Dan Brown: un manifesto per la cultura della morte

Dan Brown: un manifesto per la cultura della morte

di Massimo Introvigne da www.lanuovabq.it

Dan Brown

«Il Vaticano mi odia», afferma a un certo punto di «Inferno», il nuovo romanzo di Dan Brown, la dottoressa Elizabeth Sinskey, direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e santa laica del racconto. «Anche lei? Pensavo di essere l’unico», risponde Robert Langdon, il professore di simbologia di Harvard già protagonista dei precedenti romanzi «Angeli e demoni», «Il Codice da Vinci» e «Il simbolo perduto», che svolge sempre la funzione di portavoce delle idee di Dan Brown.

L’avversione per «il Vaticano», cioè per la Chiesa Cattolica, è il filo rosso che tiene uniti i romanzi di Dan Brown. In «Angeli e demoni» – scritto prima de «Il Codice da Vinci», anche se tradotto dopo in italiano – scopriamo che la Chiesa è da secoli nemica della scienza. Ne «Il Codice da Vinci» Brown cerca di distruggere le fondamenta stessa del cristianesimo, rivelandoci che Gesù era sposato con Maria Maddalena, non pensava di essere Dio e non intendeva fondare la Chiesa. Ne «Il simbolo perduto» il romanziere americano aggiunge che la tradizionale rivale della Chiesa, la massoneria, è un’organizzazione molto più simpatica, illuminata e amica del progresso. Stavolta… e qui devo chiedere al lettore interessato a farsi sorprendere dai colpi di scena di Brown di smettere la lettura di questo articolo, perché – pur senza scendere in troppi particolari – per illustrare l’ideologia che presiede a «Inferno» è necessario dire qualcosa della trama.

Stavolta Langdon – che all’inizio del romanzo ha perso la memoria e si trova in un letto d’ospedale a Firenze – è impegnato in una corsa contro il tempo per evitare una pandemia, un’epidemia planetaria scatenata – prima di suicidarsi – dallo scienziato svizzero Bertrand Zobrist. Lo scienziato, un famoso biochimico, fa parte di un’ala estrema del Transumanesimo, un movimento realmente esistente, alle cui origini c’è il biologo Julian Huxley (1887-1975), che propugna la trasformazione della natura umana in una realtà di livello fisicamente e intellettualmente superiore attraverso l’uso senza limitazioni dell’ingegneria genetica. Nel romanzo, Zobrist si convince che gli scopi del Transumanesimo non potranno essere raggiunti, perché richiedono tempi lunghi e nel frattempo l’umanità sarà annientata dalla crescita demografica. Come spiega un’altra scienziata a Langdon, «la fine della nostra specie è alle porte, Non sarà causata dal fuoco né dallo zolfo, dall’apocalisse o da una guerra nucleare… Il collasso globale sarà provocato dal numero di abitanti del pianeta. La matematica non è un’opinione».

Zobrist ha dunque pensato a una soluzione drastica. Ha nascosto nell’acqua in un luogo molto frequentato una sacca idrosolubile, che entro pochi giorni da quando Langdon entra in scena si aprirà e libererà un virus in grado di diffondersi rapidamente nel mondo intero, risolvendo drasticamente il problema della sovrappopolazione. Aiutato dall’inevitabile bella signora, – ce n’è una diversa in ogni romanzo – di cui finirà per innamorarsi, Langdon si mette dunque alla ricerca della sacca letale. Decifra indizi lasciati dallo stesso Zobrist, fanatico cultore dell’«Inferno» di Dante Alighieri (1265-1321), che alludono alla «Divina Commedia», al pittore e storico dell’arte rinascimentale Giorgio Vasari (1511-1574) e all’astuto e controverso doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205), che lo portano da Firenze a Venezia e da Venezia a Istanbul. Perché Zobrist – se veramente voleva che la sacca non fosse scoperta – abbia lasciato degli indizi che un esperto di simboli può decifrare abbastanza facilmente non è veramente spiegato.

Ma l’appassionato di Dan Brown trova comunque quello che cerca: inseguimenti mozzafiato quasi in ogni capitolo, perché con Langdon corrono per trovare la sacca – senza che si capisca subito chi lavora per chi, chi finge, chi fa il doppio gioco – gli agenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità guidati dalla dottoressa Sinskey, quelli del «Consortium», una società privata di «contractor» – Brown afferma che esiste davvero, gli ha solo cambiato nome – disposta a fare qualunque cosa per il migliore offerente, e i Transumanisti discepoli di Zobrist i quali intendono assicurarsi, dopo il suicidio del loro maestro, che il suo piano giunga comunque a compimento.

Non senza un ulteriore ammonimento a saltare almeno questo paragrafo rivolto a chi vuole leggere il romanzo e lasciarsi sorprendere dal finale – che però è essenziale per capire gli aspetti ideologici – menzionerò soltanto che Langdon, per una volta, fallisce. Quando arriva al luogo dov’è nascosta la sacca, questa si è già aperta, e il virus ha ormai rapidamente contagiato quasi tutti gli abitanti della Terra. Ma non si tratta di un virus che uccide. Rende sterili, ma in alcuni casi l’organismo riesce a difendersi così che questa sterilizzazione forzata, inconsapevole e trasmissibile alle generazioni future colpisce solo un terzo degli abitanti della Terra. E alla fine Langdon, la sua bella e la stessa dottoressa Sinskey si rendono conto che Zobrist usava sì metodi discutibili e perfino criminali ma i suoi scopi erano giusti: conviene non cercare nessun antidoto e lasciare le cose come stanno. Forse lo avrebbe voluto lo stesso Dante, il cui messaggio «non riguardava tanto i tormenti dell’inferno quanto la forza dello spirito umano nell’affrontare qualsiasi sfida, anche la più terribile». Questa «laicizzazione» di Dante, che ignora il profondo cattolicesimo del poeta, ha una lunga tradizione nel mondo esoterico, ma è del tutto infondata.

