di Paola Binetti
Tratto da cronache di Liberal

Il lieto annunzio del Natale ci impone di non tacere quando i diritti dell’uomo sono calpestati, a cominciare dal diritto a vivere in piena libertà la sua Fede e la sua Religione.

C’è qualcosa di profondamente contraddittorio nell’atmosfera del tempo di Natale, qualcosa che quasi per istinto siamo tentati di rimuovere, perché sembra stridere con l’annuncio della pace che gli angeli fanno ai pastori e che trova un’eco immediato nel nostro cuore, assetato di pace e di serenità. È l’episodio drammatico della strage degli Innocenti. La Chiesa celebra la festa dei Santi Innocenti il 28 dicembre, subito dopo la festa di Santo Stefano, il protomartire, lapidato giovanissimo perché testimone convinto ed autorevole della fede. Nella liturgia di questo tempo colpisce come il dramma di questi santi martiri sia accostato immediatamente alla semplicità e alla tenerezza che suscita il Bambino disteso sulla paglia, tra l’affetto dei suoi genitori e la partecipazione degli angeli del cielo e degli uomini, magi e pastori, venuti ad adorarlo. Potrebbe essere faci le farsi prendere dal sentimentalismo, coltivare una idea di fede in cui la nostalgia di un’età dell’oro sembra allontanare tutti i segni della crisi che pure i cristiani sono chiamati ad affrontare con coraggio, a volte fino all’eroismo di un dono di sé che diventa martirio.

Eppure i fatti di questi giorni, il terrore che ha attraversato tutta la Nigeria, facendo nuovi martiri e nuove vittime della fede, sembra evocare con forza quell’odio cieco ed assurdo con cui Erode, tanti anni fa, decretò la strage dei bambini innocenti. Oppure il Mistero della lapidazione di Stefano, colpevole di saper rispondere a tono alle domande che i presunti saggi del suo tempo gli facevano, senza voler affatto capire quale fosse il senso della vita cristiana, la forza dirompente di un messaggio di amore e di fraternità, che pure dovrebbe unire tutti gli uomini, mentre invece per l’avidità di qualcuno minaccia di essere divisivo e conflittuale. Il 26 dicembre la Chiesa ricorda santo Stefano e il 28 i Santi innocenti, proprio nel bel mezzo della settimana di Natale. Una scelta sorprendente, tutt’altra che ovvia e scontata. Una scelta che lega la semplicità del Presepio al dramma della coerenza nella fede, vissuta fino alle estreme conseguenze; non a caso i bambini innocenti uccisi da Erode sono figura e simbolo della morte stessa del Signore. Muoiono per Lui, pur senza saperlo, e lasciano dietro di se il pianto disperato delle madri, che vivono con intensità la sofferenza di un distacco ingiusto e violento. Il senso e il significato di quella violenza inaudita sfugge loro e aggiunge dolore a dolore, come accade in questi giorni anche a noi, quando perdiamo di vista il valore infinito di quelle morti che hanno avuto la Nigeria come sfondo di riferimento. Morti per testimoniare la fede, morti mentre pregavano come segno di speranza, morti per Amore di un Dio che non mancherà di riconoscerli come figli suoi e di concedere loro subito il Paradiso, come luogo in cui si compiono tutte le beatitudini. Il 2011, con tutte le tensioni che lo hanno attraversato, sarà ricordato come uno degli anni in cui la persecuzione contro i Cristiani nel mondo è esplosa con rinnovata virulenza, mietendo vittime colpevoli soltanto della loro innocenza. Vittime della loro fede e proprio per questo colpite nel momento più sacro della vita di un credente, quello in cui è raccolto a pregare da solo o in compagnia dei suoi fratelli nella fede.

Nel Natale di 2011 anni fa c’era scritto anche questo, perché i cristiani non si illudessero che la fede poteva essere un sogno facile, un desiderio dai contorni sentimentalmente sfumati, in un generico afflato di amore verso tutti gli uomi- ni. L’amore del Vangelo è un amore duro e forte, che non concede nulla al consumismo dei sentimenti e mette ognuno davanti alla responsabilità ineludibile della sua fede, continuamente messa alla prova dall’arroganza dei potenti e dalla gestione fraudolenta di un sapere contraddittorio ed amaro.

