La realtà distorta dalla lente dei media

La realtà distorta dalla lente dei media

di Fabio Spina da www.lanuovabq.it

Francesco

“[…]Se il bacio sulla bocca indubbiamente attinge una zona generalmente considerata erogena, è altrettanto indubbio che esso perde il connotato sessuale se è dato in particolari contesti sociali e culturali. Per esempio, nella tradizione russa il bacio sulla bocca è scambiato come forma di saluto, sicché il bacio c.d. alla russa non può identificarsi come atto sessuale. Altrettanto può avvenire in certi contesti familiari o parentali, in cui il bacio sulla bocca tra parenti è solo un segno di affetto, privo di connotazioni sessuali penalmente rilevanti […]”, così si esprimeva la Suprema Corte di Cassazione, Sezione III Penale in una nota  sentenza del l’anno 2007 n. 25112.

Sarebbe bastato qualche minuto di ricerca su Internet ed un poco di obiettività per avere qualche dubbio prima di diffondere in tutto il mondo il “bacio sulla bocca” delle atlete russe, Tatjana Firova e Ksenija Rizhova, trasformato da festeggiamento “sportivo” ad atto “politico”.

Ma proprio questo clamoroso “incidente” offre lo spunto per una riflessione più ampia sullo stato della comunicazione. Troppo spesso sui quotidiani non si offrono gli elementi per una lettura obiettiva della realtà da cui trarre poi delle conclusioni; al contrario, “l’ideologia” o gli interessi che li guidano portano i media a deformare la realtà per supportare le sole conclusioni che sono dettate dalla “linea editoriale”.
Così un intero “mondo mediatico”, che troppo spesso durante le gare sportive vuole vietare anche di indossare qualsiasi indumento o simbolo che rimandi a slogan politici o a precetti religiosi (si può rileggere “Calciatrici a capo coperto? Se è per fede non si può”), ha visto nel bacio delle atlete russe l’evento mediatico mondiale utile a “strumentalizzarle” come involontarie testimonial della validità della teoria gender.

Costatando quanto accade nel mondo dell’informazione torna in mente il richiamo di Papa Francesco ai rappresentanti dei media il 16 marzo 2013:«Siate certi che la Chiesa, da parte sua, riserva una grande attenzione alla vostra preziosa opera; voi avete la capacità di raccogliere ed esprimere le attese e le esigenze del nostro tempo, di offrire gli elementi per una lettura della realtà. Il vostro lavoro necessita di studio, di sensibilità, di esperienza, come tante altre professioni, ma comporta una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza; e questo ci rende particolarmente vicini, perché la Chiesa esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza “in persona”. Dovrebbe apparire chiaramente che siamo chiamati tutti non a comunicare noi stessi, ma questa triade esistenziale che conformano verità, bontà e bellezza».

Se l’uomo post-moderno non conosce più direttamente la realtà, ma la riceve deformata dai mass-media, non è più in grado di leggervi quello che Benedetto XVI chiama «il ritmo della storia di amore di Dio con l’uomo», una capacità di lettura indispensabile per cogliere il ritmo e la logica della creazione senza i quali per l’uomo non è più possibile “custodire e coltivare” con responsabilità il Creato.
Purtroppo però «Quando la comunicazione perde gli ancoraggi etici e sfugge al controllo sociale, finisce per non tenere più in conto la centralità e la dignità inviolabile dell’uomo, rischiando di incidere negativamente sulla sua coscienza, sulle sue scelte, e di condizionare in definitiva la libertà e la vita stessa delle persone». (messaggio di Papa Benedetto XVI per la 42° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali).

La televisione ci vuole omosex

La televisione ci vuole omosex

di Marianna Ninni da www.libertaepersona.org

La recente vittoria al Festival di Cannes di La vie d’Adèle, film che racconta dell’amore tra due donne poco più che adolescenti, non è un caso. Si inserisce in un filone televisivo-cinematografico di esaltazione dell’omosessualità, sempre più invadente, che si pone quale anticipazione di cambiamenti sociali. Ormai non si contano i prodotti, soprattutto televisivi, dove si descrive la condizione dell’omosessuale come umanamente buona. Una scelta che è il frutto di un sottile gioco di costruzione mediatica a totale appannaggio di un elite orientata a favorire l’emergere di ideologie e la completa accettazione di valori a senso unico. E’ anche ciò che emerge da una serie di studi sulla comunicazione cinematografica e televisiva in cui si indaga il ruolo dello stereotipo dell’omosessuale.