Nell’epilogo del romanzo Langdon medita sul fatto che il «peccato» esiste, ma non è quello di cui parla la Chiesa Cattolica. È la «negazione» (denial), una «pandemia globale» che fa sì che cerchiamo di non pensare alla bomba a orologeria della sovrappopolazione mondiale che ticchetta e che distruggerà certamente l’umanità, distraendoci e rivolgendo la nostra attenzione ad altri problemi, tutti in realtà meno urgenti.
La Chiesa Cattolica è la principale responsabile di questo «peccato» universale. Si oppone alla sterilizzazione di massa – di cui il virus del romanzo è un’ovvia metafora – e alla «diffusione capillare degli anticoncezionali», specie in Africa. La dottoressa Sinskey spiega che il Papa e i vescovi «hanno speso un’enorme quantità di soldi e di energie per indottrinare i paesi del Terzo mondo e indurli a credere che la contraccezione sia un male». «Chi meglio di un gruppetto di ottuagenari celibi può spiegare al mondo come si fa sesso?» risponde con il consueto livore anti-cattolico Langdon. E, in uno scambio con Zobrist, la Sinskey si vanta del fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha «speso milioni di dollari per inviare medici in Africa a distribuire profilattici gratis». Non serve, risponde Zobrist: «dopo di voi un esercito ancora più numeroso di cattolici si è precipitato ad ammonire gli africani che se avessero usato i profilattici sarebbero finiti all’inferno». Per fortuna, ci hanno pensato Bill Gates, il padrone della Microsoft, e sua moglie Melinda – che per avere «coraggiosamente sfidato l’ira della Chiesa» meriterebbero di «essere santificati» – a donare «cinquecentosessanta milioni di dollari per favorire l’accesso al controllo delle nascite in tutto il mondo». Ma anche questo sforzo è arrivato troppo tardi.

Chiudendo il romanzo, si rimane perplessi. Brown non può non sapere che quello dell’esplosione demografica è un mito, un «cavallo morto» – per usare un’espressione americana – distrutto da innumerevoli studi statistici che mostrano come gran parte del mondo soffra precisamente del contrario della sovrappopolazione. L’Europa e la Russia hanno troppe poche nascite, non troppe, e i giovani sono già diventati troppo pochi per mantenere livelli adeguati di produzione, di consumo e di contribuzione pensionistica a favore di chi ha cessato di lavorare.

La Banca Mondiale prevede che la Cina avrà a breve lo stesso problema. L’Africa stessa potrebbe mantenere una popolazione ben superiore a quella attuale, con una migliore e più razionale distribuzione delle risorse. In un momento in cui da tanti grandi economisti a Putin tutti paventano semmai il «suicidio demografico» evocato dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005) sembra paradossale che Brown si presenti a frustare il cavallo morto della sovrappopolazione, riprendendo un vecchio mito che sembrava perfino sprofondato nel ridicolo. Chi prende sul serio oggi il Club di Roma che nel 1970 prevedeva intorno al 2000 guerre mondiali per il controllo di risorse agricole che sarebbero dovute venire a mancare a causa dell’aumento della popolazione?

Ma Brown non è solo. Per rimanere a casa nostra Marco Pannella, Dario Fo, Eugenio Scalfari – per non parlare di Gianroberto Casaleggio, il vero capo del movimento di Beppe Grillo, che considera anche lui necessario ridurre da sette miliardi a un miliardo gli attuali abitanti della Terra per assicurare loro un luminoso futuro a cinque stelle – hanno cercato di rilanciare negli ultimi anni, in un coro unanime e sospetto, i vecchi miti della sovrappopolazione. Nostalgie della loro giovinezza? No, c’è una ragione precisa per questo ritorno a miti screditati. Si tratta di fare propaganda per la sterilizzazione forzata, l’aborto, l’eutanasia e anche per l’ultimo abominio, l’infanticidio dei bambini già nati – e sfuggiti all’aborto – di cui si paventano malattie gravi, mascherato sotto il nome ipocrita di «aborto post-natale» e per cui si è già cominciato a battere la grancassa.

