A 32 anni dalla nascita della prima bambina in provetta, le ricerche sulla fecondazione artificiale sono state premiate oggi con il Nobel per la Medicina. Unico vincitore è il biologo ed embriologo britannico Robert Edwards, 85 anni e oggi professore emerito dell’università di Cambridge, che nel 1978 ha fatto nascere Louise Brown, la prima figlia della provetta. Un risultato che probabilmente non avrebbe potuto raggiungere senza la collaborazione del ginecologo Patrick Streptoe, morto nel 1988.

LE PERPLESSITA’ DELL’ACCADEMIA PRO VITA.
La storia della fecondazione in vitro ha inizio con una lettera pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet nell’agosto 1978, firmata da Robert Edwards e Patrick Steptoe. Dove i due ricercatori britannici annunciavano la nascita di Louise Brown, primo essere umano concepito in «provetta da un ovocita aspirato in laparoscopia il 1° novembre 1977, in un ciclo ovulatorio spontaneo, in una donna sterile per occlusione bilaterale delle tube». Per quel passo, che inaugurava anche l’irruzione della tecnoscienza nel cuore della generazione umana, a Edwards è stato assegnato il Nobel per la medicina (il collega Steptoe è morto nel 1988), come annunciato ieri dall’Assemblea del Nobel del Karolinska Institutet di Stoccolma. Una premiazione a scoppio ritardato, per quanto non la prima, se si tiene presente che Alfred Nobel aveva pensato l’omonimo riconoscimento come un sostegno ai responsabili di significativi avanzamenti della scienza e della cultura, perché potessero continuare il proprio lavoro senza assilli economici, non come semplice alloro a fine carriera. E quello che Edwards poteva dare alla scienza lo ha certamente già dato, essendo 85enne e in gravi condizioni di salute.

Il tutto suona insomma come un messaggio ideologico all’opinione pubblica, quasi una consacrazione della provetta fin tanto che il suo padre scientifico è ancora in vita. Ma tant’è.
Nato a Manchester, laureatosi in agraria e specializzatosi in genetica animale, Edwards iniziò la carriera accademica nel 1955 a Cambridge. In quegli anni alcuni scienziati avevano dimostrato che cellule uovo di conigli potevano essere fecondate in provetta. Il giovane genetista decise di studiare se metodi simili potevano essere usati anche con gli esseri umani. Con una serie di esperimenti fece importanti scoperte per quanto riguarda la fisiologia della riproduzione: come maturano gli ovuli, come differenti ormoni ne regolano il ciclo vitale e quando sono pronti per essere fecondati. Nel 1969 Edwards contattò il ginecologo Patrick Steptoe, pioniere della laparoscopia, tecnica per rimuovere gli ovuli dalle ovaie. Insieme misero in coltura ovociti umani e, aggiungendovi seme maschile, ottennero un embrione umano.

Nonostante i risultati promettenti, il britannico Medical Research Council decise però di non finanziare il progetto, che andò avanti grazie a una donazione privata. Fino a quando, nel 1978, ai due ricercatori si rivolsero Lesley e John Brown, una coppia che da 9 anni tentava invano di avere un figlio. Partito coi conigli Edwards chiuse il cerchio e fece venire alla luce una bambina, dando il via a quella che oggi è diventata a tutti gli effetti una nuova branca della medicina, un business mondiale di enormi proporzioni e uno dei principali terreni di conflitto della bioetica contemporanea.
«L’avanzamento del sapere può avvenire anche violando valori etici fondamentali – commenta a caldo la notizia del Nobel Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del Diritto a Tor Vergata e già presidente del Comitato nazionale di bioetica – così come nell’investigazione di un delitto si può ottenere una confessione attraverso la tortura. Otteniamo la verità, certo, ma a che prezzo? Il problema è qui: per alcuni la violazione delle norme morali è giustificata dal valore che si ottiene, per altri no». Continua D’Agostino: «Qui non si tratta di discutere l’abilità di Edwards, la motivazione strettamente tecnica del premio non è sindacabile, ma quello che dovrebbe essere sindacabile è che non ogni esito può essere avallato indipendentemente dal metodo con cui è stato ottenuto. Si ripete spesso che un grande scrittore come Borges non ha mai avuto il Nobel perché troppo di destra: vero o no, di fatto l’accademia svedese ha sempre tenuto presente il retroterra delle personalità da premiare e le loro, diciamo così, metodologie. Non è stato così, evidentemente, nel caso di Edwards, dove il Nobel avalla una medicina priva di sensibilità etica. Viene poi da pensare alla considerazione data, nell’ambito della medicina, alla fecondazione in vitro rispetto ad altri campi: non mi risulta, per esempio, che a Christiaan Barnard, autore del primo e rivoluzionario trapianto di cuore, abbiano mai dato il Nobel».

Forti perplessità sono state espresse anche dal Vaticano. «Personalmente avrei votato altri candidati come McCullock e Till, scopritori delle cellule staminali, oppure Yamanaka, il primo a creare una cellula pluripotente indotta (iPS)» ha commentato monsignor Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Sullo scienziato britannico gravano responsabilità oggettive: «Senza Edwards non ci sarebbe il mercato di ovociti; senza Edwards non ci sarebbero congelatori pieni di embrioni in attesa di essere trasferiti in utero o, più probabilmente, di essere usati per la ricerca oppure di morire abbandonati e dimenticati da tutti». Un bilancio che per il presule si può sintetizzare così: «Edwards inaugurò una casa ma aprì la porta sbagliata dal momento che puntò tutto sulla fecondazione in vitro e consentì implicitamente il ricorso a donazioni e a compra-vendite che coinvolgono esseri umani. Così non ha modificato minimamente né il quadro patologico né il quadro epidemiologico dell’infertilità. La soluzione a questo grave problema verrà da un’altra strada meno costosa e ormai in avanzato corso di costruzione».


Andrea Galli