di Inos Biffi
Tratto da L’Osservatore Romano

Quando la Chiesa pellegrina sulla terra celebra la liturgia, e in particolare l’eucaristia, è persuasa che alla sua lode prenda parte anche la Chiesa celeste.

Essa conclude abitualmente i prefazi proclamando d’essere unita “agli angeli e agli arcangeli e a tutti i santi del cielo” nel canto gioioso dell’inno della gloria, e pregando che le sue “umili voci” si possano associare al loro inno eterno.

La stessa persuasione ritorna lungo il canone: così, nel ricordo della Vergine Maria, dei santi apostoli e martiri e di tutti i santi; nella supplica di poter “godere della loro sorte beata”; nell’implorazione che l’offerta eucaristica “sia portata sull’altare del cielo”.

Tutta la popolazione celeste, invisibilmente ma realmente, presenzia ai riti della Chiesa di quaggiù in preghiera. I sensi non la avvertono, ma la percepisce la fede. Viene in mente la convinzione di Newman, che nel caso della liturgia è ancora più fondata. Nel 1831, in un sermone per la festa di san Michele, scriveva: “Ogni alito d’aria, ogni raggio di luce o di calore, ogni bella vista è, per così dire, l’orlo della veste [degli angeli], l’ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio”. Egli considerava “la Santa Chiesa coi suoi sacramenti e la sua scala gerarchica, (…) fino alla fine del mondo”, come “un simbolo di quelle realtà celesti che riempiono l’eternità”, e “i suoi misteri (…) soltanto un’espressione, in termini umani, di verità che la mente umana non è in grado di spiegare”.

Ma non basta riconoscere questa compagnia della Chiesa celeste concelebrante con la Chiesa terrena. In realtà, se noi possiamo celebrare quaggiù la nostra liturgia, è perché la celebra lassù la Comunità beata: il nostro sacrificio è imitazione e riflesso di quello del cielo; la memoria dell’immolazione del Calvario arriva a noi, passando attraverso l’esaltazione del Crocifisso glorioso.

Incominciamo, anzitutto, a osservare che la Chiesa esiste sulla terra perché esiste la Chiesa gloriosa, la quale fonda e precede la Chiesa ancora nel tempo.

Infatti, la Chiesa trova il suo principio e la sua ragione nel Cristo risorto, che è in assoluto il Capo della Chiesa, suo Corpo. Dove c’è il Risorto, là c’è la Chiesa, là ci sono tutti i giusti che la compongono, tra i quali primariamente la Vergine Maria, e c’è lo stesso mondo angelico, del quale Gesù risorto è ugualmente Signore – “Capo di ogni Principato e di ogni Potenza” (cfr. Colossesi, 2, 10).

La figura della Chiesa è ora esemplarmente avverata nella Chiesa celeste, dove la grazia, che deriva tutta dal Crocifisso risuscitato, è trasfigurata e ultimata in gloria.

Non è, quindi, la Chiesa del compimento, a seguire le orme della Chiesa del divenire, bensì la Chiesa del divenire che si ispira a quella del compimento.

D’altra parte, ogni grazia e ogni ministero nella Chiesa terrena derivano dal Risorto: da Colui che con la risurrezione ha ricevuto “ogni potere in cielo e sulla terra” (Matteo, 28, 18) e, “innalzato da terra”, trae “tutti” a sé (Giovanni, 12, 32).

Tutte le azioni ecclesiali salvifiche sulla terra, finalizzate “a edificare il corpo di Cristo” – apostolato, profezia, evangelizzazione, attività pastorale e magisteriale (cfr. Efesini, 4, 1-13) – sono dono del Signore risorto assiso alla destra del Padre e operano dello Spirito da lui inviato.

Ne consegue che anche ogni atto liturgico è possibile e valido per la presenza attiva della signoria di Gesù e per l’azione del suo Spirito che, perfettamente in atto in cielo, s’inseriscono nella storia della Chiesa in terra. I nostri riti sono – secondo il linguaggio di sant’Ambrogio e di Newman – un’immagine della verità dei “riti” celesti, dove, in realtà, ormai si sono sciolti i simboli. L’efficacia dei sacramenti proviene tutta da Gesù, che è il Signore vivente, che colma i nostri segni o i nostri servizi. Sant’Ambrogio direbbe: “A noi appartengono i gesti ministeriali, ma sei tu che li rendi sacri ed efficaci (Nostra servitia, sed tua sunt sacramenta)” (De Spiritu Sancto, i, 17).

In altre parole: se per liturgia s’intende la celebrazione della lode divina, il ringraziamento per la redenzione, l’esultanza per la comunione col Cristo glorioso e per la contemplazione, in lui e con lui, della Santissima Trinità, chiaramente è in cielo che questa liturgia si trova nella condizione perfetta.

Anzi, dobbiamo riconoscere che i nostri riti, che ancora si svolgono nel tempo, sono possibili, perché a presiederli è Gesù, il Sommo Sacerdote, capace di “salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore” (Ebrei, 7, 25).

La nostra liturgia è sostanziata esattamente dall’intercessione celeste del Figlio di Dio, costituito sacerdote e “reso perfetto per sempre” (ibidem, 7, 28).

Mancasse questa presenza di Cristo e questa sua persistente intercessione, essa si troverebbe estenuata e impotente. Questo vale in particolare per la celebrazione eucaristica.

Né per ciò verrebbe compromesso il valore storico dell’immolazione della Croce. Al contrario. Nella messa è presente il sacrificio del Calvario nella sua verità storica. Solo che quel sacrificio – in cui Cristo, Figlio di Dio, “sommo sacerdote dei beni futuri” (ibidem, 9, 11), offrì “se stesso” “una volta sola” (ibidem, 9, 26) ottenendo “una redenzione eterna” (ibidem, 9, 12) – a differenza di tutti gli altri sacrifici, destinati a esaurirsi e a ripetersi, ricevette un compimento e una perfezione, o una condizione celeste, che lo riscattavano da una pura storicità e temporalità terrene.

Il sacrificio della Croce è il sacrifico del Risorto; un intimo legame connette la morte di Gesù con la sua risurrezione: se Gesù non fosse risorto, il suo sacrificio sarebbe stato inefficace. In questo senso si potrebbe dire che il sacrificio storico della Croce è un sacrificio “celeste”, e per la condizione celeste del Risorto, nella sua reale e singolare storicità, può essere sempre e irripetibilmente presente nella liturgia della Chiesa terrena.

Ma queste riflessioni domandano un’attenta e mirata trattazione. Qui importava mettere in luce, che alla celebrazione liturgica della Chiesa, e in modo speciale alla celebrazione dell’eucaristia, fosse pure la più solitaria, la popolazione celeste, con Gesù risorto, tutti i santi e l’intera corte  angelica, non solo prende parte, ma ne costituisce il modello. Il nostro culto è ancora “immagine e ombra delle realtà celesti” (cfr. ibidem, 8, 5), tutto animato dal loro desiderio, in attesa che trapassi in esse, con la venuta del Signore.

Ma quanto poco le catechesi sulla messa lo illustrano!