Martedì della XXVII settimana del T.O.

Martedì della XXVII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Il commento di don Antonello Iapicca

Maria, “disoccupata” e felice: agli occhi di Marta, spenti su «quelle di quaggiù», la “sorella” è immagine dello scandalo della Chiesa che cerca le «cose di lassù». Ascoltare invece di fare? È lo scandalo nostro, di ogni giorno. La sveglia al mattino ci trova già inquieti e pre-occupati: abbiamo dato il cuore alle «cose della terra» per “inciamparci” rovinosamente. Corriamo, riempiamo le agende di impegni, trasciniamo marito, moglie, figli e amici nella stessa girandola, per ritrovarci ogni giorno più esausti e infelici. Nulla si realizza perché nulla ci sazia. “Accogliamo” e “serviamo” Gesù, ma senza la gioia piena con la quale Zaccheo è sceso dall’albero per ospitare Gesù. Era un peccatore, non si aspettava l’auto-invito del Signore, le sue parole l’avevano spiazzato: “Oggi conviene che io entri a casa tua”. Le abbiamo sentite queste parole, oppure siamo ancora convinti di avere invitato noi il Signore? Per Marta forse non era così “necessario” che Gesù entrasse a casa sua, e non si era accorta che, quando c’è Gesù, si è sempre suoi ospiti, perché ogni casa è la sua, ogni vita è la sua, ogni istante è il suo… Spesso pensiamo anche noi allo stesso modo: Gesù non è “l’unico necessario”, molto altro viene prima… Gli affetti ad esempio, le attenzioni e la stima. E, più di ogni altra, la giustizia nelle relazioni. Non a caso Marta e Maria sono “sorelle”: ci parlano delle nostre famiglie, dei matrimoni, dei fidanzamenti, delle amicizie. Ci parlano della Chiesa, la “donna” che “accoglie Cristo nella sua casa” ogni istante.

E, come in quella di Marta e Maria, quante rivendicazioni nelle nostre case… Quante Marta si aggirano per sale e sacrestie delle nostre parrocchie.. Quanta malizia si nasconde dietro ai nostri “molti servizi” di madri e di padri, di preti e suore, maestri e catechisti… E quanta ipocrisia… Sempre a chiedere giustizia, frustrati e delusi: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?”. Lo crediamo insensibile alle nostre ragioni, indifferente alla nostra solitudine. Ma come, proprio la sorella, proprio la moglie, il marito, il parroco o il fratello, proprio chi dovrebbe essere al nostro fianco nel “servizio” ci lascia “soli”? E Gesù? Niente, non ci dà ragione, mai. Ma è proprio questo il suo amore immenso, con il quale purifica tutto quello che non è “necessario” per la salvezza, a noi e ai fratelli. Lo stesso con il quale ha amato Marta: non le ha reso la giustizia che cercava, neanche una parola di comprensione. Gesù, infatti, ama Marta e ciascuno di noi non come vorrebbe la nostra carne ribollente di concupiscenze, che esige la propria giustizia. Gesù ci ama mostrandoci Maria, nostra “sorella”, proprio quella che disprezziamo e giudichiamo. Anche lei, come noi, è figlia della stesso padre e della stessa madre. Anche lei è stata creata da Dio e rigenerata nella Chiesa. E’, infatti, l’immagine della parte di noi che abbiamo nascosto sotto i detriti dell’orgoglio. E oggi Gesù viene a destarla, per riaccendere in noi l’amore, l’unico che genera il servizio autentico, il compimento della volontà di Dio. Sì, perché servire Gesù è, essenzialmente, stare “seduti ai piedi del Signore, e ascoltare la sua parola”. Questo è l’amore rivelato sul Sinai: se non si ascolta non si può obbedire, si è incapaci di compere la volontà del Padre, che è quella di donare noi stessi gratuitamente. Se non si ascolta si seguiranno solo i propri istinti.

Maria ascolta perché è innamorata. E si vede. Nulla più la «preoccupa», le «cose della terra» trovano il suo cuore «occupato» dall’unico Ospite «buono e necessario» capace di saziare ogni desiderio: Gesù Cristo. Era felice Maria, non aveva bisogno d’altro, aveva sperimentato che niente è “necessario”, neanche l’affetto, la stima, la salute o il denaro. Non sono “necessari” neanche la famiglia, i figli, o il ministero, perché passa la scena di questo mondo, e possiamo perdere tutto in un istante. Un ictus e tac, un prete non può più predicare, e un padre non può lavorare e parlare con i suoi figli o unirsi a sua moglie… Maria lo aveva capito e per questo stava dove era Gesù, e lo guardava come quando un ragazzo fissa estasiato gli occhi della sua amata, e ascolterebbe le sue parole per mesi. Amiamo così Cristo? Abbiamo conosciuto davvero il suo amore? Forse ancora no, forse speriamo ancora dalla terra il Cielo che non può darci. Forse ci deve essere ancora tolto quello che ci occupa il cuore. Solo allora potremo accogliere lo Sposo che viene a casa nostra, nello gratitudine e nella gioia, perché è “l’unico necessario” per noi e per chi ci è affidato. Per questo il Signore ci chiama a vivere “ai suoi piedi” come Maria, con un cuore innamorato di Lui, capace di ascoltare e obbedire alla sua voce, e riconoscerlo e amarlo in chi ci è accanto.

QUI IL COMMENTO ESTESO

Maria, “disoccupata” e felice: agli occhi di Marta, spenti su «quelle di quaggiù», la “sorella” è immagine dello scandalo della Chiesa che cerca le «cose di lassù». Ascoltare invece di fare? È lo scandalo nostro, di ogni giorno. La sveglia al mattino ci trova già inquieti e pre-occupati: abbiamo dato il cuore alle «cose della terra» per “inciamparci” rovinosamente. Corriamo, riempiamo le agende di impegni, trasciniamo marito, moglie, figli e amici nella stessa girandola, per ritrovarci ogni giorno più esausti e infelici. Nulla si realizza perché nulla ci sazia. La mormorazione acida di giudizi poi, ci avvelena il cuore rendendoci nemici della storia e di chi ci è accanto. Come Marta, ingannata dalla propria buona intenzione, ci illudiamo di amare. “Accogliamo” e “serviamo” Gesù, ma senza la gioia piena con la quale Zaccheo è sceso dall’albero per ospitare Gesù. Era un peccatore, non si aspettava l’auto-invito del Signore, le sue parole l’avevano spiazzato: “Oggi conviene che io entri a casa tua”. Le abbiamo sentite queste parole, oppure siamo ancora convinti di avere invitato noi il Signore? Così come nel matrimonio, pensiamo di aver scelto noi la sposa o lo sposo, oppure siamo persuasi di essere stati scelti da Dio l’uno per l’altra?

Per Marta forse non era così “necessario” che Gesù entrasse a casa sua. Forse era più importante se stessa che il suo Ospite. O forse aveva confuso le parti, e non si era accorta che, quando c’è Gesù, si è sempre suoi ospiti, perché ogni casa è la sua, ogni vita è la sua, ogni istante è il suo… E così Marta ha creduto di dover fare, e il servizio non nasceva dalla gratitudine, questo è certo. Le sue parole lo tradiscono. Spesso pensiamo anche noi allo stesso modo: Gesù non è “l’unico necessario”, molto altro viene prima… Gli affetti ad esempio, le attenzioni e la stima. E, più di ogni altra, la giustizia nelle relazioni. Non a caso Marta e Maria sono “sorelle”: ci parlano delle nostre famiglie, dei matrimoni, dei fidanzamenti, delle amicizie. Ci parlano della Chiesa, la “donna” che “accoglie Cristo nella sua casa” ogni istante.