Ne è un esempio il rapporto stilato dall’associazione del GLAAD (Gay and Lesbian Alliance Against Defamation) che evidenzia un trend in continua crescita di personaggi omosessuali e di precise linee narrative all’interno degli show di produzione dei più importanti network televisivi americani. Secondo il report “Where we are on Tv” relativo alla stagione 2012-2013, infatti, la percentuale di personaggi LGBT (lesbo-gay-bisex-trans) è salita al 4.4%, contro il 2,9% della stagione precedente. Si sta perciò assistendo a un vero e proprio record di personaggi omosessuali in Tv che “riflettono un cambiamento culturale nel modo in cui gay e lesbiche sono visti nella società”, afferma Herndon Graddick, presidente del GLAAD.

Molti di questi prodotti sono arrivati da tempo anche sul mercato italiano, e non si fa fatica a riconoscere un modo di presentare la condizione dell’omosessualità come normale e idilliaca. A farla da padrone sono soprattutto le sitcom, dove si fa uso di un umorismo spesso dissacrante per superare le barriere difensive dello spettatore.

Esempio di grande successo è rappresentato da Will & Grace, sitcom trasmessa in chiaro su Italia 1 dal 2003 al 2007, in cui si racconta dell’amicizia tra l’avvocato gay dichiarato Will Truman e l’eterosessuale ebrea Grace Adler. Per ben otto stagioni si assiste alle vicende di due giovani newyorkesi incapaci di andare incontro a relazioni umane serie e durature. Il rapporto morboso tra i due si gioca intorno ad una doppia condizione di emarginazione, descritta dallo studioso americano Vincent Brook, come una sorta di “alleanza ebraica con l’altro emarginato” e dove la condizione di ebrea di Grace sembra più semplice rispetto a quella di omosessuale dell’amico. Mentre l’ebraismo appare infatti come normale, l’omosessualità viene trattata come elemento a-normale all’interno di una società in cui il pregiudizio è forte e risulta difficile trovare un proprio spazio.
Non è un caso, quindi, che la maggior parte della battute ruotino proprio intorno all’omosessualità di Will. Giocando su un tipo di umorismo tipicamente yiddish, su personaggi chiaramente simpatici ed empatici, su un linguaggio e una scrittura brillante, Will & Grace favorisce l’emergere di due diversi stereotipi omosessuali che si sono largamente diffusi nella società mediatica. Ad un “sensibile, profondo e altruista” Will, si contrappone un “egocentrico, superficiale e narcisistico” Jack. Entrambi si muovono all’interno della serie ostentando in maniera eccessiva il linguaggio del corpo e celebrando solo l’importanza dell’aspetto fisico ed esteriore. Il successo della serie ha contribuito alla diffusione di ulteriori prodotti mediatici che, correndo dietro al cosiddetto “Will&Grace Effect”, favorivano una visione benigna e una normalizzazione dell’omosessualità.

A cominciare dal più recente Modern Family, altra sitcom americana creata da Christopher Lloyd e Steven Levitan e trasmessa sui canali Fox e in chiaro su Mtv. La famiglia moderna firmata Lloyd-Levitan si sviluppa su di un nucleo allargato e del tutto nuovo composto da tre diverse famiglie: quella di nonno Jay, uomo affascinante, giovanile e risposato con la sensuale colombiana Gloria, molto più giovane di lui e già mamma del simpatico Manny, della figlia Claire, sposata con lo stralunato Phil e madre di tre figli, e del gay dichiarato Mitchell sposato con Cam. Questi ultimi sono anche i genitori adottivi di una bambina di origine vietnamita di soli 3 anni ed è spesso intorno alla loro condizione di gay che si creano la maggior parte delle situazioni comiche e grottesche.

