di Antonio Carriero
Tratto da Avvenire del 10 novembre 2010
Mentre lo ‘scambio di favori’ tra cinema e letteratura fantasy si fa sempre più intenso, si rinnova l’appuntamento con il settimo episodio ispirato alla celebre saga che ha per protagonista il giovane mago Harry Potter, con un incasso di 5,7 miliardi di dollari alle spalle. Il regista, David Yates, noto per aver già diretto due pellicole della serie, rivela che il nuovo episodio, ‘Harry Potter e i doni della morte: parte I’, nei cinema dal 19 novembre, sarà ‘più calato nel reale’ con l’inseparabile trio di amici, Harry, Ron e Hermione, impegnato nel nostro mondo, privo di magia, nella ricerca degli ultimi ‘Horcrux’ da distruggere, oggetti magici nei quali l’oscuro mago Lord Voldemort ha nascosto parti della sua anima per garantirsi l’immortalità. Sarà dunque, come non lo è mai stato prima, una vera e propria ‘parabola’ per l’uomo postmoderno, in cui i concetti morali e religiosi, come spesso accade nelle grandi storie, sono espressi con delle immagini e personaggi. Tra i temi dominanti di questo settimo appuntamento, emergono il ruolo della magia (che ha diviso letteralmente la critica), il mistero della morte e il vero senso dell’immortalità. Innanzitutto, per comprendere la vera magia intesa dall’autrice, bisogna far capo a due grandi autori del genere, dei quali, essa, un tempo, si era detta debitrice.
Il primo, C. S. Lewis, autore delle ‘Cronache di Narnia’, affermava che «esiste una magia più grande di quella di stregoni e indovini». La lotta tra Aslan (figura di Cristo, il leone di Giuda) e Jadis (figura di Satana), non è una sfida tra due tipi di magia, una buona e una cattiva, ma c’è da una parte la magia oscura e innaturale della Strega, dall’altra una ‘realtà’ più profonda, più consistente e vera, che si rivela più vincente, cioè l’amore. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo anche J. R. R. Tolkien, che con ‘Il Signore degli Anelli’ desiderava incoraggiare i buoni principi morali attraverso rappresentazioni di elfi, nani e troll, per accertarsi che li comprendessero anche i piccoli. Ed è quanto, modestamente, ha cercato di fare anche la Rowling con il suo Harry Potter, dove la magia più grande è appunto l’amore e non la magia oscura.
Quell’amore che, come spiega il preside Albus Silente a Harry, sul finire del settimo volume, Lord Voldemort «non si dà la pena di comprendere». Egli è convinto invece di possedere tutto il potere magico possibile, ma ignora «che tutti hanno un potere che va oltre il suo, oltre la portata di qualunque magia, una verità che non ha mai afferrato». Voldemort non sa da dove viene e dove va, ma vive l’oggi costruendosi bisogni nuovi incarnando lo spirito del Faust. È l’uomo che, in fin dei conti, ha perso Dio e perciò non conosce più nemmeno se stesso. Così, egli ha una folle paura della morte (dopo la quale vede solo il nulla) e un’ossessiva ambizione a raggiungere l’immortalità! Ma un diverso senso di ‘immortalità’, l’autrice lo dà fra le righe del romanzo, ricorrendo alle parole di san Paolo contenute nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 26), «L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte», incise sulla tomba dei genitori di Harry. Albus Silente, in un luogo intermedio tra la vita e la morte, spiega al giovane mago che il vero padrone della morte non è colui che cerca di sfuggirle, ma colui che accetta di dover morire. È questo il passaggio per la vita eterna. Nel mito di Harry Potter dunque si può riscontrare una lettura sapienziale dell’epoca che stiamo vivendo. Non è il potere, non è il successo, non è la vita facile che porta alle gioie più vere e più profonde, ma la sola amicizia, il dono di sé, il sacrificio, l’adesione a una verità non costruita a immagine dell’uomo stesso.