E, come in quella di Marta e Maria, quante rivendicazioni nelle nostre case… Quante Marta si aggirano per sale e sacrestie delle nostre parrocchie… Sempre a chiedere giustizia, come i due fratelli che si avvicinano a Gesù perché giudicasse su chi aveva torto e chi ragione nel caso di un’eredità contestata. La rivendicazione della giustizia sorge sempre dal sentimento di profonda frustrazione che ha colto Marta: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?”. Così ci rivolgiamo a Gesù, immancabilmente. Lo crediamo insensibile alle nostre ragioni, indifferente alla nostra solitudine. Ma come, proprio la sorella, proprio la moglie, il marito, il parroco o il fratello, proprio chi dovrebbe essere al nostro fianco nel “servizio” ci lascia “soli”? E Gesù? Niente, non ci dà ragione, mai. Anzi, sembra favorire chi ci ha abbandonato, chi ci ha tradito… Siamo vittime di un’ingiustizia e proprio Colui che dovrebbe aiutarci ci delude…

E allora, ecco gli scoramenti, e quante gelosie nascoste, quanti rancori camuffati da attivismo ipertrofico con cui ci illudiamo di offrirci e di amare… Quanta malizia nascosta dietro ai nostri “molti servizi” di madri e di padri, di preti e suore, maestri e catechisti… Quanta ipocrisia… Ed è tutto veleno che si accumula e aggredisce la nostra anima, ferendola e macchiandola, senza che ce ne accorgiamo, così impegnati nel fare del bene… Ed è proprio per questo che Gesù non ci dà ragione e ci ripete: “chi mi ha costituito giudice tra di voi?”. Lui sa che “la vita non dipende dai beni”, dalla pancia piena di false adulazioni e di ragioni strappate al fratello. Questa è solo morte, che si fugge “affannandosi e agitandosi per molte cose”, tutte meritorie per carità, ma nessuna “necessaria”. Da schiantare… Non è “necessario” quello che faccio? Gesù per caso mi disprezza? Ecco perché alla fine mi va sempre male, e quando mi aspetto un minimo di riconoscenza ricevo solo indifferenza o dileggi… Niente, ci attendono solo fallimenti, in ogni opera delle nostre mani.

Ma sono fracassi benedetti, che Dio non solo permette, ma desidera e ci dona, con amore immenso, con il quale purifica tutto quello che non è “necessario” per la salvezza, a noi e ai fratelli. Lo stesso con il quale Gesù ha parlato a Marta: non le ha reso la giustizia che cercava, neanche una parola di comprensione. Avrebbe potuto almeno dirle “certo mia cara Marta, capisco le tue fatiche, avresti anche ragione, il tuo lavoro è per me molto “necessario” ma…..”; e invece niente, nessuna traccia di questa solidarietà pelosa e ipocrita. Gesù ama Marta e ciascuno di noi non come vorrebbe la nostra carne ribollente di concupiscenze, che esige la propria giustizia.

Gesù ci ama mostrandoci Maria, nostra “sorella”, proprio quella che disprezziamo e giudichiamo. Anche lei, come noi, è figlia della stesso padre e della stessa madre. Anche lei è stata creata da Dio e rigenerata nella Chiesa. E’, infatti, l’immagine della parte di noi che abbiamo nascosto sotto i detriti dell’orgoglio. E oggi Gesù viene a destarla, per riaccendere in noi l’amore, l’unico che genera il servizio autentico, il compimento della volontà di Dio. Sì, perché servire Gesù è, essenzialmente, stare “seduti ai piedi del Signore, e ascoltare la sua parola”. Questo è l’amore rivelato sul Sinai: se non si ascolta non si può obbedire, si è incapaci di compere la volontà del Padre, che è quella di donare noi stessi gratuitamente. Se non si ascolta si seguiranno solo i propri istinti. Magari di servizio e di solidarietà, come accade anche nella società e nella Chiesa, ma non per questo gratuiti, anzi; per questo poi si giudicano istituzioni e superiori, fratelli e sorelle, gli altri che, pigri, “lasciano soli a servire”.

Gesù ci ama annunciandoci la verità, per liberarci così dall’inganno con il quale il demonio ci tiene schiavi e ci conduce a giudicare tutto e tutti. Certo che un vestito e un piatto caldo sono “necessari”, ed è doveroso donarli a chi non li ha; certo che molto di quello che facciamo a casa e al lavoro, in parrocchia e tra gli amici è “necessario”. Ma Gesù, con amore, ci aiuta a discernere, anche a costo di farci star male: per chi e per che cosa è “necessario”? Per noi o per chi ci è accanto? Per la loro salvezza o per la nostra gratificazione? Per dare un senso e un ruolo alla nostra esistenza o perché gli altri conoscano il Signore? E’ qui che dobbiamo cercare le ragioni per le quali i figli non comprendono i nostri sforzi e la nostra dedizione, al netto dei loro peccati è ovvio. E perché la moglie non riesce a decodificare il nostro amore nell’alfabeto morse con cui la serviamo; o il marito non apprezza le mille camice stirate…. Serviamo, accogliamo, ma ci sfugge «l’unica cosa buona e necessaria», il dono riservato ai “disoccupati” che si sono arresi alla Grazia, che ascoltano e obbediscono invece di fare per non ascoltare…

Maria ascolta perché è innamorata. E si vede. Nulla più la «preoccupa», le «cose della terra» trovano il suo cuore «occupato» dall’unico Ospite «buono e necessario» capace di saziare ogni desiderio. Gesù Cristo, il Cielo disceso alla sua terra per farne la propria dimora. Era felice Maria, non aveva bisogno d’altro, aveva sperimentato che niente è “necessario”, neanche l’affetto, la stima, la salute o il denaro. Non sono “necessari” neanche la famiglia, i figli, o il ministero, perché passa la scena di questo mondo, e possiamo perdere tutto in un istante. Un ictus e tac, un prete non può più predicare, e un padre non può lavorare e parlare con i suoi figli o unirsi a sua moglie… Maria lo aveva capito e per questo stava dove era Gesù, e lo guardava come quando un ragazzo fissa estasiato gli occhi della sua amata, e ascolterebbe le sue parole per mesi. Amiamo così Cristo? Abbiamo conosciuto davvero il suo amore? Forse ancora no, forse speriamo ancora dalla terra il Cielo che non può darci. Forse ci deve essere ancora tolto quello che ci occupa il cuore. Solo allora potremo accogliere lo Sposo che viene a casa nostra, nello gratitudine e nella gioia, perché è “l’unico necessario” per noi e per chi ci è affidato. Per questo il Signore ci chiama a vivere “ai suoi piedi” come Maria, con un cuore innamorato di Lui, capace di ascoltare e obbedire alla sua voce, e riconoscerlo e amarlo in chi ci è accanto.

Martedì della XXVII settimana del T.O.

Lunedì della XXVII settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Luca 10,25-37. 

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 
E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 
Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: « Va’ e anche tu fa’ lo stesso ». 

Il commento di don Antonello Iapicca

Nel Vangelo di oggi Gesù risponde, attraverso una famosa parabola, alla domanda più importante:  facendo cosa (secondo la traduzione letterale del testo che prevede un gerundio) erediterò la vita eterna? La forma verbale usata da Luca esprime l’attualità del fare, lo scorrere dell’operare nel tempo, orientando la domanda del Dottore della Legge sulla questione fondamentale: in quale attività sperimenterò una vita che non si esaurisce, in che modo usare del tempo perché esso non divori il mio fare? Che cos’è che mi consente l’accesso all’eredità della vita eterna? Ma l’eredità non è qualcosa da conquistare, è un diritto naturale, spetta al figlio come un dono dell’amore paterno. Per un dotto israelita doveva essere chiaro che l’eredità consisteva nella Terra, il compimento dell’Alleanza tra Dio e il suo Popolo. Lui l’ha inaugurata, Lui l’ha realizzata giorno dopo giorno, Lui l’ha rivelata; il Popolo l’ha accolta per poi però infrangerla ripetutamente. E Dio ha perdonato, una, mille volte. Per questo l’Alleanza è molto più di un contratto, è un legame sponsaleun divenire l’uno parte dell’altro: l’Alleanza è amore, al punto che per Israele lo stesso matrimonio è detto berit. Anche la traduzione che ne è derivata, testamento, rimanda all’idea di una eredità. Compresa nel contesto nuziale, essa acquista i connotati della dote, del dono che, in questo caso, lo sposo, fa alla sposa per le nozze. Esse si celebrarono sul Sinai dove la voce dell’Innamorato aveva rivelato il suo tesoro più prezioso, regalandolo alla sua amata: la Torah. Essa è la gioia e la vita, il cammino da intraprendere per essere proprietà dell’Amato, la Parola da fare e ascoltare per essere sua sposa. Fare e ascoltarefare per avere l’eredità: il fare è amare, e amare è la condizione per ascoltare.
 
