di Giovanni Gennari
Tratto da Il Giornale del 2 febbraio 2010

Leggo a pagina uno de «il Giornale» di oggi, 1º febbraio 2010, un titolo che mi fa pensare al 1º aprile: un pesce d’aprile mascherato… No. Roba seria: «Lasciate morire i ragazzi in coma».

Forse il titolo è messo apposta per sorprendere, ma ho un brivido nella schiena. L’autrice, leggo, è una parlamentare del Pdl e medico, e parla senza mezzi termini partendo dalla vicenda di Eluana Englaro e altre di cronaca. Caspita che sorpresa! Sì, ma io che c’entro? Leggo e capisco oggi, 2010, che debbo solo ringraziare il cielo di non aver incontrato un medico così, e di non averlo incontrato ai tempi in cui il Parlamento era ben diverso da quello di oggi. Infatti io c’entro. Agosto 1956, 53 anni orsono, sedicenne mi ammalo e i medici diagnosticano «tifo». Dopo qualche giorno di febbre altissima e vaneggiamenti un medico amico dei miei, Virgilio Maccone, capita per caso a casa mia, e da tisiologo esperto – era primario al Forlanini di Roma – intuisce che in realtà è meningite tubercolare, malattia allora mortale o devastante per sempre. Trasportato d’urgenza in ospedale, al San Camillo di Roma, il primario, professor Pennacchio, non vorrebbe accogliermi – «mi portate un morto!», dice, ma allora non poteva rifiutare il ricovero – non c’era ancora, come non c’è finora, una legge alla Melania Rizzoli – e mi fa entrare giocoforza e a malincuore, ordinando per puro scrupolo una iniezione al giorno di streptomicina, e qualche puntura lombare che doveva servire a far uscire il liquido encefalorachideo infetto che premeva sulle meningi. In attesa di un ricovero nel reparto del Forlanini – per ragioni burocratiche servivano documenti particolari – mia madre mi cura di nascosto, su ordine del professor Maccone, con supplemento di due iniezioni al giorno, e per questo «ruba» letteralmente di nascosto le siringhe bollite – allora non c’erano quelle sterili in vendita – sotto gli occhi delle infermiere. Dopo un mese vengo trasferito al Forlanini, e seguono nove mesi di degenza, i primi sei di incoscienza totale, in cui sopravvivo con fleboclisi e 240 lombari di streptomicina e cortisone. La terribile malattia mi porta prima a pesare 24 chili e dovrebbe lasciare segni permanenti, ma passa. Poi la ripresa e la vita. Una fortuna la mia! Se ci si fosse fermati? Se con la pietosa ricetta dell’onorevole Rizzoli avessero «lasciato morire» questo “ragazzo in coma”? Qualcuno può anche pensare che sarebbe stato meglio, ma sarà permesso dissentire di persona, e democraticamente? Del resto, cara onorevole Rizzoli, negli anni successivi, e per ragioni tutte mie, ho avuto una lunga esperienza di vicinanza ai malati terminali. Oltre a quelli in coma ho assistito una cinquantina di morenti, fino alla fine, e mai nessuno ha chiesto di morire. Tutti – tutti! – hanno chiesto di star loro accanto. Una frase tornava sempre, più o meno identica: «Se mi tieni la mano non ho paura». Quanto alle vicende Englaro, Welby e Crisafulli, da cui parte la Rizzoli, sicuro che serve una legge, che aprirebbe la via a tutti i «professor Pennacchio» del San Camillo, quello che 53 anni orsono mi aveva giudicato «morto», e non voleva curarmi? Casi ciascuno diverso. A ciascuno, da medici e famigliari, una risposta diversa, e nessuna – almeno per legge! – che voglia togliersi l’impaccio di una vita detta «inutile».