Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” 

I suicidi delle persone rovinate dalla crisi, diversi tra loro, hanno in comune un elemento: la convinzione che “non farcela” sia una colpa, una lesione della dignità personale, come ha scritto Paganelli. Un’idea comprensibile, ma sbagliata, che genera gesti rinunciatari e autodistruttivi. È necessario che autorità e media la smentiscano con chiarezza.
Nell’economia di mercato affrontare il rischio d’impresa è una virtù, di cui lo Stato riconosce la dignità profonda, comunque vada.
Lavoratori ed imprenditori sono i veri eroi della Repubblica “fondata sul lavoro”, come dice la Costituzione. La loro qualità sociale non è condizionata all’esito positivo dei bilanci, ma deriva dall’aver scelto l’attività sulla quale si fonda il funzionamento di gran parte della società moderna: il lavoro in azienda, piccola o grande, con le sue fatiche e i suoi pericoli. Sia il rischio di un’impresa, anche piccola, sia quello che si assume il prestatore d’opera.
Anche chi cerca una lavoro, senza trovarlo, è un dignitoso lavoratore, anche se al momento sfortunato.
Questi aspetti però, che sono ovvii in società più dinamiche (non solo quelle anglosassoni, dove fanno parte dell’epica e dei miti nazionali, ma anche nei paesi emergenti), vengono molto meno sottolineati nella nostra attuale cultura. Il conflitto (forte già subito dopo la Liberazione) tra le culture favorevoli all’economia di mercato e quelle che preferivano un’economia controllata dallo Stato, non ha consentito che l’assunzione del rischio d’impresa venisse valutato anche nei suoi aspetti eroici: l’imprenditore era bravo solo se vinceva, riusciva. Allo scacco non veniva riconosciuta nessuna qualità: neppure l’impegno, neppure l’intuizione (magari geniale, e poi valorizzata da un altro).
Questa visione indifferente verso la funzione sociale dell’impresa, che per essere positiva doveva per forza avere successo, ne ha tra l’altro indebolito la vitalità, spingendola spesso a rifugiarsi tra le mille braccia dello Stato, alla ricerca di improbabili sicurezze. Ha indebolito però anche il lavoratore, che ha faticato più che in altri paesi, anche nei periodi favorevoli, a partecipare personalmente al successo ma anche al rischio dell’impresa, rimanendo intrappolato nella ricerca di una sicurezza impossibile, che toglieva forza a entrambi, imprenditore e lavoratore.
Dagli anni 80 in poi, inoltre, l’intrinseca dignità del lavoro è stata del tutto soverchiata dal mito del successo e dell’arricchimento non stop, che ha finito con l’intossicare la vita non solo degli italiani, ma di buona parte del mondo occidentale. Basato su una sciocchezza economica (la fine delle fasi recessive e l’ormai raggiunta possibilità di sviluppo continuo), il mito del successo garantito dal denaro ha un posto centrale nella gran parte delle nevrosi contemporanee.
Nelle fasi di crisi, dopo periodi di ricchezza prolungata artificialmente (attraverso lo sviluppo del debito), la comparsa improvvisa dell’insuccesso e della povertà assume un aspetto catastrofico, che toglie ogni capacità di orientamento, e cancella ogni autostima.
La mancanza di una cultura francamente positiva verso l’imprenditorialità e i suoi connaturati rischi, e la visione della vita deformata dal mito del successo e dell’arricchimento infinito, amplificano le difficoltà implicite nella crisi e impediscono alle persone di reagirvi con un atteggiamento psicologico costruttivo.
Su questi piani è indispensabile un accurato lavoro, forse poco “tecnico”, ma di comunicazione e trasmissione culturale, per evitare una “depressione di massa”, con esiti non prevedibili.