Si comprende allora perché Gesù inviti il Dottore della Legge ad aprire la Torah e a cercarvi la risposta: il facendo cosa è tra quelle pagine. E, subito, di getto, il Dottore della Legge proclama un versetto tratto dallo Shemà unendolo a un altro del Levitico, dal cosiddetto codice di santità. Ha risposto bene, questo amore è la sintesi della Torah, il fare per ereditare, legato indissolubilmente all’ascoltare. Si ascolta quando si ama. E’ stata questa l’esperienza di Israele, e per questo il Signore ripete al Dottore della Legge le stesse parole dello Shemà: “Fa questo e vivrai!”. Ma proprio in questo si rivela l’inciampo dell’interlocutore di Gesù: egli “lo mette alla prova”, non lo ama. Non comprende di essere dinanzi all’Amato, all’Autore dell’Alleanza, all’eredità fatta carne, alla stessa vita eterna che cercava di ottenere. Gli si offriva con amore e lui scappava, cercando di giustificare se stesso, di farsi giusto (giustificarsi, che non significa discolparsi) continuando a mettere alla prova il Signore con la domanda “e chi è il mio prossimo?”. “I Farisei tendevano ad escludere i non farisei; gli esseni pretendevano che si odiassero tutti i “figli delle tenebre”; i rabbini dichiaravano che si dovevano “sotterrare” tutti gli eretici, i delatori e gli apostati e non estrarli da sotto terra, e un proverbio popolare molto conosciuto escludeva dal comandamento dell’amore il nemico personale” (J. Jeremias, Le parabole di Gesù). Il Dottore della Legge tende una trappola a Gesù per vedere chi egli consideri come prossimo: se segue la tradizione di Israele oppure trasgredisce e allarga i confini minando così l’unità e la specificità del Popolo: “ma tu Maestro? Chi è il prossimo per te? Quello che dice essere la Legge o anche qualcun altro?”. Per farsi giusto cerca di rendere ingiusto Gesù, di farne un eretico.
E Gesù si identifica proprio con il samaritano, con l’eretico, e rivela l’impensabile: Dio si è fatto eretico per amore! La domanda al termine del racconto è la chiave di tutto il brano: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”; costituisce la risposta alla domanda precedente su chi fosse il mio prossimo. Il prossimo è proprio il samaritano eretico, e non l’uomo incappato nei briganti!!! Un eretico, Gesù è il prossimo da amare come se stessi perché ci ha amati più di se stesso! Lui si è fatto prossimo, cioè vicino a ciascuno di noi, incappati nei briganti e spogliati di tutto, lasciati mezzo morti sul ciglio della vita. Il sacerdote e il levita, guide del popolo, non hanno forza, né spirito per farsi prossimo al dolore dell’umanità, neanche dei propri fratelli. Il samaritano invece sì, conosce il dolore dal di dentro, sa che cosa significa essere rifiutato, percosso, gettato fuori mezzo morto. Ha conosciuto sino in fondo le conseguenze del male e può avere compassione e “gli si spezza il cuore”; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima.
E’ Lui che si china come il Buon Pastore, conosce la sua pecora e se la carica sulle sue spalle, e la riconduce all’ovile, la “locanda” della parabola; e “si prende cura di lui”, attraverso le sue stesse ferite, le piaghe dalle quali siamo stati redenti: il vino, il sangue sgorgato dalle sue membra crocifisse, e l’olio, il suo Spirito vivificante effuso spirando sulla Croce. E’ Lui che paga il prezzo del nostro riscatto con la sua stessa vita, i suoi averi, le sue grazie, le monete lasciate al locandiere. E’ Lui che ci affida alle cure della Chiesa, la madre premurosa che ci accompagna nel cammino di conversione e risurrezione. E’ solo Lui, l‘unico Dio, in mezzo a tanti dei stranieri falsi e ingannatori, identificati, con la durezza della verità, nel sacerdote e nel levita: sono loro i veri eretici, le monete false che non salvano nessuno, i mercenari che le pecore del Signore non seguiranno, i falsi profeti che nessuno amerà.
Gesù ha visto l’uomo, ogni uomo della storia, come Adamo gettato fuori dalla Vita, e lo ha amato. Ha amato te, tua moglie, tuo figlio, ieri quando ti tradivano, odiavano, disobbedivano, non ti prendevano in considerazione, non ti gratificavano con lodi e attenzioni. Gesù ti ha amato così come sei, e ha visto lo splendore in quel grumo di sangue gettato sul ciglio di una strada. Ha visto la vita nella morte che ci ha colto, l’unico che ha saputo vedere vita, vita bella e piena, amore e dono di sé in un povero disgraziato incapace di tutto, ferito e abbandonato. Così ci ha visto mentre peccavamo!!!! Per questo, l’amore che eredita la vita eterna è pura gratitudine che sgorga da un cuore amato senza condizioni e senza limiti; l’amore di un’amata che, stordita da tanto amore, apre il suo cuore e lo consegna all’amato innamorato. Gesù si è innamorato di quell’uomo sfinito e incapace di tutto: di tuo figlio caduto nella droga, che non va più in Chiesa, divorziato e adultero; di te e di me, pieni di pus e ferite. E, come il poveraccio della parabola, anche noi, proprio perché mezzi morti, possiamo fare e ascoltare: grazie alla debolezza e non alle capacità, siamo, infatti, caricati sulle spalle di Gesù. Così, amando Cristo nostro prossimo, diveniamo prossimi di tutti, forse agli occhi di molti eretici e scorretti per amore, rompendo schemi e leggi, per “puzzare” dell’odore delle pecore perdute al nostro fianco.

IL COMMENTO ESTESO


Nel Vangelo di oggi Gesù risponde, attraverso una famosa parabola, alla domanda più importante:  facendo cosa (secondo la traduzione letterale del testo che prevede un gerundio) erediterò la vita eterna?  La forma verbale usata da Luca esprime l’attualità del fare, lo scorrere dell’operare nel tempo, orientando la domanda del Dottore della Legge sulla questione fondamentale: in quale attività sperimenterò una vita che non si esaurisce, in che modo usare del tempo perchè esso non divori il mio fare? Che cos’è che mi consente l’accesso all’eredità della vita eterna, l’eredità di un compimento della mia vita, del mio agire in questa vita, che non sfugga più dalle mani? Che cosa è incorruttibile, non marcisce, non evapora? Una lettura affrettata, sentimentalistica o moralistica del brano lo può depotenziare, issandolo su un piedistallo ideale e, così, tagliarla fuori dalla concreta vita dell’uomo: magari facessi così anche io, ma Lui era Gesù, i santi sono santi e io sono un povero disgraziato. Ma chiudere così la partita significa escludere Cristo dalla propria vita, perchè è Lui che annuncia la parabola. E’ quanto si ritrova a fare il Dottore della Legge che avvicina Gesù per tentarlo, per scovare in Lui un errore e un capo d’accusa; e non si accorge che, così facendo, mentre cerca di mettere in difficoltà si ritrova egli stesso a doversi giustificare. Ecco descritto l’atteggiamento di chi, pur ferrato nelle Scritture e nelle cose di Dio, si accosta a Gesù solo per metterlo alla prova, per trovare in Lui giustificazione al proprio operare, per non lasciarsi mettere in discussione da Lui; per carpirne qualcosa a proprio favore, la perversione di una relazione che, pur mossa dalla ricerca della verità, è macchiata dalla malizia.

