È innegabile che tv, internet e tutti i nuovi media possano portare a forme di semplificazione, ma anche di manipolazione della realtà. La Chiesa, però, non smette di considerare un’opportunità ciò che Giovanni Paolo II chiamò l’«areopago moderno».
di Gianfranco Ravasi

Tratto da Vita e Pensiero • 3/2009

Nel suo saggio La sposa meccanica del 1951 Herbert Marshall McLuhan non esitava a dichiarare che «oggi i modelli di eloquenza non sono più i classici bensì le agenzie pubblicitarie». Una frase provocatoria ma dalla sostanza indiscutibile. La comunicazione è una delle sfide capitali che stanno di fronte anche alla Chiesa. A questo problema vorremmo ora dedicare una riflessione molto elementare e diremmo quasi “impressionistica”, consapevoli della valanga di studi che si è abbattuta sul tema in questione.

È noto che nel secolo che sta alle nostre spalle le frontiere della comunicazione si sono allargate immensamente attraverso due eventi fondamentali: la nascita e la crescita dell’era televisiva e l’ingresso prepotente dell’informatica che ha nel computer il suo simbolo regale, pronto a trasformarsi in idolo o feticcio.

Anche se enfatica, è per molti aspetti condivisibile l’affermazione di John Perry Barlow della Electronic Frontier Foundation: «Siamo di fronte alla più significativa trasformazione tecnologica dopo la scoperta del fuoco». L’Ulisse elettronico non si stanca di navigare in un oceano che sembra essere sempre più spazioso, coltivando la speranza o l’illusione che esso sia infinito. Potremmo dire che idolatricamente l’uomo mediatico contemporaneo abbia sostituito con la rete il concetto della divinità nella quale «se descubren nuevos mares cuando mas se navega», ossia si scoprono nuovi mari, quanto più si naviga, come scriveva il mistico spagnolo del Cinquecento Fray Luís de León.

Non è nostro compito né è possibile descrivere la situazione di questa comunicazione nella quale, comunque, «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», per continuare nella linea dello stravolgimento della visione teologica. Vorremmo invece, sia per la televisione sia per l’informatica, segnalare subito le riserve, le critiche, le perplessità, emerse da una fitta serie di analisti qualificati che non di rado avevano con entusiasmo accolto la svolta epocale (pensiamo solo al citato McLuhan e ai suoi discepoli Walter J. Ong e Derrick De Kerckhove).

Nei confronti della televisione e del suo impero l’accusa più stentorea è stata sollevata da uno dei massimi filosofi del Novecento, il viennese Karl Popper, morto nel 1994, che nell’ultima fase della sua vita ha ingaggiato -anche con evidenti eccessi -una personale battaglia contro lo strapotere della comunicazione televisiva, battaglia già anticipata simbolicamente da altri come Sidney Lumet nel suo film Quinto potere (1976), evidente allusione al celebre Quarto potere di Orson Welles (1941) dedicato alla stampa.

Potremmo sintetizzare la sua critica molto articolata in questi tre asserti. La televisione innanzitutto addormenta lo spirito critico, creando degli automi o replicanti intellettuali. In secondo luogo trasforma la democrazia in telecrazia di stampo totalitario, un sistema ovviamente impresso nelle menti in modo surrettizio e subdolo. Infine la televisione deforma il buon gusto, perverte il senso estetico, semplifica e banalizza la realtà e il pensiero. Accuse pesanti, certamente, ma tutt’altro che infondate. Basti solo un’attestazione emblematica, ricavata quasi in corpore vili dalla dichiarazione di un giornalista televisivo italiano, Giulietto Chiesa, corrispondente da Mosca negli anni della drammatica transizione dal regime comunista al successivo travagliato nuovo corso: «Erano anni duri e tragici. I servizi televisivi non dovevano superare il minuto e trenta-quaranta secondi. Dentro questo soffio di tempo si dovevano far stare immagini e parlato. Quest’ultimo non doveva superare le 22 righe. Mandavo il pezzo e tremavo rimanendo in tensione per quello che avevo scritto e per quello che accadeva. Poi capitava di essere svegliato l’indomani mattina dall’Italia dalla telefonata di un amico che ti diceva: “Ti ho visto ieri in televisione: avevi una bella cravatta!”».

