da Avvenire.it
La sua vita, ora, è davvero appesa a un filo. E perché quel filo tenga, per vivere, Kate Omoregbe prega dalla sua cella, nel carcere calabrese di Castrovillari. Da ieri potrebbero anche lasciarle aperte, quelle sbarre. È libera, sulla carta: il tribunale di sorveglianza ha emesso un provvedimento di scarcerazione scontandole 90 giorni per buona condotta. Ma qualcuno, nella grande macchina della burocrazia, è ancora in ferie, qualcun altro non lavora il sabato: e così il provvedimento è fermo su chissà quale tavolo, lontano dalla direzione del carcere. Che, per far uscire Kate, deve aspettare.
Una fortuna, visto che la libertà per la donna nigeriana è anche una nuova, duplice condanna. All’espulsione dal nostro Paese, dove il reato per cui è stata condannata – la detenzione di droga – presuppone la revoca del permesso di soggiorno. E alla morte nel suo, dove il “reato” per cui è scappata – il rifiuto di convertirsi all’islam dal cattolicesimo e di un matrimonio combinato – presuppone la lapidazione. Leggi diverse, che nel drammatico caso di Kate sembrano volersi accordare sul più macabro dei finali. L’ultimo capitolo della vicenda sarà scritto, probabilmente, già domani.
Non importa se una casa di accoglienza a Lodi, gestita dalle suore, sarebbe pronta a prendersi cura della donna. Non importano le due interrogazioni parlamentari presentate ai ministri dell’Interno e della Giustizia. Non importano nemmeno le 1.700 firme raccolte online da una delle maggiori associazioni mondiali americane per i diritti umani, Care 2, per la petizione da consegnare al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i continui appelli del Movimento diritti civili, dell’amministrazione comunale di Castrovillari e di quella provinciale di Cosenza, che da oltre un mese si sono mobilitati per la vicenda.
Il destino di Kate dipende da una sola, possibile decisione: quella del tribunale di Castrovillari (o di Cosenza) in merito al blocco del provvedimento di espulsione emesso contestualmente alla sua condanna dai giudici di Roma, nel 2008. Tale provvedimento potrebbe (e dovrebbe, in base alle norme vigenti) essere preso in forza della domanda di asilo politico avanzata dalla donna dieci giorni fa e trasmessa dalla direzione del carcere alla questura di Cosenza. «Quella domanda deve essere ancora esaminata e giudicata dall’autorità competente – spiega Franco Corbelli, leader del Movimento diritti civili – e fino ad allora Kate non può e non deve essere allontanata dall’Italia». Senza contare che il nostro Paese, in prima linea contro la pena di morte, tutela da sempre gli stranieri dall’estradizione in Paesi dove tale pena sia in vigore: «E nel caso di Kate – continua Corbelli – c’è la certezza assoluta di una condanna a morte sociale e materiale, una volta rientrata in Nigeria». Il timore è, tuttavia, che proprio quella macchina burocratica “inceppata” in questi giorni possa ricominciare a muoversi, ciecamente.
Se così fosse, domani mattina fuori dal carcere del Pollino le forze dell’ordine potrebbero prelevare Kate e dare esecuzione al mandato di espellerla. Un’ipotesi scongiurata da più fronti, a partire dalla Comunità di Sant’Egidio, che per prima il 17 agosto scorso ha lanciato tramite Avvenire il suo appello al capo dello Stato affinché il nostro Paese «mostri il suo livello di civiltà giuridica» e «crei vita là dove c’è solo discriminazione e morte». Parole che richiamano quelle con cui la stessa Kate si rivolse al Movimento diritti civili nella sua lettera-appello ai primi di agosto, quando per la prima volta fu resa pubblica la sua storia: «Vorrei tanto ricominciare a vivere senza paura di essere uccisa, da donna libera in uno Stato libero».
Lei, cresciuta nella città di Sokoto, al cuore della Nigeria islamica – dove, per intendersi, vige la sharia – a chi la visita nel carcere di Castrovillari continua a ripetere d’essere certa che l’Italia e il suo Paese si distinguano profondamente. Che l’Italia la salverà. Qui, d’altronde, è arrivata dieci anni fa, col solo desiderio di poter vedere Roma, la capitale di quella fede che per tutta la vita aveva dovuto nascondere. E proprio lì s’è affidata a tre connazionali che l’hanno ospitata in casa e che – questa la sua versione – usavano droga. «Ho sbagliato comunque – dice – e ho scontato il mio errore».
E mentre s’incammina verso il bar del carcere – dove la fanno lavorare tre ore al giorno visto il sua carattere mite – bisbiglia il nome della sua sorellina. È rimasta laggiù, «non la sento da quattro anni». Anche la sua vita, vorrebbe fosse salva. Ma questa è un’altra storia.