Intervista a Eugenia Roccella
di Gianni Santamaria da Avvenire

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“Proviamo a vedere se è possibile aprire un dibattito non pressato da un’urgenza come quella del caso Englaro. Ad esempio sul consenso informato, che è un àmbito su cui credo si possa trovare condivisione, e sulla libertà di cura”. Temi alti che Eugenia Roccella declina nel giorno dedicato agli stati vegetativi e all’anniversario della morte di Eluana, tornando a ribellarsi all’idea che il dibattito resti piegato solo sul “fine vita”, condizione nella quale queste persone non si trovano. A lei, che da sottosegretario ha contribuito in prima persona a istituire questa giornata chiediamo, dunque, un bilancio sulle Dat mancate e su quanto si fa per gli stati vegetativi. “Siamo stati accusati di usare i temi etici come una clava. Ci è stato detto che non si fanno leggi a colpi di maggioranza. Io chiedo: se cambiano le maggioranze cambia anche il criterio? È successo in Spagna, Francia, Inghilterra…”.

Da quale base partire, allora, per il dialogo?

Da quanto accaduto per la legge sulla cure palliative, che io chiesi allora di scorporare da quella sulle Dat. Ignazio Marino fece una battaglia contro, accusandoci di volerle boicottare. Il risultato è stato l’inverso. Le cure palliative sono passate, perché c’era un consenso di fondo, le Dat invece no.

La legge, infatti, si è arenata a fine legislatura

Per un cambio di maggioranza. Noi peraltro la legge sul “fine vita” non la volevamo. Siamo stati costretti a una difesa dello spazio del Parlamento da una sentenza invasiva, che andava ai confini con l’eutanasia. L’idea che si possano ricostruire le volontà della persona – e, senza consenso informato, portarla alla morte – era e resta un’interpretazione forzata della libertà di cura sancita dalla Costitituzione.

Un tema, quello degli stati vegetativi da non confondere col “fine vita”: investe l’etica e il sociale. Due piani che spesso vengono contrapposti. Il caso Englaro non ha aiutato…

Non solo. Grazie alla propaganda, è stata fatta passare l’idea che le persone in stato vegetativo siano dei vegetali, dei candidati all’eutanasia. Ho letto cose orribili, anche sulla grande stampa. Un’importante rivista della sinistra li definì «spugne defecanti». Insomma, bisognava ridurre lo stato vegetativo a una condizione subumana.

Non a caso c’è anche chi ha messo in guardia da una deriva eutanasica per brutali motivi di “non sostenibili” costi del welfare.

È un equivoco voluto. E lo si nasconde sotto la pietà. Se si riconosce l’umano, il fratello, non lo si sopprime.

Un bilancio di questi tre anni della giornata?

Il lavoro della Commissione di esperti per l’aggiornamento scientifico e il monitoraggio epidemiologico, ma anche per l’individuazione di percorsi appropriati. Il coinvolgimento delle associazioni per il Libro bianco delle migliori pratiche. Esperienze concrete di gestione molto buona. Un glossario per spiegare l’uso improprio della terminologia a fini di distorsione ideologica. Infine la messa in campo, assieme al professor Dolce, di una task force europea per la ridefinizione degli stati vegetativi grazie anche a nuovi strumenti di indagine.

C’è poi un discorso che investe le Regioni.

Sì. Abbiamo fatto con grande fatica le prime linee guida che danno un ruolo alle associazioni, come referente per le Regioni. Ora hanno in mano uno strumento enorme per chiedere conto di come vengono spesi i fondi e di come si realizzano i percorsi di cura. Sono passate in Conferenza Stato-Regioni e quindi sono norma. Non possono essere eluse.

Cosa può fare ancora per queste persone la politica?

Intanto ha dato gli strumenti. Nelle linee guida c’è il percorso di riabilitazione appropriato. Perché purtroppo il problema è l’inappropriatezza: vengono tenuti in rianimazione a lungo, cosa che non serve. Infatti, possono migliorare, per cui serve un percorso di cura, di riabilitazione e stimolazione

E per le famiglie?

Negli obiettivi di piano, avevamo stanziato per le persone in stato vegetativo fondi mirati, di cui le Regioni devono rispondere. Non fondi generici, come nel caso di quelli per altre disabilità e malattie, tipo la Sla. Erano 70 milioni l’anno ora sono diventati 20: una brutta decurtazione.