Il virus del dottor Zobrist – purtroppo, direbbe Brown – non esiste, è solo un’invenzione da romanzo e non è possibile immetterlo nell’aria per sottoporre a sterilizzazione forzata, senza che possa in alcun modo opporsi, un terzo della popolazione mondiale e i suoi discendenti. Ma siccome la «negazione» e il non voler pensare all’inevitabile e relativamente imminente – cento anni al massimo – fine dell’umanità dovuta alla sovrappopolazione è l’unico vero «peccato», è chiaro che si deve fare qualcosa. Subito: e non manca, come in tutti i romanzi di Dan Brown, la solita avvertenza in prima pagina secondo cui tutti i riferimenti scientifici «si basano su dati reali». Così, il libro si risolve in un manifesto per quella che il beato Giovanni Paolo, Benedetto XVI hanno chiamato la cultura della morte: la cultura dei «disegni di morte» evocata da Papa Francesco nella Messa d’inaugurazione del suo pontificato. Se un virus che rende molti sterili non è disponibile, non resta che lottare contro le nascite con altri mezzi. E favorire le morti: Langdon ricorda che «negli Stati Uniti circa il sessanta per cento delle spese sanitarie serve a curare i pazienti durante gli ultimi sei mesi di vita». «Il nostro cervello capisce che è una pazzia», gli risponde la sua compagna.

La gemma di Kiko Arguello

La gemma di Kiko Arguello

di Antonio Socci da www.antoniosocci.com

Le giornate di ieri e di oggi del Papa con i movimenti colpiscono i media soprattutto per il fiume immenso di persone che arriva in Piazza San Pietro.

I movimenti nati nella Chiesa sono ormai come bei rami frondosi della grande quercia che abbraccia tutte le miserie umane.

Ma la cosa più rivelatrice è scoprire quella piccola “gemma d’aprile” da cui nascono questi rami. Perché nell’inizio è contenuta l’essenza di una cosa.

E senza il rinnovarsi di quella piccola gemma – come diceva Péguy – tutto il grande albero non sarebbe che legna secca. Da ardere.

Su queste colonne di recente ho raccontato la vicenda di Chiara Amirante e di Nuovi Orizzonti. Altre volte ho parlato di don Luigi Giussani e di Comunione e liberazione. In diverse occasioni ho ripercorso dall’inizio le apparizioni di Medjugorje riferendo dell’immenso popolo che da lì è nato.

Anche all’inizio di uno dei movimenti più grandi e vitali di oggi, il Cammino Neocatecumenale, c’è lo stesso “segreto”, la piccola gemma.

Tutto nasce sempre nel silenzio di un cuore umano affascinato da Cristo, trasformato e riempito delle sue grazie dallo Spirito Santo (è ciò che si chiama carisma).

Non c’erano finora libri che ripercorressero la storia del Cammino, ma nelle scorse settimane è uscito un preziosissimo memoriale dove è lo stesso Kiko Arguello, il fondatore, a raccontarla.

Quello di Kiko è un nome che alle cronache dei giornali forse dice poco (perché l’uomo non frequenta salotti), ma è invece molto importante per la Chiesa e per la vita del suo immenso popolo.

Kiko dunque racconta cosa gli è accaduto, come è stato sorpreso da Gesù e “chiamato”: il suo bel libro, “Kerigma”, è stato tradotto dalla San Paolo.

IL SUCCESSO E IL VUOTO

Francisco, detto Kiko, nasce a Léon, in Spagna, il 9 gennaio 1939, in una famiglia dell’alta borghesia. Dotato di buone doti artistiche da giovane frequenta l’Accademia di Belle Arti a Madrid. E naturalmente si trova immerso nel clima culturale delle élite del tempo che avevano i loro riferimenti esistenziali in autori come Sartre e Camus.

“Ho provato a vivere così, ma presto mi sono reso conto che, quando la vita diventa insopportabile, c’è solo un’uscita: suicidarsi. Dicono che ogni secondo si uccide una persona nel mondo”.

Nonostante la pittura lo avesse portato al successo, Kiko ricorda che ogni mattina si alzava con queste domande: “Vivere, perché? Per guadagnare soldi? Per essere felice? Perché? Avevo già soldi, già avevo fama, e non ero felice; ero come morto dentro. Ho capito subito che, se continuavo così, mi sarei ucciso”.

Ma, annota, “in questo cielo chiuso, Dio ha avuto pietà di me”. Infatti, nonostante il nichilismo respirato dovunque, “qualcosa dentro di me non era d’accordo che tutto fosse assurdo: la bellezza, l’arte, l’acqua, i fiori, gli alberi… Qualcosa non quadrava”.

Insomma “per me non era indifferente se Dio c’è o non c’è; era una questione di vita o di morte”.

Così “in un momento tragico della mia esistenza, entrai nella mia stanza, chiusi la porta e gridai a Dio: Se esisti, vieni, aiutami, perché avanti a me ho la morte!”.

Era una “discesa” nel baratro che Dio aveva permesso “per farmi umile”, spiega Kiko, “per farmi capace di gridare, di chiedere aiuto. E in quel momento avvenne un incontro”.

L’INCONTRO

Non c’è qui lo spazio per seguire, passo dopo passo, il cammino di Kiko. L’amicizia con i “Cursillos de Cristianidad” lo aiuta a liberarsi da “tanti pregiudizi che avevo contro la Chiesa” e che “venivano dai miei amici marxisti”.

Che contestava con un argomento molto acuto: “volete creare un paradiso comunista in cui ci sia giustizia per tutti. Ma se non date una risposta a tutta la storia, nel fondo siete dei borghesi”.

Chi darà giustizia – per esempio – alla massa di schiavi schiacciati come bestie per millenni? “E’ assurdo” obiettava Kiko “che per alcuni ci sia giustizia e per altri no”. Se non c’è un’altra vita e una giustizia suprema e totale per tutti non può esserci nessuna giustizia.