Davanti alla Chiesa cattolica di Madalla, alla periferia di Abuja, capitale federale della Nigeria, proprio il giorno di Natale, almeno 27 persone sono morte mentre uscivano dalla Chiesa di Santa Teresa, dove avevano partecipato alla Santa Messa. Niente di più facile per colpire i Cristiani che attenderli all’uscita delle funzioni liturgiche, dove vanno con il solo scopo di pregare. È il momento in cui la loro situazione è più simile alla strage dei bambini, voluta da Erode per il solo timore che uno di loro potesse insidiare il suo trono e il suo potere. Colpiti in un momento in cui erano visibilmente inermi, accusati di un reato che non erano assolutamente in grado di commettere. I santi Innocenti, come la Chiesa li chiama e li ricorda, per mantenere viva nella nostra memoria la consapevolezza che si può essere vittime innocenti, quando l’altro persegue la sua ambizione senza limiti di sorta. Boko Haram è il capo di una setta islamica che sta cercando di conquistare il potere in un Paese di 160 milioni di abitanti, musulmani nella stragrande maggioranza, dove comunque il potere è solidamente nelle mani dei musulmani. I cristiani in Nigeria sono piccole minoranze, che ruotano intorno a missionari di diverse famiglie religiose, che cercano in tutti i modi di creare luoghi di formazione e di assistenza; spazi di accoglienza per bambini vittime di una guerra interna fatta spesso di indifferenza e di abbandono. Sono oltre 110 le vittime, ma è difficile sapere perfino il numero esatto, moltissimi i feriti gravi, molte le persone spaventate, e cpn desiderio di fuga da una realtà ostile. I cristiani nigeriani non rappresentano un’elite economica, né politica, ma certamente sono un’elite culturale e spirituale, con quell’insistenza radicata contro la corruzione, che divora tutti gli aiuti che dall’occidente arrivano nel Paese. A Jos, nel centro della Nigeria, i mussulmani sono da tempo in lotta contro i cristiani, ma non è una lotta religiosa. Non sono due Fedi che si confrontano e si combattono, ma una maggioranza di governo che si muove in flagrante conflitto di interessi, lasciando che le ricchezze si concentrino nelle mani di pochissimi, mussulmani in questo caso, lasciando morire di fame e di malattie la popolazione. Urta la loro prepotente meschinità che alcuno, una volta di più si schieri dalla parte di chi non ha e chieda giustizia e pace, rivendichi una più equa distribuzione delle risorse e metta in primo piano i bisogni essenziali della popolazione. Jos è la capitale dello Stato di Plateau, uno stato ricco di risorse naturali, il cui accesso è interdetto alla popolazione, mussulmana e cristiana che sia. Però dal fronte cristiano si alza la voce critica, si mettono in evidenza quei diritti umani che nessuno ha il diritto di calpestare. E questa voce risulta irritante; la verità che ricorda a tutti appare scomoda, e il profeta che se ne fa portavoce deve essere al più presto eliminato, anche se non fa nulla di male. Il male è nel cuore dei suoi nemici che con gesto immediato decidono per una ulteriore strage che colpisce altre 24 persone, anche loro proprio nel momento in cui uscivano dalla chiesa di Mountain of fire. Ma per sentirsi più forti proprio alla vigilia di Natale, contemporaneamente venivano messe in cantiere altre tre stragi potenziali, su cui si è fermata la mano misericordiosa di Dio, impedendo che facessero ancora altre vittime. Boko Haram è solo un piccolo despota che difende un potere che la storia mostrerà nella sua totale inconsistenza. Però ora ferisce ed uccide, senza che si riesca a fermarlo, e come tutti i vigliacchi che si credono forti, colpisce chi non è in grado di difendersi nel momento in cui è più fragile. È un aspetto inquietante di quel mysterium iniquitatis che il Signore è venuto a sconfiggere incarnandosi ed entrando nella storia, ma che ci ha ricordato che sarà sempre in agguato, fin quando il cuore di tutti gli uomini non si sarà convertito.