Senza dimenticare la recente The New Normal, sitcom attualmente trasmessa sui canali Fox, in cui una mamma surrogata porta avanti una gravidanza per poter permettere ad una coppia di omosessuali di crescere un bambino come una nuova famiglia normale. Curioso il titolo dello show dove l’aggettivo “normale” viene accostato a “nuovo”.

Ma la normalizzazione mass mediatica delle relazioni omosessuali non si relega alla sola sitcom e si estende a numerosi altri generi televisivi molto amati dagli adolescenti. In Dawson’s Creek, serie creata dal gay dichiarato Kevin Williamson, andata in onda su Italia 1 dal gennaio del 2000 al dicembre del 2003 e ancora oggi replicata su diversi canali del digitale terrestre, una delle linee narrative di sviluppo è dedicata alla figura dell’omosessuale Jack, un giovane che scopre di essere gay e che deve andare incontro sia al processo di accettazione di una diversa sessualità sia allo scontro molto duro con un padre e con una società che non ne accetta la condizione. Nel corso delle sei stagioni, il ragazzo si troverà ad affrontare qualsiasi tipo di pregiudizio ma ne verrà fuori come uomo maturo e sicuro di sé. Nel finale Jack riesce a coronare il suo sogno d’amore nella relazione stabile con il poliziotto Doug, che riflette, al contrario di Jack, la figura del gay insicuro e timoroso di dover affrontare i pregiudizi e le critiche tipiche della mentalità di una piccola cittadina di provincia. Calzante, a riguardo, una delle scene finali dell’ultima puntata in cui i due decidono di crescere insieme la bimba dell’amica scomparsa Jen e si baciano senza riserve davanti ad una coppia di anziani del paese per dimostrare che non c’è nulla di anormale nel loro amore.

Dalla cittadina di provincia di Capeside alla famiglia felice di Brothers &Sisters di Jon Robin Baitz. Tra i figli di Norah Walker c’è anche l’avvocato gay Kevin, interpretato da Matthew Rhys. La serie ABC, trasmessa in Italia in prima serata su Raidue dal 2008 al 2012, dedica ampio spazio alla figura di questo personaggio mostrando le sue relazioni con uomini diversi e le continue battaglie contro un sistema ipocrita. Nella serie, Kevin riuscirà a costruire una famiglia insieme al cuoco gay Scotty. I due, proprie come tante coppie etero, si troveranno a dover affrontare il lungo e problematico iter legato al processo di adozioni ma la determinazione e il supporto di una famiglia sempre presente li aiuterà a superare qualsiasi difficoltà. Nel caso specifico, inoltre, la condizione dell’omosessuale viene rincarata anche dalla figura di Saul, fratello di Norah, che scopre di essere affetto di AIDS. A trasmettergli il virus dell’HIV una sua vecchia fiamma (Jonathan – Richard Chamberlain). Nonostante la rabbia e l’iniziale riluttanza provocata dalla triste condizione causata dalla malattia, il personaggio di Saul riesce a trovare il coraggio per costruire una storia d’amore proprio con Jonathan.

Nel celebre e amato medical drama Grey’s Anatomy, l’omosessualità è incarnata dal personaggio di Callie. Moglie di George, Callie scopre di essere attratta dalle donne alla fine della quarta stagione e inizia una relazione duratura con la collega Arizona che, poi, sposerà. Ma una crisi è sufficiente per farla correre tra le braccia e le lenzuola del suo migliore amico e rimanere – stranamente – incinta. Una scelta che permette ai produttori di sviluppare una nuova linea narrativa in cui alla famiglia tradizionale si sostituisce un nuovo nucleo formato da due madri e un padre.

C’è un ultimo esempio che merita una certa attenzione soprattutto per il successo che riscuote nel pubblico adolescenziale. Si tratta dello school musical Glee, serie lanciata nel 2009 e ancora oggi in corso, in cui alle consuete coppie di gay e lesbiche si aggiunge anche il personaggio del transessuale Unique. La lista potrebbe continuare all’infinito e per coloro che sono interessati ad approfondire l’argomento rimandiamo al rapporto del GLAAD dove sono elencati tutti i personaggi omosessuali all’interno dei programmi televisivi. (http://www.glaad.org/publications/whereweareontv11).