Il brano è una lunga inclusione tra la prima domanda del Legista e l’ultima affermazione di Gesù che ne diviene la risposta: “facendo cosa erediterò la vita eterna?”…. ”  e fa anche tu lo stesso”. Ma l’eredità non è qualcosa da conquistare, essa è un diritto naturale, spetta al figlio come un dono dell’amore paterno. Per un dotto israelita doveva essere chiaro che l’eredità consisteva nella Terra ed era il frutto di una promessa compiuta da Dio. Essa si poteva solo perdere, perchè era il compimento dell’Alleanza stretta da Dio all’inizio con Abramo, riconfermata poi con Isacco e Giacobbe, e infine stipulata con Mosè e con il popolo d’Israele sul monte Sinai. Ma essa, in un senso più generale, risale ancor più indietro nel tempo, a Noè: “Quando l’arco sarà sulle nubi io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio ed ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Gen. 9,16). Dio guarda e ricorda, ed è  un ricordo “potente, operativo, che penetra nella storia e alla fine condurrà il mondo alla salvezza” (F. Mussner, Il popolo della promessa). Un’Alleanza che, proprio come un arcobaleno disteso tra la terra ed il cielo, ha percorso l’intera storia dell’umanità e rivelata, per un’elezione del tutto gratuita e “missionaria”, al Popolo di Israele. L’alleanza è dunque la storia d’amore di Dio con l’uomo, manifestata in modo del tutto speciale a Israele. Lui l’ha inaugurata, Lui l’ha realizzata giorno dopo giorno, Lui l’ha rivelata; il Popolo l’ha accolta per poi però infrangerla ripetutamente. E Dio ha perdonato, una, mille volte.

Alleanza, berit, è un vocabolo che forse deriva dalla radice brh che significa “vedere, scegliere, selezionare”. Al centro non vi è un rapporto bilaterale ma una elezione, una scelta: Dio ha visto quel manipolo di uomini che non erano neanche un popolo, i più poveri, e li ha messi da parte per sé, li ha amati e ne ha fatto il Popolo Santo. Solo come frutto di questa elezione, dell’esperienza dell’amore con il quale Dio lo ha liberato, salvato, curato, custodito mantenendo ogni promessa, solo quando, in questa alleanza d’amore quel gruppo di uomini ha scoperto di essere diventato un Popolo, ciascuno di loro ha potuto alzare lo sguardo e scoprire la fonte di tanto amore e consegnargli la propria vita. “Se volessimo esprimere il senso originale del dialogo sulla base di Es 34,10 potremmo dire che il popolo aderisce ad un rapporto non con Jhwh, ma davanti a Jhwh che è il protagonista e l’attore principale” (G. Ravasi). L’Alleanza del Sinai è il paradigma nel quale Israele ha letto la sua nascita e l’intera sua storia successiva. Essa è proprio un giuramento unilaterale e gratuito di Dio che, come un innamorato, ha rivelato all’amata ogni sua dote, ogni suo fascino, ogni sua capacità pur di farla innamorare. “Anche i verbi che sostengono il termine berit stanno su questa linea: Dio dà (ntn) l’allenza, giura (shb’) l’alleanza, pone stabilmente (qùm) l’alleanza, taglia (krt) l’alleanza con l’allusione all’automaledizione simboleggiato negli animali squartati (Gen 15,7 ss; cfr Es 34,10.27). Dio, il “fedele” per eccellenza (1 Tess 5,24), restaurerà sempre il rapporto d’alleanza, raccogliendo le debolezze dell’uomo purificato attraverso il suo giudizio (Noè e il diluvio in Gen 6-9) e il suo intramontabile amore” (G. Ravasi) .

Alleanza dunque è molto più che un contratto, è un legame sponsaleun divenire l’uno parte dell’altro: l’Alleanza è amore! Anche la traduzione che ne è derivata, testamento, rimanda all’idea di una eredità. Ma, compresa nel contesto nuziale, l’eredità acquista i connotati della dote, del dono che, in questo caso lo sposo, fa alla sposa per le nozze nozze. Quante pagine nella Scrittura descrivono la tenera relazione tra due fidanzati per esprimere l’Alleanza di Dio con il suo Popolo. Il Cantico dei Cantici è un Cantico dell’Alleanza, al punto che per Israele lo stesso matrimonio è detto berit.

Nel Libro dell’Esodo leggiamo come avvenne concretamente l’Alleanza del Sinai: “Mosè quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!». Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es. 23). Il Signore ha parlato, ed era la Parola creatrice, quella che aveva tratto il Popolo dalla schiavitù e lo aveva condotto sino alle falde del monte. Era la voce dell’innamorato che, sulla sommità del Sinai, aveva rivelato il suo tesoro più prezioso, regalandolo alla sua amata: la Torah, la gioia e la vita, il cammino da intraprendere per essere proprietà dell’Amato, la Parola da fare e ascoltare per essere sua sposa. Fare ed ascoltare, la contraddizione è solo apparente, come quella che traspare nella domanda del Dottore della Legge, fare per avere l’eredità: il fare è amare, e amare è la condizione per ascoltare. 

Si comprende allora perchè Gesù inviti il suo interlocutore ad aprire la Torah e a cercarvi la risposta: il facendo cosa è tra quelle pagine. E, subito, di getto, il Dottore della Legge proclama un versetto tratto dallo Shemà unendolo ad un altro del Levitico, dal cosiddetto codice di santità. Ha risposto bene, è questo amore la sintesi della Torah, il fare per ereditare. Ma, abbiamo visto, nell’Alleanza e nella stessa parola dello Shemà, il fare è legato indissolubilmente all’ascoltare. Si ascolta quando si ama, altrimenti le parole di chi ci parla non ci coinvolgono, restano suoni lontani, che non hanno nulla da dirci. Amare Dio è ascoltarlo, perchè la sua Parola ha il potere di compiere e rinnovare l’Alleanza; ascoltarlo è accogliere il suo amore. E’ stata questa l’esperienza di Israele, e per questo il Signore ripete al Dottore della Legge le stesse parole dello Shemà: “Fa questo e vivrai!”.

Ma proprio in questo si rivela l’inciampo dell’interlocutore di Gesù: egli lo mette alla prova, non lo ama. Non comprende di essere dinanzi all’Amato, all’Autore dell’Alleanza, all’eredità fatta carne, alla stessa vita eterna che cercava di ottenere. Esperto della Torah non aveva riconosciuto di trovarsi, in quel momento ed in quel luogo, al cospetto di quel Profeta che sarebbe dovuto arrivare e annunciato proprio da Mosè: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt. 18,15 ss). Ora quel profeta annunziato era lì, davanti a lui, e lui scappa cercando di giustificare se stesso, di farsi giusto continuando a mettere alla prova il Signore con la domanda “e chi è il mio prossimo?”.

“I Farisei tendevano ad escludere i non farisei; gli esseni pretendevano che si odiassero tutti i “figli delle tenebre”; i rabbini dichiaravano che si dovevano “sotterrare” tutti gli eretici, i delatori e gli apostati e non estrarli da sotto terra, e un proverbio popolare molto conosciuto escludeva dal comandamento dell’amore il nemico personale” (J. Jeremias, Le parabole di Gesù). Nell’antropologia giudaica il prossimo (reah) era chiunque non faceva parte del proprio nucleo familiare; Per il Libro del Levitico il prossimo sono “i figli del tuo popolo” (Lv. 19, 18). Il concetto viene poi esteso ai ger, agli stranieri avventizi residenti sul territorio. Nella traduzione della LXX ger è reso con proselito, e così si comprende quanto il concetto di prossimo fosse ristretto. Inoltre “era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane, non erano «prossimi»” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol. I). Il Dottore della Legge tende una trappola a Gesù per vedere chi egli consideri come prossimo: se segue la tradizione di Israele oppure trasgredisce, allarga i confini minando così l’unità e la specificità del Popolo. In altre parole il Dottore della Legge per mostrarsi giusto (giustificarsi, che non significa discolparsi), osservante della Legge e quindi in diritto di ereditare la vita eterna, sembra dire a Gesù, esattamente come il giovane ricco che, non a caso, sottopone al Signore la stessa questione circa l’eredità della vita eterna: “Io ho compiuto la Legge. Amo Dio e il mio prossimo, quindi l’eredità è mia…”, per poi aggiungere tra le righe: “ma tu Maestro? Chi è il prossimo per te? Quello che dice essere la Legge o anche qualcun altro?”. Per farsi giusto cerca di rendere ingiusto Gesù, di metterlo fuori dal Popolo, di farne un eretico.

