di Carlo Stagnaro
Tratto da Il Foglio  del 6 maggio 2010

Mentre il mondo rincorre la crescita economica, l’Unione europea – già girata nella direzione opposta – si chiede con quale velocità sia appropriato allontanarsi dal sentiero dello sviluppo.

Bruxelles ha forgiato la sua identità attorno all’immagine di leader nella lotta ai cambiamenti climatici. Per dare sostanza al suo impegno ha fissato il target di riduzione delle emissioni di gas serra del 20 per cento al di sotto dei livelli del 1990, entro il 2020. Così si è presentata a Copenhagen a carte scoperte, entrando trionfatrice nel vertice che doveva portare all’accordo globale per il post-Kyoto e uscendone, isolata, come l’unica regione ad aver assunto obiettivi vincolanti.

Oggi, i principali responsabili delle emissioni hanno altro per la testa: la Cina pensa a consolidare il ruolo di motore economico del pianeta, gli Usa annaspano fuori dalla crisi. In questo contesto, l’Ue sta valutando se sia opportuno alzare l’asticella dal 20 al 30 per cento. Paradossalmente, a rendere possibile questo scenario è proprio, secondo Bruxelles, l’effetto della recessione, che ha sensibilmente abbassato i consumi energetici e le emissioni a essi collegati. Secondo le ottimistiche stime della Commissione, il costo dell’intera operazione sarebbe di circa 30 miliardi di euro all’anno oltre ai circa 50 (anch’essi in uno scenario molto ottimistico) richiesti a tagliare le emissioni del 20 per cento. E’ probabile che la bolletta sia molto più salata, specie in un momento in cui le prospettive di crescita sono ancora fragili.

Nonostante le arrampicate sugli specchi dei fautori del “green deal”, non è difficile capire che cambiare completamente la fisionomia del nostro sistema energetico, in meno di dieci anni, sarebbe un salasso: se così non fosse, non servirebbe un’impalcatura di obblighi e sussidi. Le imprese si getterebbero da sole nell’oasi felice dell’economia verde. Invece, questo non accade, e per buone ragioni. Anzi, succede il contrario. Più Bruxelles ringhia, più il mondo industriale – specie nelle sue componenti più energivore – viene affascinato dalla prospettiva di delocalizzare. Il risultato sarebbe sicuramente un abbassamento delle emissioni europee, ma anche un impoverimento del vecchio continente (come nel 2009, quando il crollo della produzione industriale ha fatto cadere del 16 per cento le emissioni nei settori interessati dal mercato dei titoli di emissione). In più, il trasferimento degli stabilimenti in aree meno sviluppate, meno avanzate tecnologicamente, e meno sensibili all’ambiente potrebbe determinare, a parità di prodotto, un aumento netto delle emissioni: un fenomeno noto come “carbon leakage”. In pratica, l’Ue si troverebbe a tirare la cinghia senza ottenere alcun beneficio ambientale ma anzi, nel lungo termine, sortendo l’effetto opposto.

L’ultima dimostrazione del fatto che questa prospettiva sia tutt’altro che peregrina viene da un paese finora entusiasticamente favorevole alle politiche climatiche europee, che anzi ha contribuito a promuovere visto il florido stato di salute della sua industria rinnovabile: la Germania. Un documento fatto circolare dalla Confindustria tedesca puntualizza, anzitutto, che “la ridotta crescita economica era ed è un risultato seriamente negativo della crisi finanziaria e non dovrebbe essere ‘celebrata’ come uno strumento per la protezione del clima; inoltre circa 50 miliardi di euro all’anno (81 per tagliare del 30 per cento) sono già un costo molto significativo se aggiunto al drammatico impatto della crisi”. Inoltre, la confederazione delle imprese tedesche ritiene che lo sforzo richiesto sia insostenibile non solo per il suo impatto finanziario, ma anche perché implicherebbe l’ennesima revisione delle regole mentre il gioco è in corso. Da ultimo, perseguire queste politiche unilateralmente avrebbe solo l’effetto di ridurre la competitività europea: uno svantaggio competitivo che non sarebbe in alcun modo compensato dall’introduzione di “dazi sul carbonio”, recentemente chiesti in una lettera congiunta da Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi. Anzi, questo isolerebbe ancor più la “fortezza Europa” dal resto del mondo. Ci renderebbe sempre più poveri e sempre più marginali. Forse è vero che i morti non emettono CO2, ma è una magra consolazione.