Come spiega lo studioso conservatore Ben Shapiro, “la televisione riflette quelli che la creano e trasforma tutti gli altri”. Il risultato, però, porta alla creazione e commercializzazione di prodotti televisivi che, sebbene ben scritti e magistralmente costruiti, rispecchiano gli ideali di una sola voce: quella dei progressisti liberal, favorevoli ad una “sessualizzazione della televisione, ad una erosione del valore di famiglia tradizionale e ad una proposizione di stili di vita irresponsabili”.

La realtà distorta dalla lente dei media

Scoop di Repubblica. Papa Francesco è andato a Lampedusa perché non voleva parlare della sua enciclica

Bergoglio trasformato in un marxista sentimentalone. Le incredibili analisi di Repubblica e del Fatto che fanno diventare il Santo Padre un “white bloc”
Correttore Di Bozze da www.tempi.it   

Papa Francesco a LampedusaOrmai è chiaro a tutti che il Correttore di bozze, come tutti i clericofascisti senza scrupoli, non si fa problemi ad arruolare strumentalmente financo il Papa nella sua crociata di promozione della destra cattolica più becera e reazionaria. Tuttavia, in quanto a faziosità, il Correttore di bozze è una misera schiappa al cospetto dei suoi nemici giornalisti miscredenti e bolscevichi, i quali un giorno sì e l’altro pure trasformano il capo della Chiesa in “uno di loro” con una nonchalance a dir poco invidiabile. Sul viaggio del Santo Padre a Lampedusa hanno dato il meglio.

Il Fatto quotidiano, per esempio, scodella oggi un commento di Marco Filoni che esordisce così: «Il Papa ha parlato di indifferenza e di tenerezza. Il primo è un tema gramsciano, la seconda è la stessa invocata da Ernesto Guevara de la Serna, detto il “Che”». Ed è già tanto che non attribuisca il concetto di “periferia esistenziale” all’architetto Fuksas. Comunque l’analisi del Fatto mica si ferma qui. Secondo il quotidiano dei giustizieri, il Papa non scopiazza le idee solo dai comunisti famosi, ma anche dai comunisti poracci. Infatti, quando Francesco a Lampedusa ha detto «dovevo venire oggi per risvegliare le nostre coscienze», stava di certo usando «parole simili» a quelle di «Frantz Fanon, lo psichiatra terzomondista, che si batteva per l’Algeria affinché si accendesse “un bagliore nelle coscienze”». Cosa che evidentemente fa di lui l’inventore della parola coscienza.

Oh, per carità, tutto questo indiscutibile ispirarsi alle peggio zecche marxiste «non basta a fare del Papa un rivoluzionario», si paracula Filoni. Francesco «rimane sempre il successore di Pietro», sia chiaro. «Eppure il suo linguaggio è quello semplice e diretto di chi parla al popolo, alla massa». Egli «sta dalla parte degli ultimi, sta con i popoli che devono autodeterminarsi e liberarsi dalle oppressioni che li soffocano», scrive il Fatto. Pare che a Lampedusa fosse lì lì per invitare gli immigrati a prendersi l’isola con le armi. Saranno stati i cattivoni della Curia romana a impedirglielo? Chissà, sta di fatto che «Francesco sembra esser il primo Papa postcoloniale, almeno nella lingua. E anche partigiano se intendiamo, con Gramsci, colui che parteggia, colui che non è indifferente».

che-guevaraE nel caso dovesse sembrarvi un po’ troppo cialtrone paragonare il Papa a Gramsci, Che Guevara e Pajetta, è lo stesso Fatto quotidiano con un altro commento ad alzare il livello e buttarla in cultura: il Santo Padre – sostiene Alessandro Robecchi qualche pagina più avanti – è praticamente un no global. Proprio così. Scrive Robecchi: «Bergoglio ha pregato per i ventimila morti del Mediterraneo, ha parlato di globalizzazione e di indifferenza, e ha denunciato coloro che “nell’anonimato prendono decisioni socioeconomiche che aprono la strada a questi drammi”» e quindi dà ragione alla simpatica teppa che «appena una dozzina di anni fa, a Genova, ma non solo a Genova, metteva al centro della sua agenda argomenti come questi – libera circolazione delle persone e non solo delle merci, guasti ed eccessi della globalizzazione, decisioni geopolitiche che provocano stragi su vasta scala». E mentre il camerlengo in Vaticano si attrezza già con estintori e bulloncini per Sua Santità, il Correttore di bozze si unisce a Robecchi nell’elogio di questo «coraggiosissimo White Bloc di nome Francesco».

