intervista a Cesare Fiumi di Paolo Vites
Tratto da Il Sussidiario.net il 3 maggio 2011

È notizia recentissima, quella di una coppia di carabinieri aggredita e ridotta quasi in fin di vita da alcuni giovani, anzi giovanissimi (uno solo di essi era maggiorenne), fermati per un normale controllo. Erano stati a un rave party. La violenza giovanile, efferata, spesso con l’effetto di uccidere, e soprattutto per cause banalissime o anche nessuna causa vera, è un fenomeno che sta prendendo sempre più piede nell’Italia del Terzo millennio.

Cesare Fiumi, giornalista, scrittore, inviato speciale del Corriere della Sera ed editorialista di Sette, ha appena pubblicato un libro che fotografa questa agghiacciante realtà. Si intitola La feroce gioventù (Dalai editore, 176 pagine, 16, 50 euro) e ha un sottotitolo quanto mai significativo che lo stesso Fiumi spiega essere decisivo per capire il senso del libro stesso: “In un paese violento senza più maestri”. Nel libro, storie di crudo realismo di giovani violenti: un minorenne ucciso dai suoi amici dopo aver litigato per un po’ di fumo e un cappellino di paglia, è solo una di esse. È una generazione senza più valori ed educatori, quella di cui scrive Cesare Fiumi, tra i 15 e i 25 anni, “ragazzi allo sbando emotivo storditi da sogni di soldi, di potere e apparire. Mine vaganti” li chiama l’autore “che prima o poi presenteranno il conto a chi se l’è dimenticate”. Aggiungendo: “Una specie mutante, generazione cresciuta nel niente, in un Paese dove s’è smesso da tempo di seminare (e di coltivare) per quelli a venire. E dove, anzi, s’è messa una pietra tombale sulla pietà e sui principi, sui comportamenti e sui doveri morali”. Con Cesare Fiumi abbiamo discusso del libro e di questa generazione “senza maestri”.

Fiumi, come è nata l’idea di questo libro?
Io amo scrivere storie. Ogni libro che ho scritto racconta storie che descrivono la mutazione dell’Italia. Il mio primo libro raccontava storie di personaggi dello sport non tanto per le loro imprese sportive ma per il significato presente in esse. In Assassini della porta accanto invece cercavo di descrivere attraverso delle storie l’irrompere nella società italiana di una nuova violenza. Una mutazione genetica che accadeva specialmente sull’asse Torino-Trieste, quello dell’Italia considerata la più fortunata dal punto di vista economico.

Lei dice che fondamentale è il sottotitolo, “Un paese violento senza più maestri”. Ci spieghi perché, e cosa intende per “maestri”.
Questo libro incrocia storie tristemente esemplari di una generazione che stiamo perdendo ed è la grande novità italiana, questa situazione. È una violenza complessiva quella che descrivo, dalla politica, cioè il modo violento in cui si muove oggi la politica mandando a quel paese tutti i punti di riferimento intellettuali, per arrivare poi a famiglia e scuola, che dovrebbero essere i primi maestri. La famiglia è esplosa, la scuola è stata mandata in malora senza nessun investimento. Ecco allora una generazione che ha un problema di mancanza di strumentazione adeguata. La nuova tecnologia a disposizione ha portato a una grande solitudine per cui ci si contatta attraverso i social network, ma la tecnologia è una cosa a termine, c’è sempre il game over, lo swtich off, mentre la vita non si ferma, va avanti. Questi giovani non sanno gestire la relazione artificiosa che si crea con i computer, né gestire la frustrazione per cose banalissime, e la reazione a ciò che accade loro è spropositata.

E’ una generazione che è stata lasciata sola, abbandonata, o è un giudizio eccessivo?
E’ una generazione che vive un individualismo esasperato e non è in grado di aver alcun dialogo comune. Il loro io non tiene conto dell’esistenza di milioni di altri io al mondo, non hanno la percezione delle conseguenze dei loro gesti, non hanno futuro né prospettiva. Su questo gioca un ruolo anche la situazione economica in cui vivono, il precariato è diventato un modo di concepire la vita, anche perché questi giovani sono i più colpiti dalla mancanza di lavoro sicuro, cioè tutti quelli tra i 15 e i 25 anni.

Si può dire che una parte di responsabilità per la mancanza di maestri sia dovuta a un lascito dell’esperienza del ‘68, un passaggio storico che ha fatto proprio dell’abbattimento delle figure del maestro e dell’autorità uno dei punti di forza?
Il ‘68 può senz’altro aver influito sulla scomparsa dei maestri. Quando contesti tutto e tutti fai saltare inevitabilmente dei punti di riferimento, è come dare delle bastonate alle fondamenta di un edificio. I cattivi maestri invece ci sono sempre stati. Oggi li troviamo dove non dovrebbero essere, ad esempio in politica, ma quello che manca a questa generazione è principalmente un sentire comune. Anche durante il ’68 o nei momenti di maggior scontro post bellico, penso alla lotta fra Democrazia Cristiana e Partito comunista negli anni 50, c’era sempre un sentimento di valori condivisi che non veniva mai meno, pur nella diversità. Oggi non esiste neanche più la presunzione di incarnare un valore, neanche quella di incarnare un valore che vada contro. Questi ragazzi arrivano a gesti estremi senza saper elaborare il lutto della frustrazione, non hanno voglia di rovesciare il mondo o creare un disvalore. C’è solo la banalità del gesto più feroce possibile. E la società davanti a tutto ciò non sa come reagire: condannare e preoccuparsi non basta. C’è poi da dire che a qualcuno va bene una generazione così fragile perché diventa manodopera per chi fa capolarato della paura.

E la famiglia, che ruolo gioca in tutta questa situazione?
La famiglia, intesa come ruolo di educazione sociale, è del tutto assente. Una volta, anche in situazioni di analfabetismo, la famiglia trasmetteva valori di rispetto, sapeva insegnare che la libertà finisce dove comincia quella degli altri, dava un senso delle regole e non solo delle leggi. La famiglia si è lavata le mani di tutto ciò e ha demandato tutto alla scuola. Mancando il ruolo educativo della famiglia, salta il primo gradino della scala. Lo ha fatto poi in uno dei momenti peggiori della storia, dove la scuola come struttura è stata devastata e impoverita.

C’erano strutture una volta che erano forti punti di aggregazione sociale, penso agli oratori.
Strutture assai importanti. Gli oratori avevano una grande funzione di educazione sociale, lì si praticava un modo di vivere comune e di confronto tra coetanei e poi con gli adulti. La crisi del sacerdozio ha comportato la fine di molte di queste strutture.

Che speranza ha Cesare Fiumi davanti a questo quadro?
Mi sono limitato a raccontare delle storie. Non ho preteso di dare soluzioni. Ma forse solo leggere storie terribili come quelle che ho raccontato potrebbe portare qualcuno a farsi delle domande. Sarebbe già un bel risultato.