Così si comprende il senso profondo della parabola con la quale il Signore risponde. Ed è un midrash, una catechesi sullo Shemà nella sua completezza, e non solo sull’amore del prossimo. Gesù si identifica con il samaritano, con l’eretico, e prepara così la risposta che spiazzerà l’interlocutore. Gesù fa una rivelazione di se stesso, e, nel contesto proprio dello Shemà e dell’Alleanza, si presenta come Dio e, follia estrema, presenta Dio come un eretico! La domanda che fa al termine del racconto è la chiave di tutto il brano: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Non dobbiamo dimenticare che questa costituisce la risposta alla domanda precedente su chi fosse il mio prossimo. Il prossimo è proprio il samaritano, è Lui da amare come se stessi! E non si tratta di una contraddizione. Il samaritano eretico è il prossimo! Sì, Gesù rompe gli schemi, e risuonano in questo le parole del discorso della montagna sull’amore al nemico. Nella domanda-risposta di Gesù dobbiamo leggervi queste stesse parole: “Hai udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, fate del bene a quelli che vi maltrattano….”. Il Rabbino “Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché “è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza”. Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: “La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai”. “Solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù… In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù”. Il nocciolo della questione è dunque questo: “Cristo prende il posto della Torah”. La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: “Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero”. Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: “Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono” (B. Forte).

In queste parole del Rabbino possiamo intravvedere le obiezioni del Dottore della Legge. In questione è l’autorità di Gesù, il suo farsi Dio, e, per giunta, facendo di Dio un eretico. Ma è proprio questo il punto centrale, la Buona Notizia che nè il Dottore della Legge, nè il Rabbino Neusner hanno colto: Se Dio si è fatto samaritano, eretico, è per puro amore. E’ per pura compassione, quella che illumina tutta la parabola. Senza compassione la Legge rimane lettera morta, un rivestimento, un timbro sul passaporto che decreti un’appartenenza che giustifichi e legittimi l’eredità. Ma questo, in ultima analisi, sconfessa la stessa Torah, il cui frutto più squisito sono proprio le viscere di misericordia di Dio, viscere materne capaci di rigenerare. Il Dottore della Legge non comprende che il Popolo cui appartiene, e quindi egli stesso, è rappresentato da quell’uomo gettato mezzo morto dai briganti. Israele aveva tutto, ma, come il figlio prodigo, ha voluto per sè l’eredità e l’ha dilapidata prostituendosi e adulterando. E’ la storia che emerge dalla stessa Torah, ed è, per questo, storia di amore testardo, di un’Alleanza invincibile, sempre rinnovata, ogni volta che il Popolo si è fatto eretico. I samaritani, oggetto di predilezione del Signore non a caso, sono una parola di Dio per Israele. Si può sempre dimenticare l’amore di Dio e infrangere l’Alleanza in nome della propria ragione allontanatasi dalla fede. Si può essere infedeli.

Per questo Gesù, identificando il samaritano con il prossimo da amare, sta dicendo al dottore della Legge e a ciascuno di noi, che Dio ci ha amato al punto da farsi maledizione, e morire come un bestemmiatore ed eretico. Lo ha fatto per amore nostro, incappati nei briganti e spogliati di tutto, lasciati mezzo morti sul ciglio della avita. Per noi che abbiamo perduto l’eredità a causa dei nostri peccati. “Questo Samaritano non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote e il levita, e se discende, discende per salvare il moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: «Tu sei un samaritano e un posseduto dal demonio»; e Gesù, mentre ha negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon «guardiano» (significato della parola «samaritano»)” (Origene). “All’uomo che giaceva in tali condizioni portò aiuto il nostro Samaritano, cioè Gesù, che i Giudei chiamarono Samaritano, che significa «custode»; egli che mosso da misericordia, discendeva per quella via, cioè si è incarnato per morire lui giusto per i nostri peccati, sollevò da terra l’uomo giacente” (S. Agostino).

Il sacerdote ed il levita, guide del popolo, non si avvedono delle sofferenze dei propri fratelli. Loro, che dovrebbero custodire, formare, condurre il popolo non riconoscono lo stato in cui è ridotto. Non comprendono che quell’uomo è immagine di ogni loro fratello, straziato dai soprusi dei romani, ma molto più quasi ucciso dall’inganno del demonio. Sono dei mercenari, utilizzano il loro stato, e le cose sante, e la Legge per se stessi; quando vedono il lupo scappano, quando vedono il male avventarsi e ferire il popolo loro affidato non hanno forza, nè spirito per farsi prossimo a quel dolore; non hanno parole, non sanno ascoltare il grido, nè amore per chinarsi e portare in salvo.

Il samaritano invece sì, conosce il dolore dal di dentro, sa che cosa significa essere rifiutato, percosso, gettato fuori mezzo morto. Conosce il dolore ed il male, per averlo sperimentato. E’ Lui, è Gesù il Samaritano che si è fatto peccato, che ha conosciuto sino in fondo le conseguenze del male e può avere compassione, essendo stato provato in tutto. Per questo “gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo” (Benedetto XVI,ibid.). E’ Lui dunque che si china come il buon pastore, conosce la sua pecora e se la carica sulle sue spalle, e la riconduce all’ovile, la locanda della parabola, e si prende cura di lui, attraverso le sue stesse ferite, le piaghe dalle quali siamo stati redenti: il vino, il sangue sgorgato dalle sue membra crocifisse, e l’olio, il suo Spirito vivificante effuso spirando sulla Croce. E’ Lui che paga il prezzo del nostro riscatto con la sua stessa vita, i suoi averi, le sue grazie, le monete lasciate al locandiere. E’ Lui che ci affida alle cure della Chiesa, la madre premurosa che ci accompagna nel cammino di conversione e risurrezione. E’ Gesù, il samaritano che ha visto il Popolo schiavo in Egitto, che ha udito il suo grido, ed è sceso a liberarlo. E’ solo Lui, l‘unico Dio, in mezzo a tanti dei stranieri falsi e ingannatori, identificati, con la durezza della verità, nel sacerdote e nel levita: sono loro i veri eretici, le monete false che non salvano nessuno, i mercenari che le pecore del Signore non seguiranno, i falsi profeti che nessuno amerà. E’ Gesù che ha visto l’uomo, ogni uomo della storia, come Adamo gettato fuori dalla Vita: “I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato?… La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. ” (Benedetto XVI, ibid.).

Gesù, il Dio fattosi carne, fattosi l’unico ultimo, l’unico disprezzato, l’uno che doveva morire per il Popolo, è adonai ehadadonai elohenul’unico Dio, l’unico Signore, che non si può non amare con tutto il cuore, con tutta la mente, e con tutte le forzeE perchè unico Dio e unico Signore si è fatto prossimo per salvarci pieno di compassione. Amando Lui nel suo amore si eredita la vita eterna, perchè essa non è altro che questo amore senza limiti, che supera le barriere della morte, che rende ogni istante, ogni pensiero, ogni moto del cuore, ogni opera delle nostre forze un frammento eterno incastonato nel suo eterno amore. In Lui ogni uomo diviene prossimo e l’amore a Cristo si traduce spontaneamente, per la nuova natura di chi è rinato in Cristo, in amore all’uomo. “Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano… ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono” (Benedetto XVI, ibid.). Il dono di un amore senza distinzioni, senza barriere, che raggiunge anche il nemico. Perchè l’amore che eredita la vita eterna è pura gratitudine che sgorga da un cuore amato senza condizioni e senza limiti, quello di un’amata che, stordita da tanto amore, apre il suo cuore e lo consegna all’amato innamorato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello”(1 Gv. 4, 19-21).

