di Giuliano Ferrara

Che cosa vogliamo vendicare quando parliamo in libertà di deportazione di un’etnia nell’Europa di oggi? Da quale segreta pulsione viene questo linguaggio offensivo dell’intelligenza, della morale e dell’onore, che riempie della tragica memoria della Shoah l’aria vuota della retorica umanitarista? Si tratta di 1.700 rimpatri via aerea con rimborso, effettuati per smantellare campi abusivi in un paese abitato da 400.000 rom assistiti dal sistema di welfare, gruppi di zingari sono andati in Francia da altri paesi per avere un passaggio pagato verso i paesi d’origine: è un sacrificio genocida, è lo sterminio rituale e industriale d’un popolo in nome del razzismo biologico, di una pretesa di superiorità negatrice di Dio? Come è possibile che gente in perfetta buona fede, e non stupida, porti fino al grottesco più deformato quella che dovrebbe essere una calma e razionale visione delle cose?

Si può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera? Si può assistere moralmente sordi a un sacrificio umano di quelle proporzioni, milioni di aborti che inseguono altri milioni di aborti, e bonificare la propria anima con la sollecitudine per i nomadi? Si può provare commozione per i respingimenti dei migranti quando respingere, abbandonare, negare, oltraggiare le attese di carità e di amore è diventato il tran tran del modello moderno prevalente di famiglie e coppie e amori in cui la ricerca soggettiva del piacere è l’unica regola? Si può cercare Cristo nei povericristi, e la persona umana nel nomadismo martire, quando il racconto cristiano è irriso e marginalizzato nelle idee, nella cultura, nella comunicazione via radio, tv e giornali? Insomma: c’è una sproporzione a suo modo eloquente, ma che rende necessaria una spiegazione del fenomeno, tra il cinismo su una natura umana considerata senza legge, senza protezione di diritti non negoziabili, e il ghigno umanitario con il quale le classi dirigenti di mezza Europa esprimono lo sdegno per un lapsus etnicista in una circolare ministeriale del governo di Sarkozy.

La sacrosanta condanna del razzismo prende toni ipocondriaci, si allarga alla proibizione di nominare in un qualunque senso popoli, costumi, tipicità, ché in tutto si vede il germe della violazione dei diritti umani universali. Se dici che gli zingari sono strepitosi suonatori di violino, sei già un razzista. Se mostri predilezioni nazionali, sei fuori dallo schema asettico di un’Europa algida, afasica, senza radici, che si riconosce nelle direttive della Unione più che nella sua ritrattistica letteraria, nei suoi proverbi, nelle sue verità ancestrali, nel suo passato.

Solo un immenso senso di colpa può spiegare l’ottusità umanitaria dilagante. Abbiamo l’oscura percezione di un limite superato. Newman diceva che il cristianesimo sopravviverà finché ci sarà una natura umana. E proprio quella natura sembra essere messa in discussione nel parco buoi dell’ingegneria genetica, nelle nuove abitudini riproduttive e nell’idea stessa di “salute riproduttiva e sessuale”. In cambio di tanta discesa agli inferi, cerchiamo nella benevolenza che non costa, perché spesso a spese di poveracci delle periferie urbane, una compensazione psicologica e morale. Gli zingari deportati, appunto.


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