Quando si pretende di illuminare certi misteri dell’esistenza con riflettori tanto violenti quanto inefficaci e ideologici, difendere la sacralità della persona è un dovere, non un “imperio”, come ha scritto Panebianco

Per secoli morire ha significato perdere il soffio vitale: uno specchietto che non si appannava di fronte alla bocca era il segno inequivocabile della morte. Poi, con la scoperta della circolazione del sangue, l’arresto cardiaco è divenuto la prova della morte. E, a ben vedere, questo resta il criterio più corretto e indiscutibile: è noto che un arresto cardiaco anche di breve durata può compromettere irreparabilmente il cervello e anche altri organi e, se il tempo di arresto si prolunga, nulla può salvare la persona dalla morte. Ma da quando la medicina ha appreso ad agire sempre più efficacemente nella fascia ristrettissima di tempo antecedente la morte irreversibile e da quando è iniziata l’era dei trapianti, quel criterio troppo netto e radicale non poteva più essere accettato ed è subentrato il criterio della “morte cerebrale”, ovvero una definizione dello stato di “morte” che rende possibile e lecito espiantare gli organi di una persona.
Le pratiche mediche sempre più sofisticate e “accanite” in quella ristrettissima zona prima preclusa ad ogni intervento esterno hanno prodotto situazioni inedite, spesso drammatiche e difficili, e hanno sollevato non poche questioni etiche che la scienza è impotente a risolvere, perché non è in grado neppure di comprenderne le radici. Quando ci si avventura in quella zona si è costretti a trattare i problemi della mente e della coscienza. È sconcertante assistere alla leggerezza con cui questi problemi vengono affrontati in termini di funzioni cerebrali, quando è evidente – fosse anche per una provvisoria incapacità della scienza – che l’attività mentale deborda da ogni lato quella cerebrale. Se dico «voglio morire», nessuno sa spiegare come questo concetto verrebbe generato da processi fisici cerebrali. Pertanto concetti come quello di «stato minimo di coscienza» sono delle bestialità da ogni punto di vista, incluso quello scientifico. Si tratta di convenzioni che servono solo a governare processi che non siamo in grado di definire e comprendere, e che escono dal campo dell’umano per entrare in quello della rappresentazione formale della vita.
Pertanto, sono pienamente d’accordo con Giuliano Ferrara quando scrive che «il codice deontologico dei medici, le giuste regole contrarie all’accanimento terapeutico e all’abbandono o desistenza terapeutica, interpretate con discrezione e amore, caso per caso, sono una soluzione incomparabilmente migliore della guerra delle sentenze e delle leggi», e quando lamenta che la zona grigia – che è proprio quella di cui parliamo sopra – sia stata invasa «manu militari» da operazioni ideologiche violente. Angelo Panebianco trova contraddittoria la difesa della zona grigia con «l’imperiosa riaffermazione della difesa della sacralità della vita». Ma a me pare che egli non si avveda che la zona grigia esiste proprio nella misura in cui le si riconosce una caratteristica di mistero, di qualcosa che non può essere completamente illuminato e che chiede rispetto: appunto, il rispetto della vita umana che noi, con le nostre modeste conoscenze, tentiamo di praticare con di-screzione e amore. Ma quando si pretende di illuminare questa zona con riflettori tanto violenti quanto inefficaci, malgrado la loro pretesa di onnipotenza, per trattare la persona come un meccanismo, da accendere e spegnere secondo le convenienze, e non come un essere umano, allora le cose cambiano. In tal caso, difendere la zona grigia non ha nulla di «imperioso». È, al contrario, l’estremo tentativo di salvaguardare la dignità della persona umana contro la pretesa violenta di trattarla come una macchina in nome di princìpi che nascondono la loro natura ideologica dietro il manto della “scienza”.

di Giorgio Israel da Tempi