Nell’omelia di Benedetto XVI del giorno di Natale e in quella già pubblicata che pronuncerà il primo dell’anno, giornata tradizionalmente dedicata alla Pace, ci sono queste feste antiche dei primi martiri della Chiesa e queste vicende tragicamente attuali dei nuovi martiri cristiani. Un antico aforisma ci ricorda “Si vis pacem, para bellum…”, se vuoi la pace prepara la guerra. Il senso del Natale, al di là della sua dimensione sentimentale e consumistica, richiede a tutti noi una coraggiosa riflessione sulla Pace e sulla Guerra. Dobbiamo tornare a ragionare sulla religione come testimonianza di un Dio che è Amore, o su di una religione che, persa ogni forma di trascendenza, si arrocca su di una visione del potere che non si ferma davanti a niente e a nessuno. Benedetto XVI chiede alla ragione di contribuire a purificare la fede, per spogliarla di tutti gli orpelli di un potere che si serve degli altri, senza farsi servizio per gli altri. Un potere che ignora il rispetto per i diritti umani, primo tra tutti quello della libertà religiosa. Gesù entrando nella storia anche come perfetto uomo, oltre che come perfetto Dio, ci ricorda ad ogni Natale quanto sia stretto l’intreccio che lega giustizia e carità, quanto non si possa dire di amare i propri simili, quando se ne calpestano i diritti fondamentali. Ma ci ricorda anche che quan quando i diritti umani sono calpestati anche in un solo uomo, è tutta l’umanità che ne soffre. Si crea un vulnus che colpisce tutti noi, per la mancanza di coraggio a livello diplomatico ed internazionale, per quella compiacente comodità che ci fa pensare che le cose non ci riguardino, mentre qualcuno muore per testimoniare la nostra stessa fede. Se qualcuno muore per questo, forse noi potremmo spendere la nostra vita anche per loro, per la tutela dei loro diritti, alzando la nostra voce, protestando quanto basta per mettere fine a questa ennesima strage di innocenti. Il monito arriva da lontano e merita di essere preso in considerazione, senza tirarci indietro e senza permettere che si tirino indietro quanti hanno responsabilità più alte e meglio definite.

Piccoli tiranni crescono ed è meglio contrastarli e ridimensionarli tempestivamente per non farne dei mostri. Non offriamo la sponda del nostro silenzio alla violenza di chi umilia tutta l’umanità nell’uomo che ferisce. Non vogliamo altri Gheddafi, né altri Saddam Hussein, né altri Assad… e così via! Non ne abbiamo bisogno e non dobbiamo consentire a nessuno di crescere fino ai livelli pazzeschi che abbiamo conosciuto, sottovalutandoli ai loro inizi e poi non riuscendo più a né a farli controllare democraticamente dall’interno, né a controllarli per le vie democratiche, con le sanzioni economiche! È una bella sfida per il 2012… nel 2011 abbiamo visto la fine di tanti tiranni, con uno spargimento di sangue spesso assurdo e ci siamo chiesti sommessamente ma chiaramente: perché non siamo intervenuti prima? Perché non abbiamo fatto in modo che libertà e democrazia, religione, quella vera!, e giustizia, carità e speranza ispirassero con più determinazione le nostre azioni? Ricominciamo a lottare per la giustizia e per la pace senza trascurare questi segnali, fin troppo rimbombanti, che ci vengono dalla Nigeria… Anche lì è Natale in questi giorni!

