il sapore della novità. E’ diverso l’istante nel quale risuona l’annuncio del Vangelo, e quel giorno, forse grigio di stanca routine, o zuppo di dolore e lacrime, è trasformato nel Sabato delle nozze, giorno di festa e felicità, per ogni uomo di qualsiasi parte del mondo. Per questo San Paolo dirà “guai a me se non evengelizzassi”: sapeva infatti che la stoltezza della predicazione è lo strumento che Dio ha scelto per donare la fede, l’àncora che mette in salvo la vita.
Ecco dunque lo sposo dietro la grata, eccolo raccogliere il rotolo del Libro, dove è scritta la sua storia e la volontà del Padre. Ecco il corpo preparato per rivelare l’Eterno, l’amore promesso, tante volte donato, e ora vivo davanti ai suoi compatrioti; come oggi è dinanzi a ciascuno di noi Gesù, incarnato nella sua Parola, nei sacramenti, nell’amore e nell’unità, la comunione più forte della morte che fa della Chiesa il suo corpo nella storia. Ecco Gesù, oggi, ora: ci ha raggiunti nella nostra storia, che è anche la sua, e lo possiamo fissare per raccogliere anche solo una goccia della rugiada d’amore che sgorga dal suo cuore. Ecco il sabato compiuto, il riposo agognato, quel volto di ebreo che stilla dolcezza e attira irresistibilmente ogni sguardo. Eccolo consegnare un oggi eterno di misericordia, in quell’istante di duemila anni fa come in ogni istante di ogni vita, terra dissodata dalle vicende della storia di ciascuno, divenuta oggi fertile perché visitata da Lui, zolle fresche dove deporre la Parola già compiuta. Ecco la “libertà, la salvezza, la guarigione”, la gioia che solo la sua presenza nella nostra vita può generare, perché “quando il Signore predica, il cielo si apre, la fame è tolta, le anime dei fedeli si inebriano del nettare celeste” (San Bruno di Segni). Tutta la storia di Israele si fissa in quell’istante, e la nostra in questo giorno, e trova senso e compimento, e benedizione stupita. Ecco la sua voce, quelle parole che chi ce le ha mai dette così?, e l’invito ad alzarci e ad andare con Lui, perché l’inverno della morte e del peccato è passato, è già ora incipiente la primavera della Pasqua, della vita rinata per non morire più. E’ Lui che aspettavamo, da sempre, il “più bello tra i figli di Adamo”.
E’ Lui il Profeta che oggi spalanca le sue braccia e dilata il suo cuore per sposarci, per attirarci nel suo amore infinito, per dare luce e splendore, sapore e allegria alle nostre esistenze, crocifisse e dolenti che siano. Gesù è il Profeta che illumina “il solito” della nostra vita, la Nazaret dove abitiamo, con la luce del Vangelo, che è la sua stessa presenza nella nostra quotidianità: “L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro” (Joseph Ratzinger). In quel sabato nella sinagoga di Nazaret, era esplosa una bomba: Gesù, il figlio di Giuseppe il carpentiere, l’aveva lanciata nel mezzo dell’assemblea di cui aveva fatto parte tante volte; quel ragazzo che tutti conoscevano aveva appena annunciato che la profezia ascoltata si era compiuta proprio in Lui, proprio in quell’oggi. E che reazione all’ascolto di una cosa simile! E che mistero l’operare di Dio, lasciare trent’anni il suo Figlio inviato per salvare l’umanità nel semplice e umile nascondimento di Nazaret, a vivere una vita normalissima, mescolata a quella dei suoi compatrioti.
