E il bambino? E la vita? Come accade in molte discussioni e dibattiti, anche per quello in corso in Italia dopo l’approvazione alla Ru486 l’accento è stato posto solo su alcuni aspetti, col risultato di farne dimenticare altri. I grandi mass media laici pongono l’attenzione quasi esclusivamente sulla donna, sui “diritti” di chi intende abortire… e dei bambini “buttati via” non parla nessuno, o quasi. Anche per questo il cardinale di Torino ha voluto sottolineare l’opportunità di riportare, fra i termini del dibattito e della riflessione, l’aspetto relativo alle “vite perdute”. Il comunicato diffuso ieri dall’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi sottolinea questa dimenticanza per l’embrione, «che è già un essere umano con uguale diritto a vivere come la sua mamma. Non si può eliminare la vita del bambino per un presunto benessere della madre. L’impegno vero della società tutta è di aiutare entrambi, mamma e figlio, affinché la vita, che è un grande dono, sia sempre accolta offrendo alla donna non incentivi per un più facile aborto, bensì sostegno concreto affinché accolga quella nuova vita che si porta in grembo».

Il documento è sottoscritto dalle principali associazioni ecclesiali e scientifiche impegnate sui temi della vita e della bioetica: da quelle diocesane come l’Ufficio per la Salute e il Centro Cattolico di Bioetica alle associazioni torinesi dei medici cattolici, al Centro di Formazione dell’Ospedale Cottolengo al Movimento per la Vita. Firmano inoltre le associazioni “Bioetica & Persona” e “Medicina e Persona” di Piemonte e Valle d’Aosta. La notizia dell’approvazione di Ru486 «è stata presentata come una conquista – si legge fra l’altro nel comunicato – La comunità cristiana, invece, non può non evidenziare un ulteriore dramma la cui gravità fu già denunciata nel 2002 con comunicato del cardinale arcivescovo quando fu avanzata la proposta di iniziare, presso l’Ospedale Sant’Anna di Torino, la sperimentazione della pillola abortiva». Nel maggior ospedale ginecologico del Piemonte, infatti, venne avviata una delle sperimentazioni che hanno poi portato alla commercializzazione ma poi fu interrotta per l’intervento del ministero della Salute, che denunciò il mancato rispetto dei protocolli medici e ospedalieri previsti.

La commercializzazione di Ru486 viene consentita oggi in Italia mentre in altri Paesi sviluppati, a cominciare dagli Stati Uniti, si sta «tornando indietro», considerando più a fondo i problemi di efficacia, ricadute sanitarie sulla donna e la realtà culturale e giuridica che si va ad incoraggiare: quella, cioè, di rendere l’aborto chimico la «via più facile», il modo (teoricamente) indolore per «liberarsi di un problema». È su questa non-cultura che l’arcivescovo di Torino invita a riflettere, a non dare per scontati i termini del discorso. «Al di là delle valutazioni di merito – ha detto ieri il cardinale Poletto – c’è la questione del messaggio che si dà, dell’orientamento che si incoraggia. L’aborto, si dice, diventa facile, meno choccante, un’opzione ordinaria. Ma questo va contro qualunque logica di tutela, promozione, valorizzazione della vita. Banalizzare l’aborto diventa un danno per tutti, anche senza considerare soltanto la gravità degli aspetti psicologici sulla salute delle donne». Anche il parlare di “farmaco” è un modo per ridurre il problema: un farmaco dovrebbe curare, non uccidere…

I medici cattolici e gli operatori sanitari e culturali torinesi affrontano anche questioni scientifiche precise, ricordando come Ru486 sia ben altra cosa dalla “panacea” che viene sbandierata: «I danni provocati e le ricadute sono ben maggiori dell’aborto chirurgico».

«La pericolosità del metodo chimico – scrivono ancora – si rivela pertanto 10 volte più alta di quello chirurgico, infine nel 5-8% dei casi non provoca l’effetto abortivo e si conclude con l’intervento operatorio. Gravissime risultano poi essere le ricadute psicologiche. Il medico, quando non sceglie di avvalersi dell’obiezione di coscienza, assume il ruolo di assistente passivo e la donna diventa protagonista dell’atto abortivo che si protrae nel tempo, finché, dopo interminabili ore, vissute nell’angoscia e con inevitabili sensi di colpa, è costretta a vedere il figlio espulso, rifiutato come un corpo estraneo».


da Torino Marco Bonatti per Avvenire