Poi Kiko fa l’esperienza del deserto e dell’adorazione con i Piccoli Fratelli di De Foucauld. Infine un episodio. Un giorno di Natale, in una casa facoltosa, trova la donna di servizio a piangere.

Lei gli racconta il suo dramma, un marito violento e alcolizzato, orrori vari, la vita in un quartiere spaventoso. Da qual momento Kiko scopre “una sofferenza umana inaudita… Ho capito che c’è una presenza di Cristo in coloro che soffrono, soprattutto nella sofferenza degli innocenti”.

LA BARACCA

Così il giovane artista, ricco e famoso, lascia tutto e va a vivere fra i poveri. In baracche terrificanti. E lì, alla periferia estrema di Madrid, in “una piccola valle piena di grotte, dove c’erano zingari, ‘quinquis’, barboni, clochard, mendicanti, vecchie prostitute…una zona orribile”, proprio lì nasce il Cammino neocatecumenale, una delle realtà più straordinarie della Chiesa di oggi.

Ma, attenzione, Kiko andò lì solo per condividere quella povertà, per amore di Gesù, non andò affatto lì per fare qualche opera sociale, né per fondare un movimento ecclesiale. Neanche ci pensava.

Anzi, era refrattario ogni volta che – all’inizio – qualcuno di quei poveracci a cui raccontava di Cristo voleva che parlasse in pubblico, a tutti.

Kiko all’inizio non voleva saperne, “ma il Signore mi ha obbligato, in quell’ambiente” a catechizzare “perché volevano che parlassi loro di Gesù Cristo”.

Questa è una caratteristica di ogni movimento ai suoi inizi. Non è un progetto umano, non nasce per la volontà di un uomo. E’ sempre Cristo che si rende presente con potenza attraverso la povera umanità di un uomo.

LE LACRIME DEL VESCOVO

Gli aneddoti che Kiko racconta su questo periodo sono freschi, a volte drammatici e struggenti, a volte divertenti. Un giorno arriva la polizia, vuole sgomberare le baracche. Per una serie di circostanze viene chiamato lì pure l’arcivescovo di Madrid, monsignor Morcillo, e “scopre” Kiko, vede dove e come vive, quello che fa. E si commuove profondamente.

Gli dice: “Kiko, io non sono cristiano. Guarda, da oggi il mio palazzo episcopale è sempre aperto per te”.

Siamo attorno al 1965-66. E’ appena finito il Concilio. La predicazione di Kiko comincia a diffondersi a Madrid. Poi valica i confini. Dopo il ’68 arrivano dall’Italia quelli delle comunità di base, affascinati da ciò che hanno sentito di lui. Ma quando Kiko, barba lunga e giacca verde alla Che Guevara, arriva a Roma, “lì, in un’assemblea, tutta di giovani di sinistra, ho detto che Lenin e Che Guevara erano falsi profeti e ho parlato di Cristo che non resiste al male, gettando a terra tutte le loro idee. Sono rimasti di stucco”.

Poi alcuni lo hanno portato a “una messa beat” e alla fine gli hanno chiesto: “che te ne sembra?”. Risposta fulminante: “Non si rinnova la Chiesa con le chitarre”. “No? E con cosa?”. Risposta: “Con il Mistero Pasquale, con il kerigma”.

Il kerigma, che è il cuore dell’annuncio di Kiko, è la notizia – data con la forza dello Spirito Santo – di Dio fatto uomo, morto per noi e risorto. E’ iniziata così un’avventura straordinaria.

VERSO IL MONDO

Oggi a Roma il Cammino è presente in cento parrocchie e ci sono circa 500 comunità. Il movimento ormai vive in cento nazioni del mondo. Tantissime sono le famiglie del Cammino che partono per la missione ai quattro angoli della Terra.

“Il Signore” dice Kiko “ci ha ispirato che dobbiamo preparare 20 mila sacerdoti per la Cina”. Di recente, in un grande incontro, ha invitato i giovani presenti a offrirsi per l’evangelizzazione di quel Paese “dove ci sono un miliardo e 300 milioni di persone che non conoscono Cristo… si sono alzati e sono venuti verso il palco circa 5.000 giovani. Non sapevamo dove metterli. Era un fiume enorme di ragazzi… E dopo si sono alzate circa 3.000 ragazze”.

La Sacra Scrittura annuncia che “il Signore compie meraviglie”. Ma tutto comincia sempre attraverso il semplice “sì”, personale, intimo, che una creatura gli dice. Nel silenzio del mondo. Così la Chiesa rinasce e attraversa i millenni e abbraccia i continenti riempiendoli della luce del Salvatore.

Antonio Socci

Ps  Faccio sommessamente notare che stamani per i giornali italiani (con rarissime eccezioni) l’incontro di 300 mila persone dei movimenti con il papa in Piazza San Pietro, non è una notizia degna della prima pagina….
C’è d ridere o da piangere per questo sistema mediatico?

