Lo presentano come la punta di diamante della sanità inglese, ma il protocollo Liverpool di cure palliative apre all’eutanasia. E abbatte i costi dell’assistenza (insieme ai malati terminali) • E in Italia sinistre e finiani chiedono un biotestamento più “britannico”
di Rodolfo Casadei
Tratto da Tempi del 2 dicembre 2009

Ha quasi 81 anni, si chiama Hazel Fenton e doveva essere morta dieci mesi fa, quando i medici del Conquest Hospital di Hastings le hanno negato per dodici giorni di seguito l’alimentazione artificiale e sospeso la terapia antibiotica, certi che alla signora, ricoverata per una polmonite acuta, restavano pochi giorni da vivere. La forte fibra e l’insistenza della figlia l’hanno salvata: le cure sono state riprese e la donna oggi vive, il Times ha raccontato la sua storia. Un destino differente è toccato alla sorella della signora Marie Mcmanus Muir, londinese: ricoverata in una casa di cura a causa della sclerosi multipla di cui soffriva da anni, dopo alcuni mesi di declino fisico è stata privata di cibo e acqua e sottoposta a infusione permanente di morfina nonostante la contrarietà della sorella; dopo una settimana è deceduta. A metà strada fra i due il caso del 95enne Eric Troake, ricoverato al Frimley Park Hospital nel Surrey dopo un ictus. La figlia, Rosemary Munkenbeck, ha denunciato sui giornali che a suo padre è stata interrotta per cinque giorni la somministrazione di tutti i fluidi, medicinali e per idratazione; è sua convinzione che sia stato fatto con l’intenzione di accelerarne la dipartita. «Abbiamo fatto le nostre rimostranze e questo a loro non piace», ha detto la figlia. «Dicono che mia sorella ed io siamo crudeli perché ci aggrappiamo alla vita di nostro padre. Ma quest’uomo ha diritto a vivere: non ha una malattia in fase terminale, ha solo patito un ictus. Vogliamo proteggerlo. Abbiamo la sensazione che abbiano deciso fin dall’inizio di “scartarlo” perché ha 95 anni».

In Inghilterra i casi veri o presunti, tentati o riusciti di eutanasia come i tre sopra citati vanno sotto un nome e una sigla che per alcuni incarnano l’eccellenza della sanità pubblica britannica, per molti altri rivelano la congenita inclinazione delle autorità per la neo-lingua orwelliana: Lcp, Liverpool Care Pathway, ovvero Percorso di cura di Liverpool. Si tratta di un modello di assistenza che indica le cure che un paziente dovrebbe ricevere negli ultimi giorni di vita per soffrire il meno possibile. È stato creato dal Marie Curie Palliative Care Institute di Liverpool, che lo definisce (traduzione letterale) «un percorso di cura integrata utilizzato al capezzale per incrementare un’elevata qualità del morente nelle ultime ore e giorni di vita». Dal 2004 è raccomandato dal National Institute for Health and Clinical Excellence (Nice), l’authority nazionale per la qualità dell’assistenza sanitaria. Infatti è stato adottato da 300 ospedali, 130 ospizi e 560 case di cura. Descritto in poche parole, l’Lcp consiste nel sospendere la somministrazione intravena di alimentazione e medicinali al paziente e sostituirla con un’infusione permanente di morfina. Per i parenti di molti ricoverati anziani e non solo anziani l’Lcp è una sorta di sentenza di morte pronunciata da medici e infermieri che non hanno più voglia di occuparsi del loro caro o che sono stati incaricati di realizzare risparmi sulle spese sanitarie. Patricia Cooksley, una lettrice del Daily Telegraph ex infermiera che ha visto morire uno zio 81enne malato di cancro dopo 11 giorni di disidratazione e somministrazione continua di morfina, in una lettera al quotidiano l’ha definita “licenza di uccidere”.