Gesù è il samaritano ebbro d’amore che scende nel suo giardino alla ricerca dell’amata. “Mentre il Re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo” (Ct 1,12). Il famoso Rabbi Juda ben Ilai, verso il 150, interpretava così questo versetto: “Mentre il Re dei re, il Santo – benedetto egli sia! – sedeva alla sua mensa nel firmamento, Israele emise la sua fragranza davanti al monte Sinai e disse: Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Cantica Rabah 1,12.1). E’ paradossale, ma da quelle ferite e da quella estrema debolezza vicina alla morte, quell’uomo ha emesso la sua fragranza davanti al Re dei Re: di quella povertà Egli si è innamorato, di quell’uomo sfinito e incapace di tutto si è caricato. E lui, proprio perchè mezzo morto, ha potuto fare e ascoltare, perchè caricato sull’unico che ha compiuto sino in fondo lo Shemà realizzando la Nuova ed eterna Alleanza. Sulle spalle di Gesù possiamo amare, spandere le fragranze della nostra esistenza, che neanche sappiamo di avere perché impegnati a disprezzarle e a nasconderle, e vederle trasformate nel buon profumo di Cristo per chi ci è accanto. Come la peccatrice che, all’estremo dei suoi peccati, schiava incapace di uscirne, ha effuso la fragranza delle sue lacrime sui piedi di Gesù: ed è diventata l’unica dalla quale, nel Vangelo, Gesù riconosce di essere amato: ” le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco” (Lc. 7,47). Rispondendo alla domanda «Chi è Gesù per me?» Madre Teresa rispondeva: “Gesù è la parola da pronunciare, è la vita da vivere, è l’amore da amare, è la gioia da condividere, è il sacrificio da offrire, è la pace da portare, è il pane di vita da mangiare. Gesù è l’affamato da saziare, l’assetato da dissetare, il nudo da vestire, il senza tetto da accogliere, l’ammalato da curare e la persona sola da amare”

Martedì della XXVII settimana del T.O.

Giovedì della XXVI settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 10,1-12

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».

Il commento di don Antonello Iapicca

Ciascuno di noi, discepolo di Gesù, è inviato come agnello in mezzo a un branco di lupi; questo significa essere sbranati. Per questo, nella missione della Chiesa, la sconfitta è programmatica. Ogni cosiddetto “piano pastorale” nasconde una contraddizione in sé stesso: non se ne conoscono che pongano, come obiettivo, il fallimento e il martirio, essenziali, invece, per la missione e che non si possono programmare. Unico piano pastorale di Gesù è quello di consegnarsi, mite e indifeso, alla morte. Unico progetto, la croce. I discepoli sono i messaggeri del Signore inviati avanti a Lui ad annunciare il suo arrivo. Ambasciatori dell’agnello non possono che essere agnelli. Per questo siamo inviati nudi, senza alcuna sicurezza, indifesi. Niente bastone, niente calzari, niente borsa, alla mercè di tutto e di tutti. Crocifissi. E dentro il fuoco ardente dello zelo per annunciare il Vangelo: il mondo giace nelle tenebre della schiavitù, non c’è tempo per salutare, per convenevoli e cedimenti affettivi. Ci si ferma in una sola casa, la comunità dove pregare, ascoltare la Parola e nutrirsi dei sacramenti, la comunione che approfondisce l’intimità con Colui che invia.

Niente legami di casa in casa, niente ricerche di affetto e compiacenze, niente luoghi dove pianificare strategie. Il riposo arriverà dopo, quando ritorneranno dal Signore, per esultare con Lui nel vedere i propri nomi scritti in Cielo. Per questo, laddove sono accolti, i discepoli mangiano ciò che viene posto loro innanzi: come il Signore a casa di Matteo, dove assume su di sé il cibo della carne, si carica dei peccati per donare se stesso, il perdono che dà la vita nuova ed eterna. Ogni mattina siamo inviati avanti al Signore: il caffè con la moglie, la colazione con i figli, le strade intasate e le metro stracolme, la scuola, l’ufficio, ogni circostanza sino al momento di spegnere la luce e addormentarsi. Come pecore in mezzo ai lupi, in cerca dei figli della Pace cui riconsegnare la Pace perduta. Con Cristo possiamo vivere come agnelli: è questa la missione che ci ha raggiunto, annuciare a tutti “Pace a te!”. E’ il dono che non si può progettare, come la castità tra due fidanzati: ogni volta che escono insieme sono inviati come pecore in mezzo ai lupi pieni di concupiscenze, dell’egoismo che offre tutto a se stesso. Non si pianifica l’educazione: ogni giorno i genitori sono inviati come agnelli in mezzo a lupi ribelli e capricciosi, per donargli la Pace che ha salvato loro per primi. Essa genera l’educare, il lavorare, lo studiare; la pace nella malattia, nella tentazione, nel fallimento di ogni progetto, anche nel rifiuto della stessa pace offerta: ovunque a farsi mangiare e saziare di Cristo la fame di tutti, come, ogni giorno, il Signore sazia la nostra.

LEGGI IL COMMENTO APPROFONDITO….. 

Ciascuno di noi, discepolo di Gesù, è inviato come agnello in mezzo a un branco di lupi; questo significa essere sbranati. Per questo, nella missione della Chiesa, la sconfitta è programmatica: “La forza della Parola non dipende anzitutto dalla nostra azione, dai nostri mezzi, dal nostro ‘fare’, ma da Dio, che nasconde la sua potenza sotto i segni della debolezza, che si rivela sul legno della Croce” (Benedetto XVI, Omelia dell’11 Ottobre 2011). Ogni cosiddetto “piano pastorale” nasconde una contraddizione in sé stesso: non se ne conoscono che pongano, come obiettivo, il fallimento e il martirio, essenziali, invece, per la missione e che non si possono programmare. La missione dei settantadue incarna e annuncia la paradossale novità del Discorso della Montagna, compiedo quella affidata ai settandue anziani, di aiutare Mosè nel governo del popolo. Così i discepoli partecipano della missione di Gesù, il nuovo Mosè: la vita di ogni uomo è un esodo che punta al regno dei Cieli. Annunciandolo, i discepoli governano le nazioni riconducendole, nel deserto di ogni generazione, all’obbedienza alla volontà di Dio. Con loro, infatti, si avvicina e appare il Cielo, la primizia credibile del regno a cui tutti sono chiamati: qualcosa che non si è mai visto prima, che sfugge a ogni programmazione, il compimento stupefacente delle promesse di Dio. Nel regno annunciato ogni criterio mondano è stravolto. Il buon senso carnale mostra la sua inconsistenza. La Verità ha ragione della menzogna, e la vanità si dissolve per far posto all’autenticità.

Unico piano pastorale di Gesù è quello di consegnarsi, mite e indifeso, alla morte. Unico progetto, la croce. I discepoli sono i messaggeri del Signore inviati avanti a Lui ad annunciare il suo arrivo. Ambasciatori dell’agnello non possono che essere agnelli. Per questo siamo inviati nudi, senza alcuna sicurezza, indifesi. Niente bastone, niente calzari, niente borsa, alla mercè di tutto e di tutti. Crocifissi. E dentro il fuoco ardente dello zelo per annunciare il Vangelo: il mondo giace nelle tenebre della schiavitù, non c’è tempo per salutare, per convenevoli e cedimenti affettivi. Ci si ferma in una sola casa, la comunità dove pregare, ascoltare la Parola e nutrirsi dei sacramenti, la comunione che approfondisce l’intimità con Colui che invia.

Niente legami di casa in casa, niente ricerche di affetto e compiacenze, niente luoghi dove pianificare strategie. Il riposo arriverà dopo, quando ritorneranno dal Signore, per esultare con Lui nel vedere i propri nomi scritti in Cielo. Il passaggio dei discepoli è la luce pasquale che illumina la notte: essi sono gli azzimi della fretta, dell’urgenza che infiamma il cuore di Dio; sono le sue viscere commosse di misericordia per ogni suo figlio reso lupo dall’inganno del demonio: annunciano la Pace, il riscatto e la libertà. I discepoli, come paraninfi del Signore cercano i figli della Pace per prepararli alle nozze con Cristo. I discepoli, come Giovanni  Battista, preparano il banchetto di nozze nelle quali il lupo ritorna ad essere l’agnello che è stato creato. “Chi dunque può rendere testimonianza a questa luce solare latente nella carne come in una nube? Tale compito è proprio degli amici dello sposo; nelle nozze umane è tradizionale un rito solenne, per cui, oltre tutti gli altri amici, è presente anche il paraninfo, amico più intimo, che conosce la casa dello sposo. Ma costui è importante, veramente molto importante. Quel che nelle nozze umane, uomo a uomo è il paraninfo, questo è Giovanni in rapporto a Cristo” (S. Agostino, Discorso 293).