La superficialità, l’apparire esteriore, la semplificazione della televisione hanno progressivamente infettato anche il resto della comunicazione, a partire dalla carta stampata, sempre più incline a inseguire ritmi, stili, mode e dati televisivi. Anzi, quelle caratteristiche si sono irradiate anche nella società e nella cultura generale: ogni argomento ormai dev’essere sempre affrontato in modo “essenziale”, ma questo aggettivo non indica il mirare alla sostanza dei problemi, bensì alla loro semplificazione e banalizzazione. Distinguere e argomentare in modo puntuale e sfumato rispetto al facile e sbrigativo ritmo binario dominante del “bianco-nero”, “vero-falso”, “destra-sinistra”e così via è ritenuto dannoso per l’indice d’ascolto di cervelli ormai incapaci di andare oltre il bagliore fatuo dello slogan o della battuta. Le conseguenze sono immaginabili anche per la stessa formazione morale e spirituale dell’uomo, se è vero quello che affermava il grande Pascal: «Impegnarsi a pensare bene: ecco il principio della morale!». Ammiccando al prologo giovanneo, il poeta americano Ezra Pound esclamava: «In principio c’era la Parola. E la Parola è stata tradita».

Per certi versi ancor più incombente e forse ancora agli esordi delle sue potenzialità è l’impero informatico. Su di esso esiste già un’immensa letteratura che ne vaglia le strutture, ne delinea i percorsi, ne giudica gli esiti. Anche in questo caso ci accontentiamo di raccogliere una serie di osservazioni critiche, pur nel primario riconoscimento della straordinaria capacità di “democratizzazione”dell’informazione, generata dal moltiplicarsi dei computer e dalla conseguente diffusione “popolare”delle conoscenze. Alcune riserve non fanno che ricalcare quelle già espresse per gli effetti indotti dalla televisione. Eccone una serie, molto sinteticamente elencata in tre asserti. Primo. La moltiplicazione sconfinata dei dati offerti induce a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e della capacità di vaglio selettivo.

Entrano, così, in crisi le grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la scuola e lo Stato. Risultano sconvolte le gerarchie dei valori, si disperdono le costellazioni delle verità ridotte a un gioco di opinioni variabili nell’immenso paniere delle informazioni. Secondo. Sotto l’apparente “democratizzazione”della comunicazione, sotto la “deregulation”, imposta dalla globalizzazione informatica, che sembrerebbe essere principio di pluralismo, sotto la stessa anarchia relativistica precedentemente segnalata, si cela in realtà un’operazione di omologazione e di controllo. Non per nulla le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di “mega-corporations”che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e a uso del loro mercato e dei loro interessi) contenuti e dati creando, quindi, nuovi modelli di comportamento e di pensiero. Si assiste, così, a quella che è stata chiamata “una lobotomia sociale”che asporta alcuni valori consolidati per sostituirne altri artificiosi e alternativi. Curiosamente lo storico francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) nella sua opera La democrazia in America aveva previsto per il futuro della società americana un sistema nel quale «il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito vi rientra». Profilo che ben s’adatta all’attuale società informatica. Terzo. Si assiste all’accelerazione e alla moltiplicazione dei contatti, ma anche alla loro riduzione alla “virtualità”. Si piomba, così, in una comunicazione “fredda”e solitaria che esplode in forme di esasperazione e di perversione. Si ha, da un lato, l’intimità svenduta della “chat line”o, per stare nell’ambito televisivo, di programmi del genere Il grande fratello ; si ha la violazione della coscienza soggettiva, dell’interiorità, della sfera personale. D’altro lato, si ottiene come risultato una più forte solitudine, un’incomprensione di fondo, una serie di equivoci, una fragilità nella propria identità, una perdita di dignità.