Più sofisticato l’articolo su Repubblica di Barbara Spinelli, una intellettuale talmente divertente che se avesse la barba potrebbe essere Scalfari. Ebbene, per spiegare la presunta svolta a sinistra completata da Bergoglio a Lampedusa, la Spinelli decide di «immaginare una storia completamente diversa. Una storia segreta, non confessata, non ufficiale». Del resto si sa, «a volte un racconto fantasticato si avvicina al vero». Tanto più se il “vero” corrisponde alle tesi di Repubblica. «Immaginiamo dunque – scrive la Scalfara Spinelli – che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19 mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture». Avete capito bene. Il «racconto che si avvicina al vero» sarebbe questo secondo Repubblica: al Papa non gliene frega niente della fede, tant’è che ha accettato di firmare una ciofeca scritta da Benedetto XVI pur di levarsi il problema e partire per Lampedusa, dove invece avrebbe potuto esprimere tutto il suo scalfarismo.

Testuale: «Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. (…) La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): “Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo”». 

Il pezzo va avanti così, sbrodolosamente, ancora a lungo. Alla fine però la papessa repubblicona arriva al punto: e il punto è che Francesco a Lampedusa non avrebbe fatto «nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi», perché per lui «essenziali sono le lacrime, l’anestesia del cuore». Insomma la Spinelli sembra proprio sperarci, nel rincoglionimento totale del Papa: «Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero», ribadisce la quota rosa di Scalfari. Ci crede talmente tanto, la Barbara, da sentirsi in dovere di sgridare i bifolchi che invece hanno osato criticare le parole del Papa sull’accoglienza dei migranti. Quel berlusconiano di un Cicchitto, per dirne uno, «ha avuto perfino l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche». Uè impudentone, chi ti credi di essere? Ezio Mauro?

Fortuna che «disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato» e «fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica». Ricordatevelo, la prossima volta che qualche giornalaccio cattivo accuserà la Chiesa di “fare ingerenza”.

Sinclair: «Il mio film su Edith Stein la santa del dialogo»

La scelta del nome fatta dal nuovo Papa ha riportato all’attenzione una serie di segni provvidenziali della “amicizia” tra due santi, Edith Stein e Francesco d’Assisi. Nella opera autobiografica (Dalla vita di una famiglia ebrea),  santa Teresa Benedetta della Croce, infatti, racconta che durante la celebrazione in casa del matrimonio della sorella Erna, volle che non fosse tolta un’immagine del san Francesco di Cimabue, nonostante il fratello Arno lo considerasse poco confacente per una liturgia ebraica. Per lei fu «una grande consolazione vederlo lì».

Si potrebbe dire che Francesco «ricambiò la cortesia», infatti fu un suo figlio spirituale, il frate minore Herman Leo Van Breda, a ritrovare gli scritti della filosofa carmelitana tra le rovine del monastero di Echt. E adesso è ancora un francescano, padre Francesco Alfieri, docente alla Pontificia Università Lateranense e all’Università di Bari, che ha curato la bibliografia mondiale della santa filosofa. Padre Van Breda salvò anche l’opera integrale del maestro della Stein, Edmund Husserl, dalla distruzione del nazismo.