Finché a lamentarsi erano singoli cittadini, la cosa è passata sempre in cavalleria. Ma all’inizio del settembre scorso a incendiare il dibattito ci ha pensato un gruppetto di esperti comprendente docenti universitari di geriatria, consulenti di medicina palliativa e anestesisti che ha scritto al Daily Telegraph una lettera collettiva per denunciare diagnosi di morte imminente errate ed eccessiva fretta da parte di strutture ospedaliere e case di cura nel sospingere i pazienti a compiere passi senza ritorno sul Percorso di Liverpool. «Un approccio modulistico alla gestione della morte sta provocando una crisi nazionale nell’assistenza», scrivono i firmatari dell’appello. «Se si barrano tutte le caselle giuste del Liverpool Care Pathway, il risultato inevitabile del trattamento è la morte. Un’ondata di scontento si sta diffondendo fra gli amici e i familiari che osservano come siano negati fluidi e cibo ai pazienti. Vengono applicati microinfusori per la somministrazione continua di sedazione terminale, senza preoccuparsi del fatto che la diagnosi potrebbe essere errata». Stavolta le reazioni ci sono state. Un portavoce del ministero della Sanità ha precisato: «L’Lpc è uno strumento istituzionale e raccomandato che fornisce agli operatori un protocollo basato su dati di fatto per aiutarli a fornire assistenza di alta qualità alle persone che sono alla fine della loro vita. Stiamo investendo 286 milioni di sterline per il biennio 2010/11 per sostenere l’implementazione della End of Life Care Strategy, per migliorare l’assistenza di fine vita a tutti i pazienti adulti».

Morire col minor disagio possibile
Secondo Sharon Cusack, un’operatrice familiare con l’Lpc, esso «raccomanda che il riconoscimento che una persona sta per morire non sia la decisione di una persona, ma dell’intera équipe responsabile dell’assistenza al paziente e della famiglia. Se ci sono obiezioni, l’Lpc non dovrebbe essere imposto. Le condizioni del paziente devono essere monitorate continuamente. Se si percepisce che le sue condizioni sono migliorate, i trattamenti precedenti devono essere reintrodotti. L’Lcp non è uno strumento per l’eutanasia, ma per aiutare le persone a morire con dignità». Concetti simili a quelli espressi dal portavoce del Frimley Park Hospital dopo le proteste della signora Munkenbeck: «A volte trattare attivamente un paziente che sta morendo può prolungare senza necessità le sue sofferenze. La decisione di sospendere un trattamento è presa solo dopo attenta considerazione da parte di un team multidisciplinare di clinici, consultando la famiglia e, quando è possibile, il paziente. Prendersi cura di lui può implicare l’applicazione del Liverpool Care Pathway. Questo protocollo permette ai pazienti di affrontare il morire con il minor disagio e con la maggiore dignità possibili, nel mentre che ricevono appropriata assistenza personalizzata».

Belle parole, ma molti parenti di malati indirizzati sull’Lcp dalle équipe di ospedali e ricoveri smentiscono vigorosamente che le cose vadano in questo modo. A ciò si aggiunge il fatto che nessuno fino a questo momento ha potuto confutare un dato che i firmatari dell’appello apparso sul Daily Telegraph hanno evidenziato, e cioè che nel biennio 2007/08 il 16, 5 per cento di tutti i decessi nel Regno Unito è avvenuto dopo sedazione terminale: una percentuale doppia di quella registrata in paesi come Belgio e Olanda, dove esistono legislazioni che autorizzano l’eutanasia. «Mia madre sarebbe stata lasciata morire di fame e di disidratazione. È davvero un sotterfugio per l’eutanasia legalizzata degli anziani all’interno dell’Nhs (il servizio sanitario nazionale britannico, ndr)», protesta la figlia della signora Hazel Fenton, cui un giovane medico subito dopo il ricovero della madre avrebbe detto che costei sarebbe stata avviata all’Lcp, mentre un’infermiera le avrebbe chiesto «Che cosa vuole fare col corpo di sua madre?». «La decisione di sospendere alimentazione e fluidi a mio fratello, che al momento era perfettamente lucido, e di somministrargli morfina con un microinfusore ha compromesso la funzionalità renale e causato una dolorosa infezione dei reni con febbre alta», scrive un lettore del Daily Telegraph che si firma Alex.