I Vangeli registrano un solo segno all’alba della dell’incarnazione, anch’esso segreto e serbato nel cuore della Vergine Maria. E sospetti, giudizi e dolore per quella giovane Madre. Poi più nulla, giorni uguali a quelli di ogni altro abitante di Nazaret, sino a quel sabato quando dalla bocca di Gesù è esplosa la bomba di una notizia sconvolgente. Dio, infatti, ha voluto avvolgere di mistero l’identità del Figlio per svelare il mistero del cuore dell’uomo. La carne ed il sangue, da soli, non possono vedere Dio e non morire: “Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive” (Benedetto XVI, Catechesi del 5 maggio 2010). Per vedere Dio e sopravvivere occorre un cuore puro. Da esso, come da una fonte intima, deve scaturire un’acqua pura capace di irrigare i sensi, la ragione e gli affetti per riconoscere le sembianze di Dio nelle persone e negli eventi. Per i concittadini di Gesù si trattava dunque di una questione di cuore, qualcosa che muove la ragione e la sospinge verso un abbraccio che accolga, riconosca, ami davvero. Avevano vissuto con Gesù, ma in fondo per loro era rimasto indifferente; anni passati a contatto con Lui ma non lo avevano amato, e per questo non avevano potuto cogliere il suo mistero, che anzi li aveva scandalizzati generando in loro ira e violenza. Gesù, nel suo mistero, si rivela profeta e profezia, ed è rifiutato. I “figli dello stesso padre” – la parola patria, in greco come in latino e in italiano deriva da padre – non lo possono afferrare e possedere attraverso la carne e il pensiero, perché Egli passa e sfugge ad ogni dominio; l’occhio del loro cuore è impuro, paralizzato sulla soglia del mistero. Accoglierlo significherebbe riconoscere la propria debolezza, il bisogno di purificazione e perdono, umiliarsi e inchinarsi di fronte a qualcosa di più grande, sconosciuto, che nel rivelarsi illumina e sazia. Riconoscerlo nel suo mistero significherebbe riconoscersi peccatori.
Non è dunque la familiarità sociale o di sangue che determina la conoscenza. La vedova di Zarepta e Naaman il Siro erano pagani, eppure hanno visto Dio, perché l’indigenza e il bisogno ne avevano purificato il cuore. Può vedere Dio solo l’occhio purificato dal crogiuolo della sofferenza. La vera Patria di Gesù non è la Nazaret geografica e i “suoi” non sono quelli che vi sono nati: la Patria di Gesù è la Croce e i suoi compatrioti sono i peccatori. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso il destino di morte per trasformarlo in destino di perdono e di vita. E’ questo il mistero celato in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente, il Servo di Yahwè umiliato, disprezzato, rifiuto degli uomini, l’agnello che si è caricato di ogni iniquità. Anche noi all’apparire del mistero che avvolge chi ci è vicino, temiamo e ci difendiamo chiudendoci a riccio, rifiutando ciò che sfugge ai nostri criteri collaudati. Amare il mistero celato nell’altro infatti è la condizione perché egli entri a far parte di noi stessi, ci stupisca e coinvolga nel prodigio di cui è profezia. L’amore per il mistero è la condizione per la castità, dei sentimenti come della carne, porta dischiusa alla purezza del cuore capace di vedere trasfigurata la realtà. Si può vivere anni accanto ad una persona, alla moglie, al marito, ai figli, e non aver amato neanche per un giorno il mistero che li avvolge. Siamo indisponibili ad accogliere quanto potrebbe sconvolgere le nostre esistenze, preferiamo presidiare il poco che abbiamo tra le mani, esaltandolo a criterio e verità assoluti. Ci illudiamo di conoscere, mentre ci sforziamo di possedere nella speranza di non perdere quanto vorremmo che ci saziasse.
E così ci ritroviamo a spingere l’altro sul “ciglio del monte per buttarlo nel precipizio”, nell’estremo tentativo di far tacere quel mistero che bussa, tenace, alla porta del nostro cuore. L’esito di ogni possesso infatti, è l’omicidio dell’altro: moglie, marito, chiunque interpelli il nostro cuore, ci svela indigenti e inadeguati, peccatori. Il mistero racchiuso nel prossimo è una chiamata all’amore, e ne siamo sprovvisti. Abbiamo bisogno di un cuore contrito e umiliato, un cuore puro capace di vedere Dio nell’amore incarnato in suo Figlio. Paradossalmente, un cuore puro è un cuore che riconosce d’essere malato, sentina di vizi e fonte di peccatoE lì, nella