Il nome del nuovo Papa ha spinto anche il regista americano Joshua Sinclair, che sta accingendosi a girare un nuovo film su Edith Stein (dopo quello di Marta Meszaros di quasi venti anni fa), a puntare i riflettori sul singolare influsso che san Francesco ebbe su santa Teresa Benedetta della Croce. «Un influsso – dice Sinclair – che l’accompagnò fin sulla soglia di Auschwitz, dove grandi uomini come fra’ Wolfgang Rosenbaum (anche lui convertito) persero pure la vita». Attraverso il francescano padre Alfieri, il regista è entrato in contatto con la nipote di Stein, Susanne Batzdorff (figlia della sorella Erna) che sarà consulente durante la realizzazione dell’opera. Mentre lo stesso padre Alfieri, cosa eccezionale per un religioso, è stato chiamato dal regista ad interpretare un ruolo nel film, probabilmente quello di uno dei frati conosciuti dalla Stein in campo di concentramento.

«Vorrei – spiega Sinclair – che comprendessimo sia l’Edith ebrea, sia l’Edith carmelitana, perché desidero che questo film aiuti a risolvere ogni dissenso tra le due comunità; che comprendessimo finalmente attraverso la storia di Edith che l’antisemitismo è inconcepibile per un cristiano. È impossibile capire il Signore senza riconoscere pienamente le sue radici nella storia del Popolo Eletto di Dio».
Sinclair ha imparato cosa veramente vuol dire “empatia”, un concetto chiave del pensiero della Stein, attraverso un’esperienza di lavoro con Madre Teresa di Calcutta nelle baraccopoli della metropoli indiana, come membro di “Medici senza Frontiere”. «Si può anche dare aiuto senza una totale dedizione di sé – dice il regista –. Ma l’empatia è diventare l’altro. Identificarsi con la sofferenza dell’altro, facendola propria».

Del resto è significativo che la filosofa, prima di concludere la sua dissertazione di dottorato sull’empatia, facesse questa esperienza di donazione agli altri in un ospedale militare durante la prima guerra mondiale, come appunto il film racconterà. È proprio la caratteristica saliente dell’empatia che Sinclair riconosce nell’agire di Papa Francesco. «Il Santo Padre – ha scritto il regista – ha chiaramente dimostrando la sua empatia per i poveri. Sono certo che il suo pontificato porterà a una comprensione più profonda del precetto fondamentalmente cristiano, come anche umano, del “camminare nelle scarpe degli altri”, che siano cattolici o buddisti. E questo atteggiamento sarà sempre più attuale nel XXI secolo in cui la religione è tornata a giocare un ruolo determinante a livello mondiale». Sinclair considera, perciò, un fatto provvidenziale che il lavoro di preparazione lo abbia costretto ad aspettare a quest’anno per produrre Edith (già previsto per il 2012): «Potremo fare le riprese sotto l’auspicio di Papa Francesco e della sua dedizione al messaggio francescano di umiltà, povertà ed empatia».

La pellicola disporrà di un cast eccezionale con componenti che nell’insieme hanno vinto più di quattro premi Academy Award e innumerevoli altri prestigiosi riconoscimenti. Vi figureranno nomi di alto livello come Zana Marjanovic (Edith Stein) Claire Bloom, Juliet Mills, la celebrata attrice tedesca Anja Kruse, Natalie Portman, Karl Markovics (protagonista del film “Il Falsario” vincitore del Premio Oscar 2008 come miglior film straniero) , Richard Johnson, Jane Merrow. Per le musiche vedrà la collaborazione di Ennio Morricone (che comporrà la colonna sonora), del maestro della fotografia Vittorio Storaro, Ola Gjeilo, John Debney, con l’apporto di cantanti come Sarah Brightman e Andrea Bocelli. Parte dei profitti della pellicola andranno a sostenere “The Edith Stein Fund”, che ha lo scopo principale di salvare e  aiutare bambini e donne bisognosi, sofferenti per abusi ed emarginazioni, offrendo loro nutrimento, accoglienza, cura attraverso “Medici senza Frontiere” e organizzazioni analoghe.​​

Pier Luigi Fornari da www.avvenire.it

La televisione ci vuole omosex

Tv&minori. Un argine (fragile) ai programmi nocivi

Si alzano gli argini per proteggere i ragazzi di fronte alla tv «gravemente nociva». Programmi violenti, non rispettosi dell’intelligenza e persino pornografici che rischiavano di essere liberalizzati finiscono adesso dentro compartimenti stagni (almeno sulla carta) che ospiteranno non soltanto la televisione brutale e a luci rosse, ma anche quella che legittima l’abuso di alcol e droghe o spinge al gioco d’azzardo.
Il giro di vite sulla peggiore tv arriva dal nuovo regolamento varato dall’Agcom che punta a «escludere i minori» dalla visione dei programmi che possono nuocere al «loro sviluppo». Palinsesti dietro ai quali si muove un business con cifre da primato, anche se chi fa affari con questi prodotti (da Sky e Mediaset a fornitori meno noti) nulla rivela sugli introiti in questo ambito.

