di Don Antonello Iapicca

Lc 9,28-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.


IL COMMENTO

“Non sapeva che cosa dire”. La paura  che ci attanaglia di fronte all’abisso della nostra debolezza, dell’assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinnanzi e ci lascia di sasso. Infilzati alla paura. La sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni. La paura che ha intontolito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato.

Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d’una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico. Impressionante. Uno squilibrio, un miracolo, s’era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Signore consegnò la Torah a Mosè. Il cielo sulla terra, avevano visto Dio, ed erano vivi.

E allora subito tre tende, coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita, come nella festa di Succot, issare le capanne, le tende quale segno della permanenza del popolo nel deserto, quando, tra una mormorazione e l’altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l’incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua.

Era stupendo quel momento, la Vita brillava tra i confini angusti di un corpo corruttibile. Come le icone orientali, la cui luce promana dal centro del dipinto e ti attira, e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, e ti fa interlocutore per lo squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione. “La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell’arte cristiana, c’introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque la contemplazione, che si dà nell’ascolto e nella visione, in una parla, nell’esperienza. Sperimentare il perdono, la rconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell’episodio della Trasfigurazinone è svelato dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell’esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato. La luce della Pasqua nelle tenebre del sepolcro, lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svela così attraverso la Parola, ovvero la stoltezza della predicazione del Vangelo.

Il Vangelo è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime. Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E’ la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza.

Stiamo andando a Gerusalemme. Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l’annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: per noi è preparata la vita che non muore, abbiamo in noi il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la Sua stessa vita. E questa vita è la Parola del Vangelo, la buona notizia dell’amore infinito di Dio che risplende nel Suo mistero pasquale.

La nostra vita trasfigurata è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze. Nel parallelo del Vangelo di Matteo Gesù dice ai discepoli: “ALZATEVI, NON ABBIATE PAURA”. Il Suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza. La luce della vita immortale, brilla in noi dalla ferità più infamante, il Suo perdono dov’è abbondato il peccato.

E’ questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l’esistenza più compromessa. La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita. E’ la bellezza. E’ bello stare con il Signore, proprio come diceva Pietro, e noi, nell’esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perchè stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce. E anche dallo scorrere delle lacrime, di compunzione, di tenerezza, quelle che scoccano nell’incontro con un amore così grande, così bello. Dice sant’Efrem: “Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura”.

E’ bello davvero stare con Gesù, anche in questa tenda che è la nostra carne, con le sue debolezze, con le pesantezze di ogni giorno. E’ bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, il luogo che Lui ci ha preparato. Essa è la tenda eterna, non fatta da mano d’uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente.

Comprendiamo così quale sia il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l’esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costelato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di chi ha il cuore ferito dall’amato. Cabasilas (ca. 1320-1391) scriveva infatti: i cristiani sono «…esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all’uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l’intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo»

Questa intuizione è l’esperienza della Trasfigurazione, quella che ci attende ogni giorno. E’ vero che seguire il Signore è esserne con Lui crocifissi, portando la nostra croce. E’ vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E’ vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: “Nella passione di Cristo… l’esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’ Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l’estrema “affermazione” del mondo… Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’ Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza).
La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza, la nostra bellezza.