Non ha valore di per sé, ma per il contributo che dà a tutti
di Benedetto Ippolito
Tratto da Avvenire del 28 maggio 2009
Nel linguaggio parlato esistono gli intercalari. Sono dei fastidiosi avverbi che ripetuti da chi parla tra una frase e l’altra producono degli incomodi all’ascolto, cui però con il tempo nessuno fa più caso. Con le morti bianche accade, drammaticamente, qualcosa di simile.
Di tanto in tanto, tra un fatto di cronaca e l’altro i media ci danno notizia di una sciagura sul lavoro, senza tuttavia che l’accadimento comporti un’efficace presa di petto del problema da parte della classe dirigente e dell’opinione pubblica. In questa direzione, la tragedia avvenuta martedì in Sardegna – che in pochi minuti ha tolto la vita a tre operai che lavoravano in una cisterna – è un caso gravissimo e purtroppo comune, che non può essere minimizzato per i tremendi rischi che molte attività purtroppo continuano a comportare per l’incolumità delle persone.
Davanti ad un dramma di vita quotidiana di questo genere, suonano veramente come un monito severo le parole espresse da Benedetto XVI qualche giorno fa a Montecassino. Il Papa aveva parlato, invero, del pericolo della disoccupazione che, tra l’altro, porta anche a trascurare molti considerevoli pericoli connessi allo svolgimento di determinate professioni. Il cardinale Bagnasco, nella prolusione all’assemblea generale della Cei, ha ripreso la questione, mettendo in risalto specificamente la paura che la precarietà e la perdita del posto di lavoro provocano tra la gente. In fondo, si può dire che alle difficoltà assicurate dall’instabilità occupazionale, si associano adesso anche i rischi che lavorare comporta, specialmente quando i bisogni e le necessità portano a rischiare il tutto per tutto pur di non rinunciarvi.
È indispensabile, perciò, prima ancora di giungere ad affrettate conclusioni, esaminare accuratamente cosa non vada bene nel modo generale di concepire il lavoro nella nostra società, sia dal lato di chi una prospettiva occupazionale la offre e sia dal lato di chi invece ne beneficia operativamente. Un ottimo criterio di massima è quello messo a disposizione dall’enciclica Laborem exercens
di Giovanni Paolo II. Il documento stabilisce una demarcazione netta tra la dimensione oggettiva del lavoro, quella appunto che riguarda quanto viene fatto o prodotto con una determinata operosità, dalla dimensione soggettiva, legata direttamente al bene della persona stessa che lavora, ai suoi diritti e ai suoi doveri morali.
È naturale che, dopo tanti decenni in cui il lavoro è stato ideologicamente esaltato o disprezzato fino ad escludere la natura stessa del lavoratore, sia molto difficile in un attimo dare il giusto valore e attribuire l’autentico ruolo all’attività professionale. Il lavoro, in realtà, è un aspetto positivo e fondamentale della vita, solo finché rimane collegato strettamente all’esistenza personale di chi lo svolge. Ogni uomo e ogni donna devono riuscire a trovare nell’impegno quotidiano e onesto in cui s’industriano uno specifico modo di contribuire al mantenimento di se stessi, della propria famiglia e della propria comunità. Lavorare, infatti, è un bene e ha una sua onorabilità non in ciò che significa, ma nel contributo di umanità che dà generosamente a tutti. Quando, all’inverso, il senso etico e antropologico restano in secondo piano, schiacciati dalla cinica logica esclusiva del mercato, delle nuove e delle vecchie corporazioni o dal bisogno disperato di sopravvivenza, allora non si trovano altro che disoccupati e morti bianche. Perché o lavorare è e permane qualcosa di umano, oppure finisce per creare disumane opportunità di morire.
Di tanto in tanto i media danno notizia di sciagure senza che ciò comporti una presa di petto del problema.