Il provvedimento ha in gran parte recepito i suggerimenti del Consiglio nazionale degli utenti e, seppur con alcune lacune, non si è piegato al pressing dei grandi network impegnati intorno al tavolo dell’Authority a convincere l’Agcom ad allargare le maglie delle norme. A fianco dei rappresentanti degli spettatori è scesa la Rai che ha appoggiato l’idea di avere una tv meno vergognosa. In campo anche il Garante per l’infanzia. Certo, non mancano le carenze: dal dilemma sulla sicurezza dei decoder già entrati nelle famiglie italiane alla difficoltà di far valere le nuove tutele sulla tv via web.

Il regolamento entrerà in vigore ad agosto. Due sono i punti chiave: gli «argini» tecnologici per impedire agli under 18 di sintonizzarsi sui canali a rischio e la classificazione delle trasmissioni che devono essere inibite. Sul primo versante si è combattuta la battaglia più accesa. Il punto di partenza era che i programmi nocivi potessero essere visti solo su esplicita richiesta (e in generale a pagamento). Ma restava da definire come proteggere i ragazzi. La soluzione tecnica è quella del codice segreto che si inserisce sul decoder e che abilita alla visione. Le emittenti sono tornate più volte alla carica per consentire all’adulto di «disattivare stabilmente» il filtro elettronico che il testo chiama parental control. Un’eventualità che di fatto avrebbe lasciato i ragazzi esposti alla tv più pericolosa, pur di evitare ai maggiorenni l’onere di inserire ogni volta la password. Ed era proprio a questa «deriva» che guardavano le stazioni: l’intento era facilitare la visione abbattendo il paletto più solido.
L’ipotesi sostenuta dalle televisioni è stata inserita nella bozza dello scorso dicembre nonostante il parete contrario del Consiglio nazionale degli utenti. Poi a gennaio è stata accantonata. Ma il 27 marzo gli operatori tv sono tornati all’attacco. Alla fine il patto fra le associazioni degli spettatori e la televisione di Stato ha evitato che il parental control potesse essere disattivato, come ora prescrive il regolamento.

Altro tema è stato l’insieme dei programmi da inserire fra quelli «gravemente nocivi». Assodato che fanno parte della categoria le trasmissioni pornografiche vietate ai minori di 18 anni e quelle con «violenza gratuita, insistita o efferata», il dibattito al tavolo dell’Agcom ha permesso di ampliare la forbice. Sono considerate dannose le trasmissioni che intaccano i «diritti fondamentali» e l’«incolumità della persona». Qui rientrano sia gli incitamenti all’odio, sia le scene che «esaltano», «legittimano», «invitano» o offrono una «palese approvazione» del ricorso a pratiche che creano dipendenza. Non solo alcol e stupefacenti, ma anche il gioco d’azzardo che, nota l’Authority, è «una delle nuove e pericolose dipendenze alle quali i minori sono esposti».
Il regolamento ha, però, alcune ombre. Le norme valgono per chi fornisce «servizi di media audiovisivi», quindi anche per Internet. E il provvedimento stabilisce che il filtro elettronico sia previsto persino nei «siti web» che mandano in onda video. Una previsione difficilmente realizzabile nel pianeta «selvaggio» dell’online.
Altro nodo scoperto è l’effettivo stop ai programmi nocivi con i ricevitori già istallati che non includono il parental control con l’obbligo del pin e che quindi aggirano il richiamo del regolamento alla password. Ecco perché l’Agcom ha imposto alle tv di promuovere «adeguate campagne informative» che facciano conoscere «la necessità di impostare un codice segreto» per salvare i ragazzi dai palinsesti a rischio. Accadrà davvero? Sarà la soluzione?