realtà, riconoscere in Gesù il fratello, il compatriota che ha condiviso la nostra patria di morte. Per il nostro cuore “vedovo e lebbroso” è preparato quest’oggi nel quale Gesù ci annuncia di nuovo la Buona Notizia, la profezia che viene a compiere il Profeta nella sua Patria. E’ uno scandalo che si rinnova ogni giorno, quello del Cielo chiuso sui religiosi, sui bravi e a posto, forse sui preti e le suore, ma aperto sui pagani, sui lontani, sui peccatori. Abbiamo occhi per vedere che la fede sta muovendo nostro figlio, nostra moglie, quella persona che abbiamo da sempre disprezzato? Abbiamo lo sguardo limpido per riconoscere l’opera di Dio che risuscita e perdona chi abbiamo giudicato e considerato ormai irrecuperabile? Gesù “passa” tra le nostre invidie e le nostre gelosie, sul ciglio del monte dove lo abbiamo spinto per ucciderlo. Gesù “fa Pasqua” e inaugura un cammino in mezzo ai pregiudizi della carne, quelli che infestano le nostre famiglie, i nostri luoghi di lavoro, studio e svago. E ci indica un “più in là” dove seguirlo, oltre Nazaret, al di là di quello che la carne non può accettare perché malata e terrorizzata dalla morte. Gesù “passa” e ci indica il Cielo.
In ogni persona che si affaccia all’uscio del nostro cuore e bussa alla nostra carne dolente, è nascosto il mistero di Cristo mendicante i nostri peccati; Egli desidera l’unico linguaggio d’amore di cui siamo capaci, quello di chi, vedovo e impuro, può solo inginocchiarsi e consegnargli la propria infermità, per ricevere la sua misericordia rigenerante. Gesù mendica e dona nello stesso momento. Vedere il Messia, il Salvatore, l’amore di Dio nell’altro significa dunque incamminarsi con Lui sul sentiero della Croce, sulla quale consegnargli i nostri peccati, scoprendo in essa la Patria d’amore dove, amati, impariamo ad amare: ah, mio marito è la Patria, l’anticipo di Cielo, il Regno dove “passare” con Cristo al di là della carne, della concupiscenza e dell’egoismo? Sì, il marito, la moglie, il figlio e il collega, Nazaret e molto più di Nazaret: in loro si inaugura l’anno eterno di misericordia, il “condono tombale” di ogni debito, la creazione nuova dove vivere in libertà e amore. “Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del “vedere” ha assunto una dinamica insospettata. Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia: “Guarderanno a colui che hanno trafitto”. Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza” (Joseph Ratzinger). Lo abbiamo trafitto, anche oggi; ma ci è data la possibilità di vedere nelle sue ferite la Vita che Egli ci ha offerto ancor prima che gliela strappassimo; oggi possiamo guardare lo Sposo che viene nella sua Patria e accoglierlo perché la trasformi in un giardino di delizie, colmo di frutti maturi, l’amore che vince morte e peccato.
APPROFONDIMENTI

Lc. 4,14-22. Percorso esegetico

Il paradigma di Nazaret: La Scrittura si fa evento. Esegesi di Lc 4, 14-30

Frédéric Manns. Nazaret

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Vangelo: il significato di un termine.

Benedetto XVI. La Parola Abbreviata

Benedetto XVI. Il Logos, il “senso”, è il Figlio del Dio vivo.

Aleksandr Men’. Gesù Cristo: in questa persona consiste il cristianesimo

Hans Urs von Balthasar. Credibilità del cristianesimo

Card. Carlo Caffarra. Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi

Bruno Maggioni. Un evento che stravolge l’oggi.

San Cirillo di Alessandria. Annunziò la buona novella ai poveri

S. Bruno di Segni. Lo Spirito del Signore è sopra di me

Sant’Ambrogio. Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi

Considerazioni archeologiche e geografiche riguardanti la città di Nazaret

La “città” di Nazaret, “fiore della Galilea”. Studio Biblico Francescano

David Donnini. Le città di Cristo [il significato reale del termine “Nazareno”]