Scomparsa della famiglia, dei bambini, delle coppie…

Scomparsa della famiglia, dei bambini, delle coppie…

di Domenico Bonvegna

In Italia oltre alla crisi economica c’è un’altra crisi, è la rivoluzione demografica, che ha un preciso anno d’inizio 1975 e si conclude 25 anni dopo. Lo scrive Roberto Volpi nel suo libro La fine della famiglia, sottotitolo: la rivoluzione di cui non ci siamo accorti. Libro pubblicato da Mondadori nel 2007. In questo periodo l’Italia ha perso 350 mila nascite annue, mentre il numero medio di figli della donna italiana nel corso della sua vita riproduttiva si è ridotto esattamente dela metà, passando da 2,4 a 1,2. Ce ne siamo accorti? Si chiede Volpi, forse si, forse no, indubbiamente ancora si fa fatica a prenderne coscienza. “Ancora oggi stentiamo a capire quali ricadute sociali comporti il fatto che i bambini siano diventati così pochi. Diciamo denatalità e il pensiero corre a qualcosa di tecnico, lontano dalle cose e dai problemi di tutti i giorni”. Eppure questo fenomeno ci tocca da vicino e non possiamo far finta di niente.

 Non è la prima volta che sui giornali o in televisione si sente dire che in Italia non si fanno più figli, che i divorzi aumentano e che i giovani restano a casa dai genitori ben oltre i trent’anni. Ma tutto questo non fa scattare l’allarme, si pensa che l’archetipo familiare non viene intaccato, si pensa che ancora la nostra società è composta in grandissima maggioranza da famiglie tradizionali. Il professore Roberto Volpi dimostra che il Paese è completamente cambiato:“un quarto delle famiglie è formato  da un solo individuo (single, divorziato, vedovo), quasi un altro quarto da coppie senza figli, e per il resto da una maggioranza di coppie con un unico foglio e da un numero crescente di famiglie con un solo genitore”.

 La prova di questa dura realtà si può riscontrare soprattutto nelle nostre grandi città,  basta frequentare qualche Ipermercato, o qualche mezzo pubblico. Si constata, almeno quelli che frequento, nelle poche carrozzine spesso ci sono bambini figli di extracomunitari.

 Volpi è uno statistico, presenta i freddi dati dell’Istat, che costituiscono la fonte principale del suo lavoro, traccia un ritratto davvero sconcertante della società italiana, che negli ultimi decenni è cambiata più di quanto noi crediamo.

 Ma come mai siamo arrivati a questa vera e propria scomparsa della famiglia, dei bambini, delle coppie? Si Chiede Volpi. Quali sono le sue cause? Come mai la forza di questo mutamento non viene riconosciuta, nonostante sia stata fotografata senza possibilità di dubbio dai censimenti degli ultimi decenni?

 E’ probabile che a questa rivoluzione abbia contribuito la legge sul divorzio e quella sull’aborto, ma il testo non è preciso in merito. Volpi nel testo non lo chiarisce ma ciò che ha generato il calo demografico, vero dramma per i Paesi europei e in particolare per l’Italia è stato il controllo delle nascite, attraverso la contraccezione e l’aborto. Alla base della crisi economica principalmente c’è il calo delle nascite.

 Il libro di Volpi lancia un grido di d’allarme,“perchè la fine della famiglia italiana italiana non è affatto un’eventualità improbabile e distante, ma molto vicina e attuale, e non possiamo più permetterci di ignorare una rivoluzione passata per troppo tempo inosservata”.

 Tra i caratteri della mutazione della famiglia italiana secondo Volpi c’è la dissociazione crescente tra famiglia e figli. Per la prima volta nella storia dell’umanità, la famiglia, in quanto istituzione non tende necessariamente ai figli ma risulta, al contrario, da essi sempre più svincolata”. In pratica, in Italia si può fare famiglia, a prescindere dai figli, senza metterli al mondo. Certo questo accade per motivi economici, per la crescita dei costi di mantenimento di un bambino, per una totale mancanza di politiche familiari. Ma i problemi non sono solo questi secondo Volpi, ma il vero e più grande problema è un altro: “oggi non si fanno figli anche e forse soprattutto per la sopravvenuta trasformazione dei nostri modelli culturali. Per l’affievolisrsi dell’istinto di sopravvivenza della specie, del senso della continuità biologica(…)”. Comunque sia un dato è certo e non può essere ignorato, la famiglia di oggi non ha più nel suo orizzonte i figli come obiettivo e completamento.

 Un altra questione che il libro di Volpi affronta è la scomparsa della coppia. Una crisi di cui non si parla. Spesso si parla della crisi delle coppie già formate, ma non c’è solo questa, c’è la crisi della coppia che non si forma. Gli italiani, e segnatamente i giovani, trovano crescenti difficoltà a mettersi insieme, a fare coppia, a mettere su famiglia”.

  Volpi elenca i motivi per cui i giovani non fanno il passo in direzione della coppia, del matrimonio, della famiglia. Intanto perchè vivono bene come e dove stanno; perchè preferiscono il certo all’incerto del domani; perchè temono le sicurezze.

  Ormai è noto i giovani italiani vivono in famiglia molto più a lungo di quanto non avvenga nell’Europa centrale e soprattutto settentrionale. Ai giovani d’oggi secondo Volpi, “non ci si azzarda quasi più a chiedere di costruire qualcosa di positivo che riguarda il loro futuro, le loro prospettive di vita, e si insiste invece sui pericoli sui pericoli sempre incombenti di cadere in qualcosa di negativo(…)Di un giovane che non combina nulla di buono fino a trent’anni si sente dire sempre più spesso che se non altro non si droga, se non altro non è delinquente”. Pertanto, il non combinare nulla passa in seconda linea rispetto al fatto che non si droga e non delinque.

