New York – Per decenni, uno dei princìpi base della lobby mondiale per il controllo demografico è stato affermare che il declino dei tassi di fertilità avrebbe reso più stabile l’ordine internazionale. Ma, secondo l’autorevole gruppo di studiosi che hanno dato vita a un libro appena uscito sull’argomento, questo scenario di “pace geriatrica” è immotivatamente ottimistico.

Population Decline and the Remaking of Great Power Politics (“Il declino della popolazione e la riorganizzazione della politica delle grandi potenze”), questo il titolo, raccoglie nove saggi di ricerca pubblicati per i tipi di Potomac Books di Dulles in Virginia, e curati dal vicepresidente anziano di C-Fam, il Catholic Family & Human Rights Institute di Washington, Susan Yoshihara e da Douglas A. Sylva, Senior Felow presso la medesima istituzione. Nella premessa al libro, il demografo ed economista politico Nicholas Eberstadt plaude agli autori per la loro capacità di prendere il toro per le corna, cioè affrontare certe «domande profonde e ancora prive di risposta» legate al declino demografico e alla politica internazionale.

L’assunto prevalente secondo cui i Paesi relativamente vecchi sarebbero automaticamente predisposti alla pace non è infatti difendibile sul piano storico, come il libro sottolinea. Nel corso dell’ultimo secolo, i regimi relativamente vecchi quali la Germania nazionalsocialista e la Serbia degli anni 1990 erano noti per l’aggressività che dimostravano verso i vicini più giovani; e per quanto invece riguarda la classicità, la democratica Atene reagì allo shock demografico causato da una pestilenza devastante inaugurando una serie di azioni militari costose e male architettate.

Il volume Population Decline and the Remaking of Great Power Politics si apre con tre capitoli, firmati rispettivamente da Phillip Lonmgman, James R. Holmes e Francis Sempa, che espongono l’impianto analitico utilizzato per valutare le interazioni tra geopolitica e declino demografico. Il proseguio del libro è quindi dedicato a casi di studio inerenti sei protagonisti globali chiave: Russia, Europa e Giappone, tutti Paesi che stanno lottando con tassi di fertilità sotto la soglia del rimpiazzo generazionale; potenze asiatiche emergenti quali Cina e Giappone, il cui rispettivo futuro sarà tanto diverso quanto sorprendentemente li sono i loro rispettivi profili demografici; e gli Stati Uniti, il cui “eccezionalismo demografico” li rende la sola potenza del mondo sviluppato che resiste allo spopolamento.

In Russia, le nascite sono scese di un impressionante 50% nel periodo 1987-1999. Nel libro, Murray Feshbach analizza gli effetti di codesto avvizzimento nel contesto del reclutamento militare. Esacerbati dalla diffusissima incidenza dell’HIV e della tubercolosi, la grave mancanza di giovani maschi adatti alla leva che il Paese registra oggi – afferma Feshbach – «comporterà un aggravarsi delle già fragili condizioni della società russa, comparto militare incluso, e maggiore di quanto la questione economica preannunci».

Il Giappone ha cercato di rendere più sopportabile la sfida demografica sostituendo il personale militare umano con armamenti altamente tecnologici. Innescando questo processo, però, secondo quanto afferma un generale del Paese asiatico, «il Giappone ha detto addio a quel minimo di capacità di difesa militare sovrana che ancora vantava». Tali limitazioni potrebbero del resto persino restringere la possibilità concreta del Giappone di contribuire materialmente alle alleanze militari regionali. Se questo accadesse, avverte Toshi Yoshihara nella propria analisi strategica, «la cosa potrebbe aggiungere un ulteriore fattore di tragica volubilità alla politica delle alleanze e innescare dinamiche di competizione fra grandi potenze a livello regionale che poi possono però riverberarsi a livello globale».

Di fronte ad analoghe costrizioni imposte dalla crisi demografica, l’Europa sta cercando si esercitare un “potere soft” (in contrapposizione al “potere hard” di tipo militare ed economico) dominando le istituzioni multilaterali e pure proseguendo l’immigrazione massiccia. Se questo approccio multilateralista sarà efficace è per adesso cosa completamente oscura, osserva Douglas A. Sylva, ma resta il fatto che i tassi della fertilità europea sono oggi tanto bassi da richiedere un apporto migratorio assai maggiore di quel che il continente può sopportare.

Sylva suggerisce allora ai ceti politici europei che si cominci piuttosto a prendere in considerazione una strada radicalmente diversa, ovvero quella di ipotizzare condizioni di vantaggio per le “donne orientate alla famiglia” che appartengono alle popolazioni autoctone dei propri Paesi così da propiziare l’innalzamento dei tassi di natalità. Scrive Sylva a tale proposito: «Fare così costringerebbe ovviamente l’Europa ad abbandonare alcuni dei più riveriti princìpi del femminismo e del multiculturalismo, ma è un passo che, nonostante le conseguenze geopolitiche che comporta, i governi europei sembrano ben poco propensi a compiere».

di Tom McFeely

da La Bussola Quotidiana

Traduzione di Marco Respinti dell’articolo How Population Control has Harmed National Security, comparso su Friday Fax, la newsletter settimanale di C-Fam: Catholic Family & Human Rights Institute, fondato e diretto a Washington da Austin Ruse