Per questo, laddove sono accolti, i discepoli mangiano ciò che viene posto loro innanzi: come il Signore a casa di Matteo, dove assume su di sé il cibo della carne, si carica dei peccati per donare se stesso, il perdono che dà la vita nuova ed eterna: “Dio è accusato di chinarsi sull’uomo, di accostarsi al peccatore, di aver fame della sua conversione e sete del suo ritorno. Si mette sotto accusa il Signore perché prende il piatto della misericordia e il calice della pietà. Fratelli, Cristo è venuto a questa cena, la Vita è scesa tra questi convitati, perché i condannati a morire vivano con la Vita. La Risurrezione si è chinata, perché coloro che giacciono si levino dalle tombe. La Bontà si è abbassata, per elevare i peccatori fino al perdono. Dio è venuto all’uomo, perché l’uomo giunga a Dio. Il Giudice si è seduto alla mensa dei colpevoli, per sottrarre l’umanità alla sentenza di condanna. Il Medico è venuto dai malati, per guarirli mangiando con loro. Il buon Pastore ha chinato le spalle per riportare la pecora smarrita all’ovile di salvezza”. (S. Pietro Crisologo, Discorsi, Sermo 30). I discepoli sono inviati a preparare questo banchetto, annunciando che Dio si è fatto carne e in essa ha distrutto il veleno di morte. Come il Signore portano la natura divina nella debolezza della natura umana, fragilità e precarietà che si fanno evidenti nella missione.

Tutto questo è la nostra vita. Ogni mattina siamo inviati avanti al Signore: il caffè con la moglie, la colazione con i figli, le strade intasate e le metro stracolme, la scuola, l’ufficio, ogni circostanza sino al momento di spegnere la luce e addormentarsi. Come pecore in mezzo ai lupi, in cerca dei figli della Pace cui riconsegnare la Pace perduta, il trofeo conquistato dal Signore nel combattimento vittorioso ingaggiato con il peccato e la morte: “Pace a voi!”, la pace che sgorga dalle stigmate gloriose di Cristo risorto mostrate dai discepoli nella loro totale precarietà. Tutto è perdonato, si può vivere una vita diversa, autentica, piena. Si può amare perché la paura della morte che spinge a farsi lupi – homo homini lupus – è stata dissolta nella certezza di un amore più forte della tomba. Si può perdonare, si può pazientare, si può donare la propria vita. La fame dei lupi è stata saziata dall’Agnello senza macchia. La fame di affetto, di comprensione, di giustizia, di misericordia che ogni giorno miete vittime accanto e dentro di noi, è stata saziata dall’amore crocifisso, scandalo e stoltezza che cura ogni malattia.

Si può vivere come agnelli, anzi, proprio la vita di un agnellino è l’unica autentica, quella che custodisce la caparra del Cielo. E’ questa la missione che ci ha raggiunto. Non si può pianificare la castità tra due fidanzati: ogni volta che escono insieme sono inviati come pecore in mezzo ai lupi delle concupiscenze, dell’egoismo che offre tutto a se stesso. Non si pianifica l’educazione: ogni giorno i genitori sono inviati come pecore in mezzo ai lupi delle ribellioni, dell’esigenza di autonomia, dell’immaturità. Non si programma l’essere marito, moglie, padre, figlio, fidanzato, collega di lavoro; non si pianifica secondo i criteri mondani un matrimonio, un’amicizia, un’attività lavorativa, lo studio. Non si pianifica il Servo di Yahwè: è una grazia che sgorga dall’essere stato scelto ed inviato, la primogenitura che costituisce la missione, la vita del missionario.

Nei “settantadue”, infatti, la morte è stata vinta e, più ancora nel rifiuto e nella persecuzione, con loro si fa “vicino il Regno di Dio”; esso è preparato anche per i nemici della Croce di Cristo, gli abitanti delle “Sodoma” che rifiutano e uccidono gli stranieri messaggeri di una vita diversa e senza peccato; liberi e senza paura, siamo inviati ad amarli nella verità, “scuotendo la polvere” di corruzione e vanità calpestata per raggiungerli, rivelando sin dove si spinge lo zelo di Dio per la pecora perduta. Ogni giorno siamo chiamati ad essere, come Cristo e con Lui, i messaggeri che giungono dal Cielo a testimoniare, nella vita e nelle parole, che la morte non é l’ultima parola. Nei discepoli brilla la pace che genera l’educare, il lavorare, lo studiare; la pace nella malattia, nella tentazione, nel fallimento di ogni progetto, anche nel rifiuto della stessa pace offerta: ovunque a farsi mangiare e saziare di Cristo la fame di tutti, come, ogni giorno, il Signore sazia la nostra.

Martedì della XXVII settimana del T.O.

2 ottobre. Santi Angeli custodi

dal Vangelo secondo Mt 18,1-5.10

In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 
Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».

Il commento

Il più grande dei comandamenti, il più grande nel Regno dei Cieli… Chi seguiva e si avvicinava al Signore non aveva molta fantasia. Come il cuore di ciascuno di noi, monotono e sempre in cerca di qualcosa per cui appassionarsi, risultati, misure da esibire, cifre e numeri a stabilire il perimetro della propria presenza: più “conti” e più sei grande, e addio paura della fine… Dietro a questa frenesia di sapere chi e che cosa sia il più grande, si cela infatti l’interrogativo al quale nessuno sa rispondere: esiste il Cielo o finisce tutto qui? Gesù ci conosce e così, invece di rivelare chi sia il più grande, indica un cammino e una soglia che annunciano l’unica risposta che conta: il Cielo esiste, e possiamo entrarvi. Ma occorre convertirci e abbandonare i criteri adottati sinora. Eh sì, perché nel Regno dei Cieli si entra solo se si diventa tanto piccoli da passare inosservati.

Impossibile. In ricerca perenne di affetti, gratificazioni e stima che ci “ingrassino” al punto che nessuno ci possa togliere dalla scena, neanche sappiamo da dove cominciare per “dimagrire”… Ci abbiamo provato forse, fallendo miseramente. Da soli non ce la facciamo, perché l’uomo, “nel suo amore verso il bene, è indebolito da molte passioni che si trovano nella sua anima. E’ quindi necessaria all’uomo la custodia degli angeli” (San Tommaso d’Aquino). Il loro sguardo infatti è fisso sul volto del Padre nel quale riconoscono il riflesso di ogni suo figlio. Gli angeli ci vedono già in paradiso, per questo possono accompagnarci lungo il cammino di ritorno a casa. Sanno persuaderci come fecero con il figlio prodigo, ricordandoci la nostra dignità; ci custodiscono distogliendoci dalla menzogna dell’orgoglio, perché nessuno di noi abbia più a disprezzarsi. La nostra vita è quella di Gesù!

Martedì della XXVII settimana del T.O.

1 ottobre. Santa Teresa di Lisieux

dal Vangelo secondo Mt. 18, 1-4

In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
 

Il commento di don Antonello Iapicca

L’ambizione è sempre figlia dell’insoddisfazione, dell’esigenza insopprimibile di colmare il vuoto che sperimentiamo. Tutto appare sfuggevole e precario, incapace di saziarci. Così si fa strada in noi l’illusione che in una certa grandezza vi sia la possibilità di dare consistenza e certezze alla nostra vita. Essere il più grande, la stessa tentazione che ha sedotto Adamo ed Eva, diventare come Dio, salire più in alto di tutti per decidere in tutta “libertà”, dirigere e proteggere la propria vita senza nessuno che la contesti e frustri i nostri desideri. Il più grande in un affetto, al lavoro, nello studio, tra fratelli e amici, nel matrimonio, nella Chiesa. Il più grande per non scomparire e avere spazio nel cuore degli altri. Grandi, per essere cercati, accolti, compresi, apprezzati, ricordati, amati… Anche chi si nasconde nella timidezza cerca la stessa grandezza; spesso ci si sottomette all’evidenza della realtà covando risentimento, e l’apparente umiltà è solo un soprabito indossato per vestire le frustrazioni.