«Mia sorella ed io siamo rimasti scandalizzati per le condizioni in cui mio fratello è stato ridotto a causa delle inadeguate spiegazioni date a lui e a sua moglie intorno alle cure palliative. Non essendo i suoi parenti più stretti, siamo stati esclusi dalle discussioni sul suo trattamento. Circa sei mesi prima avevamo accudito un altro fratello che è morto di cancro in Francia. Il trattamento nei suoi e nei nostri confronti è stato illuminato e umano. Costui è morto con dignità, assistito con gentilezza e superbe cure mediche, l’altro ha sopportato tre settimane di dolore e stress terribili a causa di quello che adesso abbiamo capito essere il Liverpool Care Pathway». «Mio suocero è stato “assassinato” dall’Nhs», scrive un certo Peter. «L’Lpc è stato istigato da un giovane dottore e le flebo di diamorfina e midazolam erano già state iniziate al momento in cui è stata consultata la famiglia. Da notare che nelle stesse note del dottore è stato registrato che mio suocero non presentava dolore né stress psicologico; l’unico scopo delle flebo non poteva essere che quello di accelerare il suo decesso». «La settimana scorsa a mio padre è stato applicato l’Lpc», scrive una certa Katie. «Era entrato in ospedale per le fratture di una caduta, ha sviluppato una polmonite ed è stato portato in rianimazione. Quando si è ripreso i medici gli hanno tolto la ventilazione e lo hanno riportato in reparto. Una volta lì hanno immediatamente deciso di applicare l’Lpc, gli hanno sospeso tutti i fluidi, alimentazione e medicinali. Il protocollo non è stato discusso con noi della famiglia prima di essere avviato. Dopo due giorni papà è morto». Ci sono casi che ricordano quello della signora Hazel Fenton. «A mia zia, che ha 75 anni, è stato diagnosticato un tumore allo stomaco dopo mesi di dolori», scrive Laura R. «È stata mandata a casa accompagnata da due infermiere che dovevano istruire mia cugina a rendere “confortevoli” i suoi ultimi giorni: niente cibo e acqua, ma solo la medicazione che avevano portato per lei. Mia cugina le ha cacciate di casa e quelle andandosene le hanno detto: “Non vivrà più di una settimana”. Sono passati quattro mesi!». Dietro a tutto questo pare stagliarsi una politica di riduzione dei costi della sanità, ispirata dal Nice, l’authority citata all’inizio. Lo scorso agosto l’istituto ha emesso una direttiva nella quale si spiega che i pazienti non devono attendersi che l’Nhs salvi la loro vita se ciò costa troppo.

Risorse limitate, cure “razionalizzate”
Leggere per credere: «Quando le risorse per la sanità sono limitate, applicare la norma del “dovere di salvataggio” (cercare di salvare una persona precisa la cui vita è in pericolo) può significare che altre persone non potranno avere il trattamento o l’assistenza di cui hanno bisogno. Il Nice riconosce che quando prende decisioni dovrebbe considerare le necessità dei pazienti presenti e futuri dell’Nhs, che sono anonimi e non dispongono necessariamente di persone che difendano la loro causa». La base formale per discriminare gli anziani rispetto ai giovani nell’erogazione di cure è gettata, così come per usare l’Lcp come la grande scopa con cui fare piazza pulita dei pazienti che costano troppo. D’altra parte il Nice in questi anni ha definito il limite di spesa pubblica sanitaria al quale ogni paziente avrebbe diritto sulla base dei Qaly, “quality adjusted life years”, cioè l’aspettativa di anni di vita in buona salute. Attualmente il Nice indica un tetto di 25-30 mila sterline di spesa sanitaria per anno di vita in buona salute presumibilmente guadagnato col trattamento. Ovvio che per i malati gravi e anziani, che di anni in buona salute ne possono guadagnare ben pochi, non restino che le briciole. Questa politica è criticata anche dai produttori di tecnologia medica in quanto scoraggerebbe l’innovazione, ma soprattutto dai pazienti, che si sentono sempre più sacrificati alle esigenze del bilancio sanitario. Altro che la regina: Dio salvi i poveri malati inglesi.