 Per Volpi questi giovani vivono in una specie di rete protettiva, sono sollevati da ogni vera e propria responsabilità (di studiare, di lavorare, di trovarsi una compagna/o, di mettere su famiglia, di contribuire alle spese). Paradossalmente i giovani d’oggi hanno smesso i panni degli eterni oppositori, dei contestari per definizione dei padri, adesso indossano quelli concilianti e ragionevoli. Il professore Volpi definisce l’irresponsabilità dei figli d’oggi come una vera e propria dittatura strisciante dei figli sulla famiglia. Un fenomeno nuovo è l’allungamento dei tempi in famiglia da parte delle femmine rispetto ai maschi, tra l’altro queste mediamente si laureano in più alte proporzioni e in tempi più brevi.

Tuttavia se i figli lasciano casa e famiglia e per andare in un’altra casa appositamente approntata per loro dai loro genitori. “I genitori si caricano sulle spalle le responsabilità dei figli nella convinzione che sia giusto così o, se pure non arrivano a tanto, nella convinzione che, visto l’andazzo delle cose, del mercato del lavoro e di quello della casa, nonché della situazione economico-sociale-generale, delle leggi e della loro interpretazione e applicazione, non si possa fare altrimenti”.

 In pratica i sacrosanti diritti dei bambini e dei minorenni, sono passati tout court e in modo del tutto automatico e improprio diritti dei figli in quanto tali. Più avanti il libro ci dà conto che ormai hanno vinto i celibi e le nubili, é il vero cambiamento culturale, epocale. E a causa di questo trionfo “che ha portato la popolazione italiana a diventare campione del mondo per il tasso di fecondità totale e la proporzione di bambini nella popolazione: tanto bassi entrambi che non ce n’è praticamente l’uguale”.

La nuova evangelizzazione nell’anno della fede

La nuova evangelizzazione nell’anno della fede

di Domenico Bonvegna

In occasione dell’Anno della Fede sono stati pubblicati diversi testi, qualcuno l’ho presentato ai lettori. In questi giorni sto leggendo un ottimo libretto, “Una ‘Nuova Evangelizzazione’. Che fare? Come fare, di Antonio Aranda, edito da Ares (2012, Milano) volutamente breve, e ridotto, come scrive l’autore. Un testo che intende “contribuire a promuovere – insieme con altre opere analoghe e soprattutto accanto ai documenti emanati dalla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi – le desiderate riflessioni su un tema tanto importante per la Chiesa”.

 A parlare di Nuova Evangelizzazione aveva iniziato Paolo VI con l’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi”, ripresa energicamente dal beato Giovanni Paolo II. Poi con Benedetto XVI, il progetto si consolida con l’istituzione di un Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, ora spetta a Papa Francesco promuoverla con rinnovato vigore e vitalità per rievangelizzare il mondo soprattutto quello occidentale che aveva già avuto una prima evangelizzazione.

 Il testo del professore Aranda contiene una impietosa analisi della situazione culturale odierna e offre spunti operativi concreti, come si può dedurre dal sottotitolo, “Che fare? Come fare?”. Il libro viene definito da monsignor Rino Fisichella, un“prezioso strumento per aiutare a comprendere il momento attuale e soprattutto l’urgenza della Nuova Evangelizzazione”.

 Oggi c’è una crisi di fede, ma anche antropologica: l’uomo si ritrova “solo e confuso, in balia di forze di cui non conosce neppure il volto, e senza una meta verso cui destinare la sua esistenza”. Pertanto si rende necessario “ricostruire il tessuto culturale in modo da proporre un’antropologia nuova, capace di ricollegare Dio con l’uomo”. Perciò per monsignor Fisichella “è urgente una Nuova Evangelizzazione che si assuma la responsabilità di entrare nella cultura per conoscerla, comprenderla e orientarla al Vangelo”.

 Giovanni Paolo II è stato forse il pontefice che ha insistito di più sull’urgenza della Nuova Evangelizzazione. Ai vescovi latino-americani che si preparavano a celebrare il V centenario di evangelizzazione del loro continente, egli diceva: “La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione avrà il suo pieno significato se sarà un impegno(…)non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nelle sue espressioni”.

 Ovviamente secondo Fisichella, “il messaggio del Vangelo è immutabile, tuttavia dobbiamo prendere nota dei cambiamenti avvenuti nella società, negli uomini e nelle donne ai quali è diretto l’annuncio”.

 Le riflessioni del libro di Aranda, potrebbero essere sintetizzati così: “la nuova evangelizzazione è l’occasione propizia per rianimare l’azione apostolica dei cristiani in tutti gli ambiti della società”. Questo però potrà accadere soltanto se la Chiesa recupera vitalità. In questo momento storico per Aranda serve una Chiesa efficace non debole, sembra aver preannunciato il grande gesto del ritiro di papa Benedetto XVI. I cristiani di oggi si comportano come una squadra in condizioni atletiche precarie, senza il desiderio di giocare e di vincere.“La grande partita della storia che si gioca ogni giorno scrive Aranda – sta per essere perduta”. Peraltro, l’eclissi di Dio o di Cristo nella società contemporanea, secondo Aranda, è “l’eclissi dei cristiani in quanto cristiani, ossia in quanto discepoli di Cristo”.