È stato osservato dal citato Barlow che non appena i computer si sono moltiplicati e le antenne paraboliche sono fiorite sui tetti, la gente si è chiusa nelle case e ha abbassato le serrande. Paradossalmente, l’effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e verso mondi mediatici è stato quello del separarsi gli uni dagli altri e della morte del dialogo nel villaggio.

Di fronte a questo orizzonte così problematico, forte può essere la tentazione dello scoraggiamento e dell’atteggiamento rassegnato o dimissionario, nella convinzione dell’inarrestabilità di un simile processo destinato a creare un nuovo fenotipo antropologico. Non è raro il caso di chi si rinchiude nel suo piccolo mondo antico, accontentandosi di seguire le regole del passato, deprecando le degenerazioni dell’era presente. Pastoralmente non mancano fenomeni di rigetto e di ricorso ai tradizionali canali di comunicazione, collaudati per una società agricola o paleoindustriale o proto-urbana. Tuttavia, si può essere d’accordo col filosofo e sociologo francese Edgar Morin il quale -pur osservando che i nuovi mezzi sorti per distinguere la realtà dalla manipolazione e la verità dalla menzogna, come la fotografia, il cinema e la televisione, sono stati usati poi proprio per favorire l’illusione, la manipolazione e la menzogna – è convinto che la nuova comunicazione possa generare una realtà più ricca e complessa e persino più feconda anche umanamente.

Il realismo della conoscenza e della critica non giustifica, allora, il pessimismo dell’impegno. E questo vale maggiormente per il credente e per il pastore. Le sfide sono forti, rischiose e pericolose, ma proprio per questo esigono fede e coraggio. È significativo notare che è proprio il magistero della Chiesa nella sua espressione più alta ad avere costantemente invitato la comunità cristiana a non adottare un isolazionismo protettivo, ma a entrare in questo che è «il primo areopago moderno», come aveva fatto Paolo ad Atene (Atti 17, 22-32). È noto che questa frase appartiene all’enciclica Redemptoris missio del 1990. In essa Giovanni Paolo II riconosceva che ormai è in corso una «nuova cultura»: essa nasce, «prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi messaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici». Il Papa, anzi, era convinto che questa cultura «sta unificando l’umanità rendendola – come si suol dire -“un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi. […]. È, allora, necessario integrare il messaggio cristiano in questa “nuova cultura”creata dalla comunicazione moderna» (n. 37).

Già Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, segnalando i fattori che avevano causato una «rottura tra Vangelo e cultura» (n. 20), uno iato dai risvolti molteplici non solo comunicativi ma anche artistici, musicali, sociali e culturali in senso generale, non esitava ad ammonire che «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al Signore se non adoperasse questi potenti mezzi» (n. 45). E se risaliamo allo stesso Concilio Vaticano II, ritroviamo intatto l’appello a riconoscere che gli strumenti della comunicazione sociale «contribuiscono mirabilmente a sollevare e ad arricchire lo spirito e a diffondere e a consolidare il Regno di Dio» (Inter mirifica n. 2). Paolo stesso aveva attuato il primo grande progetto di inculturazione del cristianesimo, ricorrendo a un linguaggio e a un’attività missionaria pronta a usufruire delle risorse offerte dalla cultura greco-romana, dalle sue tecniche oratorie, dalle vie di comunicazione dell’impero, dagli ambiti della polis e dalla forza della parresía, la libera diffusione del pensiero.

Anche se non è legge costante, il mezzo è di sua natura neutro e viene specificato dal soggetto umano che lo adotta e usa, dalle sue intenzioni morali e dalle sue finalità.

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Gianfranco Ravasi è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Già prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, autore di numerose pubblicazioni e apprezzato anche per i suoi interventi televisivi su temi o testi biblici, ha collaborato con diversi quotidiani e riviste divulgative e scientifiche.