Ma la felicità, la beatitudine, la pace sono regali preparati per i bambini; non importa se capricciosi o irritanti, perché un bambino è amato proprio per la sua piccolezza. Più è debole, goffo e insicuro, più è oggetto di tenerezze e attenzioni. Non si può non amarlo, anche quando sbaglia, cade, urla e strepita o si chiude nel silenzio dei sogni infranti. Santa Teresa di Lisieux lo aveva compreso: Dio cerca, predilige e ama la piccolezza, la nostra realtà senza ipocrisie. Per questo una porta “porta stretta” schiude il passo al Regno dei Cieli. Per entrarvi non sono necessari sforzi e fantasie, le dimensioni di quell’uscio coincidono esattamente con le nostre, quelle “originali” con le quali Dio ci ha creati. Convertirci è, semplicemente, ritornare a quelle misure, al pensiero di Dio su ciascuno di noi; quello che avanza non ci appartiene, è falso, fonte di sofferenza e frustrazione. Diventare come bambini, significa dunque aprire senza paura gli occhi su noi stessi e amare la nostra piccolezza, accogliere la storia che con la Croce pota il superfluo. Anche oggi infatti, Gesù ci “chiama a sé”, piccoli “in mezzo” ai tanti grandi secondo la carne, ma i “più grandi” nel suo cuore, il Regno dei cieli così vicino a noi.
Martedì della XXVII settimana del T.O.

Mercoledì della XXV settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 9,1-6
In quel tempo, Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi. 
Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro». 
Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni.
 
Il commento di don Antonello Iapicca
Il Regno dei Cieli è vicino, gli Apostoli ne sono gli ambasciatori. Un giapponese in Italia, ovunque vada, faccia quel che faccia, manifesta chiaramente la propria origine. È disegnata nei suoi occhi, l’annunciano le sue parole, la si intuisce dall’approccio alle cose della vita. Così è per gli Apostoli del Regno, ovunque giungano appare il Cielo. È impresso nelle loro vite, così diverse, così scandalose. Per questo non hanno bisogno di nulla che li accrediti, nessuna sicurezza. Sono d’impiccio bastone, sacca, pane, e denaro.
Il bagaglio degli apostoli è quello di Davide dinanzi a Golia, solo cinque pietre, i cinque libri della Torah, la Parola che li ha costituiti e inviati, forza e potere su ogni demonio, medicina per ogni malattia. Le cinque piaghe di Cristo, la parola della Croce, che, come la spada di Davide, taglia la testa al gigante e distrugge gli inganni di satana. Nella numerologia biblica cinque è il numero della Grazia: il quattro è il numero del mondo, e rappresenta la debolezza dell’uomo alla quale però si aggiunge la potenza di Dio, che fa proprio dell’impotenza umana lo strumento per manifestarsi pienamente. Annunciando il Vangelo, gli apostoli, piccoli e impotenti come Davide, lanciano la pietra che ha il potere di sottrarre il popolo al giogo di Satana, perché solo la Parola di Dio può conficcarsi nella sua fronte: solo essa può smascherare la parola del menzognero, e distruggere alla radice le sue trame.
E, accanto alla predicazione, con le cinque piaghe della Croce, gli apostoli aprono il cammino al Regno. Anche noi, deboli e inadatti come loro, siamo chiamati e inviati a uscire in battaglia contro il principe di questo mondo. Il Signore ci da forza e potere per schiacciare la sua testa superba. Unica condizione, abbandonarci a Lui, senza “portar nulla per il viaggio”. Perché di un “viaggio” si tratta: ogni nuova giornata di lavoro, ogni mattina e serata in famiglia, ovunque siamo in cammino, senza radici e installazioni. Se proviamo a sederci e ad assicurarci la vita, tutto comincia a sfaldarsi e a scivolarci dalle mani. Non abbiamo schemi per parlare ai figli. Come non abbiamo manuali per vivere le relazioni con i capi e i colleghi di lavoro. Abbiamo “solo” la Parola da annunciare, garanzia della libertà assoluta. Niente vincoli, nessuna catena, perché ogni giorno è nuovo e ogni relazione va costruita istante dopo istante, disposti a camminare e a viaggiare sino a dove si trova l’altro, nella libertà di rinunciare a tutto pur di salvarlo.
Niente “denaro” perché nulla dobbiamo comprare sulla strada della gratuità. Abbiamo pensato di legare il figlio regalandogli chissà cosa? Siamo così schiavi da non poter rifiutare quello che, per altro, sarebbe naturale non concedere? Una vacanza, la macchina, lo scooter o lo smartphone, gli oggetti per i quali i figli non hanno fatto nulla per guadagnarseli, non sono cambiali da versare per non essere in debito con loro, o per non avere problemi. L’unico debito è la carità, l’amore gratuito e nella Verità, che sa dire di no, dove un sì sarebbe puro veleno.
Nessun “bastone” perché l’apostolo si appoggia solo laddove può distendere le sue braccia per donarsi. Unico suo bastone è la Croce, certificato di credibilità della sua missione. Un marito che non parli a sua moglie appoggiato alla Croce sarà sempre insincero, in cerca di un fondamento dove deporre se stesso. E i problemi, le sofferenze e i peccati non si conteranno. Per relazionarsi con sua figlia, una madre non può non essere crocifissa. Altrimenti come potrà annunciarle la castità, i sacrifici per custodire la santità del suo corpo, aiutandola a scegliere vestiti e atteggiamenti? Coniugi e genitori, sacerdoti e catechisti, vescovi e suore, tutti sono chiamati e inviati per lasciar risplendere in loro la luce della Grazia. Se questo non avviene saranno solo dei moralisti insopportabili, e seppelliranno l’annuncio del Vangelo sotto una valanga di leggi e codici senza Spirito.
Spesso, purtroppo, come il Popolo di Israele con le sue tragiche alleanze, preferiamo appoggiarci al potere di questo mondo. E ne restiamo schiavi. Per questo, come già con la razione quotidiana di manna nel deserto, ogni mattina ci attende l’unica tunica, resa candida nel sangue dell’Agnello; ogni giorno abbiamo noi per primi bisogno della misericordia che ci fa, per Grazia, cittadini del Regno. Così, rivestiti di Cristo, possiamo annunciare il suo Vangelo a chi ci è accanto e ci attende a “casa” sua. Non possiamo esigere che escano e ci vengano a cercare, invitare, supplicare. Al contrario, siamo noi a essere inviati sino a “casa” loro: un apostolo non teme di sporcarsi e di entrare nei tuguri dove ha rinchiuso la propria vita il figlio; o di scendere nella cantina dove, per paura, si è rinchiuso il coniuge. Un apostolo, tu ed io, andiamo a “casa” di chiunque, per un servizio a domicilio che si faccia tutto a tutti, in ogni loro luogo.
E ci sediamo a tavola con loro, per ascoltarli, e condividere i loro dolori; e, con pazienza, aspettare che sia Dio a toccare il loro cuore. Forse ci vorranno giorni, mesi, anni, chi può saperlo? Un apostolo resta, comunque, con amore e misericordia laddove abita colui al quale è stato inviato. Senza giudicare, esigere, sperare nulla, ma solo annunciando il Vangelo con parole e gesti, perché è l’unico capace di “guarire i malati”. Questo è il “potere” inerme che Dio ci ha donato. Il potere di chi può stare sulla Croce, che non scappa, e su di essa sa comprendere chi, invece, la Croce non la sopporta, e la deve fuggire.

Il potere dell’amore senza limiti, l’unico che può avere ragione dei “demoni”, di “tutti” i demoni. Ma davvero lo crediamo? Abbiamo potere anche sul demonio più subdolo… O pensiamo, invece, che bisogna percorrere altre strade, psicologi, dialoghi, terapie di gruppo, e quant’altro. E invece la missione della Chiesa, come quella di Gesù, è un grande esorcismo: per questo non possiamo che essere crocifissi, ogni giorno, per scacciare “tutti” i demoni che si nascondono per distruggere la vita. Malattie, difficoltà, sofferenze, rifiuti, tutto ci fa missionari e vincitori: sono il legno della nostra fionda, la Croce, attraverso la quale la Parola predicata si fa autentica e credibile.

Che il Signore ci conceda un cuore che sappia guardare ogni persona come un malato che ha urgente bisogno del Medico. Questo è l’amore autentico, che ha sempre questa consapevolezza di fondo, per esperienza personale. Solo in essa ci potremo avvicinare a tutti con dolcezza, pazienza e misericordia, senza dubitare che l’annuncio del Vangelo è l’unico capace di “operare guarigioni” autentiche ed eterne.