 La struttura del libro viene presentata dall’autore nell’introduzione: le questioni di fondo sono raccolte in due sezioni: Che fare? (cap. I) e Come fare? (cap. II). Ultima sezione, Quattro priorità (ca. III).

 Nel primo capitolo si esamina la nozione di evangelizzazione come tale, nel significato della nuova evangelizzazione, nella sua novità, legata ai destinatari, dei modi di realizzazione e degli operatori. Prima di iniziare l’opera evangelizzatrice occorre “identificare e formulare con la maggiore chiarezza possibile le ragioni religiose, culturali e sociologiche che hanno favorito il fenomeno dell’oscuramento della identità cristiana e, con ciò, il cambiamento di modello antropologico e delle convinzioni etiche”.

 Il chiarimento di queste cause permetterà di pianificare la nuova evangelizzazione, che deve essere:“un amichevole e attraente invito a riscoprire Cristo e nell’appartenenza alla Chiesa le proprie radici personali e collettive”. Intanto i mezzi impiegati nella prima evangelizzazione sono necessari anche oggi. Mezzi che“si possono riassumere nella testimonianza di vita di fede personale e collettiva da parte dei fedeli, testimonianza di carità, di allegria e di servizio nelle relazioni con tutti gli altri cittadini”. A questo proposito è interessante l’opinione del sociologo americano Rodney Stark, sull’espansione del cristianesimo nell’Impero romano. In quella società dura e crudele con le persone, la Chiesa si espanse  perché era una società accogliente, dove si poteva fare esperienza di libertà e di amore. I cristiani erano gli unici che si prendevano cura degli anziani, dei malati, dei poveri, dei bambini…

 Trovo interessante il II capitolo: la crisi di identità della coscienza cattolica.Qui il professore Aranda pone una interrogazione provocatoria: che cosa significa essere cattolici oggi, in Francia, in Spagna, in Italia? Le società occidentali da decenni soffrono il grave fenomeno dell’indifferenza religiosa, che dipende da concezioni culturali, politiche ed economiche. L’oscuramento del senso religioso è legato a due motivi: lo stile clericale, una tendenza di vita cattolica, dove si vede operare un laicato immaturo. In pratica si collocano i tratti dell’identità cattolica nei dintorni del mondo ecclesiastico.

 L’altro motivo è quello della spinta alla secolarizzazione da parte della cultura illuminista, che si è diffusa fino ai nostri giorni. Questa cultura per Aranda ha prodotto in molti intellettuali cattolici una furia iconoclasta, provocando una sorta di “complesso di nferiorità e una certa timidezza nel sostenere con vigore la dottrina e la morale cattolica e difendere in modo coerente la contiguità tra fede e ragione”. Sostanzialmente il pensiero cattolico secondo Aranda è rimasto intimidito e in silenzio troppo a lungo. Questo ha provocato a partire dall’epoca conciliare, gli anni sessanta e settanta, una crisi di identità, una crisi esistenziale e anche una crisi teologica-dottrinale.

Ma su questo tema ritorneremo presto.

Il sesso non si inganna

Il sesso non si inganna

Un nuovo libro, tutto sulla sessualità, necessario per riscoprire questa energia di base della persona sotto una luce completamente nuova

di Padre Angelo Benolli – Fondatore e Presidente di Italia Solidale da http://www.ioacquaesapone.it

(Estratto dal nuovo libro di P. Angelo Benolli “Il sesso non si inganna”)

In questo libro vedremo che tra il sesso, l’amore, lo spirito, la mente e il corpo vi è una stretta correlazione. Vedremo che il sesso non è l’amore, ma si sviluppa e si riproduce solo nell’amore. Vedremo che l’amore è la fonte dello spirito e che solo lo spirito rende la mente sana e sapiente. Vedremo anche che il corpo ha bisogno dell’ordine di tutte queste energie, per essere sano e forte. In tutto questo insieme però, la sessualità che ruolo ha? Come mai vi sono così facilmente disturbi e deviazioni sessuali?

La nostra cultura attuale è caratterizzata da un grande disordine nell’informazione e nella prassi riguardante l’ordine di sviluppo delle energie sessuali. Quante persone, quante coppie, quante famiglie vivono tragedie di vita sessuale! E chi le aiuta? Quando penso a una psicanalisi atea, ad una scienza razionalistica e materialistica, ad una psicologia senza spirito e senza Dio, ad una Fede farisaica e legale più che esistenziale e personalistica, mi si drizzano i capelli pensando ai cimiteri sessuali che esse producono.

Il sesso è talmente connesso con l’amore che non si può pensare a un sesso sano senza tutto lo spirito d’amore che l’energia sessuale richiede. Quando questo spirito è carente, c’è subito un disturbo dell’energia sessuale. L’energia sessuale, base dell’identità della persona (maschio o femmina), è un’energia primaria, unica, irripetibile. Però, nello stesso tempo, nasce dalla relazione, cresce e si riproduce solo nella relazione d’Amore. Le false relazioni producono sempre, in proporzione della loro gravità, disturbi sessuali. Quando e nella misura in cui la relazione d’amore è carente, le energie sessuali soffrono, deviano, si fissano, si ammalano. Quando l’energia sessuale è disturbata, tutta la persona è disturbata, tutte le relazioni sono disturbate, tutto lo spirito, la psiche e il corpo sono disturbati.