E, comunque, resta aperto un altro fronte: quello scaturito dalla cancellazione del divieto di trasmettere programmi inadatti ai minori di 14 anni durante la giornata, invece di relegarli soltanto fra le 22.30 e le 7. Una riserva a difesa dei più piccoli che dalla scorsa estate può essere abbattuta se i televisori possiedono gli «accorgimenti tecnici» che bloccano la visione di film e rubriche inadatti. E oggi gli schermi digitali li hanno, seppur nella versione del parental control che, secondo la riforma voluta dal precedente Governo e Parlamento, diventa un’alternativa alle fasce protette

Giacomo Gambassi da www.avvenire.it
Lo sguardo strabico dei censori di Facebook

Lo sguardo strabico dei censori di Facebook

da Avvenire.it

L’immagine di una donna che allatta dev’essere eliminata al più presto, perché considerata offensiva. Una pagina odiosa e blasfema, dal titolo «La Vergine Maria avrebbe dovuto abortire» – di cui abbiamo già parlato qui ​ieri – non viene invece toccata perché «non viola le regole in merito ai discorsi di odio». Il misterioso algoritmo a cui i guru di Facebook hanno affidato la verifica etica dei contenuti ragiona – o meglio sragiona – così. Censura i contenuti in cui rileva parole off-limit, ma si guarda bene dal cancellare i gruppi che inneggiano a fascisti e camorristi. E ignora le ragioni delle oltre tremila persone che, partendo dalla proposta di un sito ​in lingua inglese, hanno promosso una petizione per rimuovere la pagina della «Madonna pro-aborto». I portavoce del popolare social network assicurano: «Non c’è posto per contenuti che incitano all’odio, alla violenza o minacce». E negli «Standard della comunità di Facebook» viene ribadito: «Non consentiamo la discriminazione di persone in base alla religione».
Alle parole però non seguono i fatti. E non è il caso di elencare tutte le porcherie esibite nella famosa pagina pro-aborto: basti dire che l’immagine della Madonna che fuma è tra le più «soft», e tra i messaggi il tiro al bersaglio al “cattolico-credulone” (ma i termini sono molto più forti) è all’ordine del giorno. È invece il caso, questo sì, di rilevare l’atteggiamento ondivago di Facebook, che da una parte spiega come «ogni segnalazione ricevuta» venga «analizzata da un team multilingue», e dall’altra si trincera dietro l’impossibilità di controllare tutto. «Come ci si potrebbe aspettare da una comunità formata da più di un miliardo di persone – riferiscono i portavoce del colosso di Zuckerberg – di tanto in tanto può capitare di vedere alcuni utenti pubblicare contenuti di cattivo gusto e tentativi umoristici mal riusciti, che possono essere volgari e offensivi, ma che di per sé non violano le nostre norme». Tutt’al più «chiediamo che ogni pagina di questo genere sia contrassegnata chiaramente, in modo che gli utenti siano consapevoli che i suoi contenuti potrebbero essere di cattivo gusto».

Ma dove sono i limiti tra la battuta venuta male e l’indecenza offensiva? Secondo le linee guida di una società esterna a cui Facebook avrebbe affidato il primo livello di controlli, pubblicate sul sito Gawker.com, si precisa per esempio che le foto di droghe non sono consentite «se non nel contesto di studi medici o scientifici», eccezion fatta per la marijuana. Si parla di bullismo, sessualità, ma non c’è traccia di indicazioni specifiche sul rispetto del sentimento religioso. Sarà anche per questo, forse, che è ancora attiva – con 250 iscritti – la pagina che insulta Jean-Louis Tauran, il cardinale che ha dato l’annuncio dell’elezione di Papa Francesco. Quella voce insicura e tremolante, ferita dal morbo di Parkinson, ha divertito qualcuno, che ha pensato bene di riderci sopra. E Facebook? Non ha mosso dito. Perché non possono controllare tutto. Oppure, più semplicemente, perché l’algoritmo magico o forse solo “politicamente corretto”, ha deciso che quella pagina non è offensiva.

Lorenzo Galliani