In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace. Voi avete inviato messaggeri da Giovanni ed egli ha reso testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi. Egli era una lampada che arde e risplende, e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce.
Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato.
Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita.
Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste. E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?
Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza. Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”.
Il commento di don Antonello Iapicca
Paura di non essere. E’ impossibile sopportare d’essere senza identità, e scorrere sui giorni come i titoli di coda di un film che nessuno legge mai. Bisogna assolutamente escogitare qualcosa per essere protagonisti e conquistarsi un ruolo, come gli animali che delimitano il proprio territorio. Come per un rapito, dobbiamo esibire una prova che siamo ancora vivi, altrimenti chi pagherà mai il riscatto per noi? Ma tutto quello che ci agita per cercare di essere è pura vana-gloria: “La vanità, il vantarsi di se stessi, è un atteggiamento della mondanità spirituale, che è il peccato peggiore nella Chiesa. La mondanità spirituale è un antropocentrismo religioso che ha degli aspetti gnostici. Chi cede a questa vanità autoreferenziale in fondo nasconde una miseria molto grande” (Card. J. Bergoglio – Papa Francesco I). Dietro ad ogni atteggiamento fondato sulla vanagloria si nasconde l’eresia gnostica, “inversione che è perversione della fede, autocelebrazione dell’uomo” (De Lubac). Spesso anche noi, come i giudei, prendiamo gloria gli uni dagli altri, cerchiamo testimoni a favore nel lungo processo al nostro vuoto. Ma si tratta di false testimonianze, tutte carnali. Certezze biologiche, che durano lo spazio d’un mattino. Un raffreddore, una contraddizione e tutto crolla, e allora violenza o depressione e angoscia e morte anticipata nell’alienazione quotidiana. Senza l’amore di Dio dentro, unica consistenza che dia valore alla vita, senza il suo amore a testimoniare l’unicità di ciascuno di noi, tutto è vanità. “Aveva ben ragione san Girolamo di paragonare la vanagloria all’ombra. Difatti l’ombra segue dovunque il corpo, ne misura persino i passi. Fugge questo, fugge anche lei; cammina a passo lento, anche lei a lui si uniforma; siede ed anche allora prende la stessa posizione. Lo stesso fa la vanagloria, segue dovunque la virtù. Invano cercherebbe il corpo fuggire la sua ombra, questa sempre e dovunque la segue e le va appresso” (Padre Pio da Petralcina, Ep.I, 398). La vanagloria è un’ombra di morte, il ripiegamento orgoglioso su se stessi che impedisce la fede. Spesso, di fronte ad eventi che ci scandalizzano, che ci mettono alla prova, ci scopriamo increduli; proprio la vanagloria è, infatti, l’antidoto più efficace alla fede: “E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?”. S. Bernardo la descrive come “male sottile, segreto veleno, peste occulta, artefice d’inganni, madre dell’ipocrisia, dell’invidia, sorgente dei vizi, fomite di delitti, ruggine delle virtù, verme roditore della santità, accecamento dei cuori, che cambia i rimedi in malattie e fa della medicina una causa di languore” (Serm. VI. in Psalm). Non può credere chi cerca, dagli e negli altri, nella carne, la gloria – il peso, il valore, la consistenza della propria esistenza, secondo l’etimologia del termine greco dóxa e di quello ebraico “kavod”. Grava su di lui la maledizione descritta dal profeta Geremia: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere” (Ger. 17, 5 ss). Due amici che fondano la propria relazione sulla vanagloria si ritroveranno con odio e invidia; così due sposi, o due fidanzati, se cercano nell’altro il proprio essere, non avranno che gelosia e rancore. Così sul lavoro, a scuola, nello sport e nello svago, anche nella Chiesa. Ogni relazione regolata dalla vanagloria è destinata a diventare una terra dove il sale uccide la vita. Soprattutto, chi pone la sua gloria nella carne “non vedrà venire il bene”, non riconoscerà Gesù negli eventi e nelle persone, le “opere” del bene che trascende la soddisfazione delle concupiscenze che si cela nella storia, e quindi “non potrà credere in Colui che lo ha inviato”. Nelle situazioni difficili, nelle prove della vita, quando l’amico mostrerà la sua debolezza, quando lo sposo tradirà le attese, quando la fidanzata entrerà in crisi, quando la croce si farà presente, fuggirà nascondendosi nell’inganno della propria carne, delle sue passioni, dei suoi desideri, per sperimentare la morte. La vanagloria, infatti, chiude la porta al Messia, e la apre ai falsi profeti, a chi viene alla nostra vita “nel proprio nome”: il marito, la moglie, il fidanzato, la fidanzata, i figli, gli amici, i fratelli. Li accogliamo come i salvatori della nostra povera vita, attribuiamo loro la gloria riservata a Dio, sperando di essere contraccambiati con la stessa gloria; ci nutriamo di cibo avariato che avvelena lentamente l’anima, il cuore e la mente. Schiacciati su un orizzonte puramente carnale, idolatriamo le creature dimenticando il Creatore, annegando nella superbia che ci fa dio senza esserlo: “La superbia, come la radice di tutti i peccati, è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere” (Benedetto XVI, Lectio divina con i parroci di Roma, 23 febbraio 2012).