Tutto si svolge però all’interno della solida cornice della potenza e dell’amore di Dio, dei quali Rut e Booz sono consapevoli e ai quali si sforzano di adeguarsi con i loro comportamenti. Proprio nella descrizione dell’integrarsi del grande progetto divino con quelli personali e limitati dei singoli uomini e delle singole donne il Libro di Rut risulta di particolare efficacia. Come accennato gli interpreti moder ni hanno discusso a lungo su quale sia il genere letterario al quale il Libro di Rut appartiene e persino su chi ne debba essere considerata la vera protagonista, se Rut o Noemi. Riguardo alla seconda questione, per il senso che essa può avere in relazione a un testo risalente a oltre duemila anni or sono, l’indicazione di Rut nel titolo del libro dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio in merito alle intenzioni degli estensori e di quanti ne hanno garantito la trasmissione. La ricchezza di tracce del Libro di Rut negli scritti ritrovati nelle grotte di Qunram ha confermato l’importanza che a esso veniva attribuita nella tradizione giudaica antica. Sul genere letterario invece dovremo rimanere nel dubbio, soprattutto per la difficoltà che abbiamo ad applicare a un testo così antico categorie cognitive che ci sono proprie. Contrapporre un testo storico a un racconto edificante è operazione moderna, che confina con lo sforzo di riconoscere appieno le modalità di ricezione da parte degli antichi di testi letterari fondativi come l’Iliade e l’Odissea. All’interno di questo problema si colloca una delle questioni centrali del racconto, ossia la nazionalità non ebraica di Rut. L’eroina viene ripetutamente indicata come moabita, originaria di Moab, una regione confinante con Israele e come si è detto tradizionalmente ostile a esso per motivi che comprendono l’ambito religioso. Nel Deuteronomio, dove vengono fissate le leggi fondamentali del popolo ebraico, nei confronti dei moabiti sono usate parole durissime, almeno in apparenza definitive: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore» (Dt 23, 4). Un passo dei Numeri fornisce una spiegazione di questo divieto: «Israele si stabilì a Sittim e il popolo cominciò a trescare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dei, il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dei» (Nm 25, 1-2). La moabita è dunque nella Torah la straniera che induce al tradimento del Dio di Israele, per la quale non sembra valere l’ammonimento del Deoteronomio «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Dt 10, 19). Uno dei problemi centrali del Libro di Rut, della sua interpretazione e persino della sua da tazione, sta dunque in questo: nell’individuazione del messaggio che esso intende comunicare riguardo allo straniero. La questione ha grande importanza nella storia di Israele e delle sue molteplici rifondazioni, fra le quali spicca quella successiva al ritorno dall’esilio babilonese, e ne ha se possibile una ancora maggiore in quella del cristianesimo, quando si posero gli interrogativi relativi al suo rapporto di continuità con l’ebraismo e alla sua possibile apertura nei confronti dei gentili. Quella di Rut è infatti una storia di perfezione collocata al di fuori del retaggio di Israele, che riecheggia la figura di Melchisedek, il sacerdote del Dio altissimo che benedice Abramo nel momento fondativo di Israele stesso, in Genesi 14, 17-20. I filologi sottolineano che Rut viene definita con il termine hayil. Si tratta di una parola che ricorre oltre duecento volte nella Bibbia, sempre a indicare la forza e la capacità militare degli uomini. L’unica volta che il termine è associato a una figura femminile è nel Libro di Rut; l’eroina non viene presentata come bella, al contrario a esempio di Ester della quale viene esaltato il fascino; le qualità di Rut sono morali, di determinazione e di fedeltà, di dedizione e questo accresce il suo valore esemplare.

Nella tradizione cristiana si è quindi affermata la considerazione del Libro di Rut come rappresentazione dell’intera storia della salvezza, guidata da Dio ma compiuta con la collaborazione delle donne e degli uomini. Matteo sembra avvertire fin dall’inizio del suo vangelo che a tale opera di salvezza i gentili non partecipano come ultimi arrivati, ospiti di una storia altrui, ma in quanto protagonisti essenziali della sua formazione, attraverso passaggi decisivi. Il progetto di Dio riguarda tutta l’umanità, senza distinzione. L’esistenza stessa di re David e della tradizione che ne discende fino al Cristo dipende dalla fedeltà e dall’abnegazione di una semplice spigolatrice moabita. Davanti a Dio la storia dell’umanità non è quella dei potenti. Le modalità dell’incarnazione di Gesù non sono una novità nel suo modo di considerare donne e uomini, rappresentano piuttosto una conferma della sua attenzione puntuale al destino di ciascuno di noi. Nei nostri presepi non stonerebbe la presenza discreta di Rut la moabita.