Ogni disturbo sessuale è un disturbo di carenza di libertà e d’amore e si ripara solo nella libertà e nell’amore. Ho parlato qui di libertà per far notare che prima delle relazioni esiste la persona basata sulla sua identità sessuale. La Sacra Scrittura dice: “Maschio e femmina li creò”, ma subito aggiunge “per questo si staccheranno dal padre e dalla madre”. Questo significa che l’energia d’identità è prima dei genitori, prima di ogni persona e di ogni cosa: quest’energia, infatti, pur sviluppandosi nella relazione d’amore con il padre e con la madre, non dipende da essi. La libertà è la base della forza d’identità. Il sesso è relazione, ma quando le relazioni vanno contro le energie sessuali vanno interrotte. La forza della libertà dello sviluppo della propria sessualità è la base necessaria e personale dell’amore. Non vi è amore senza libertà, come non vi è libertà senza amore.


I SUOI LIBRI TRADOTTI IN 90 LINGUE

Presidente e fondatore di “Italia Solidale – Mondo Solidale” sacerdote, scienziato, antropologo e missionario. I suoi libri sono tradotti in 90 lingue, contengono una proposta di approfondimento sulla vita di ciascuno, attraverso cui moltissime persone sono uscite dagli inganni personali, relazionali e culturali, ritrovando la propria identità, la propria spiritualità per poter ben amare e ben lavorare fino a essere sussistenti e solidali.

Risé: «Mancano i padri che ci mostrino il senso e la strada. Ma dalle nostre ferite possono rinascere»

Risé: «Mancano i padri che ci mostrino il senso e la strada. Ma dalle nostre ferite possono rinascere»

di Benedetta Frigerio da www.tempi.it

Intervista allo psicanalista di fama internazionale Claudio Risé, autore del libro “Il padre. Libertà dono”. 

Risé Il padreUna società senza padri è destinata a soccombere, è necessario il loro ritorno. Sono in tanti a dirlo, ma per lo psicanalista di fama internazionale Claudio Risé, come si legge nel suo libro appena pubblicato, “Il padre. Libertà dono” (Ares, 192 pagine, 14 euro), questo «non significa un ritorno al padre autoritario da cui siamo scappati, quello delle leggi e dell’imposizione dall’alto», spiega a tempi.it. A mancare è un padre capace di tenerezza, «che è il contrario di un vago sentimento o di un servilismo nei confronti di figli padroni. La tenerezza è accoglimento dell’altro per quello che è. Il padre deve rispettare la diversità del figlio e accompagnarlo a scoprire chi è, senza imporre propri schemi, dicendo con affettuosa fermezza dei no là dove siano necessari a non farsi male».

L’assenza di un padre simile conduce la persona o a chiudersi in se stessa, rifiutando il mondo sentendolo nemico, o a omologarsi, facendo di tutto per avere l’approvazione degli altri. Come si esce da questa polarità?
Serve una madre che accolga pienamente il bambino, in completa sintonia, e lo rassicuri nei contatti con l’esterno: tale funzione, in una presenza affettiva costante, è fondamentale nei primi anni di vita. Il padre deve poi subentrare per staccare il figlio da questo rapporto per  stimolare il suo sviluppo personale e condividere con lui la ricerca del senso della vita, in un rapporto educativo di testimonianza. Si riceve amore e supporto e la persona cresce capace di stabilità e responsabilità verso il prossimo, contribuendo al benessere di tutta la società.

Parla delle patologie ignorate da chi predica la normalità dell’assenza di una figura paterna o materna, della famiglia omosessuale, dei figli che nascono in laboratorio, dell’aborto in cui il padre è messo da parte. Lega le stragi americane ai problemi familiari di chi le ha compiute. Parla del tabù per cui si finge che le madri che lavorano senza mai vedere i figli sono identiche a quelle che li accudiscono. Quale impatto avrà questo modello sulle generazioni future?
Si vede già ora: le patologie psichiatriche sono in forte crescita. Da una parte negli ultimi trent’anni sono enormemente aumentati i giovani chiusi in se stessi, soli anche se in compagnia e incapaci di costruirsi una vita basata su relazioni stabili. Dall’altra parte l’assenza del padre genera un narcisismo patologico in cui la persona ha bisogno di continue conferme di sé, prigioniera di una fragilità destabilizzante che la fa essere in balia di tutto. Incapace di fidarsi (innanzitutto di sé) per via del padre che ha abdicato, non sa confrontarsi né accogliere l’altro, di cui dubita sempre. Questa situazione è sfruttata economicamente  attraverso comunicazioni e consumi indotti e dipinta come positiva dal circo massmediatico. Così  la persona sofferente, lasciata nella sua sostanziale solitudine anziché aiutata a uscirne, rimane insicura e dipendente e sviluppa angoscia.

Eppure si continua a mascherare il malessere crescente e il fatto che le psicopatologie toccano il 38 per cento della popolazione europea.
I dati clinici si fanno più allarmanti di mese in mese. Nel libro cito ampi studi che collegano lo sviluppo delle patologie psichiatriche alle modifiche che hanno trasformato e indebolito i rapporti familiari primari con la madre e il padre.

Di chi è la responsabilità?
La famiglia spesso non conosce più la propria funzione e il valore di ciò che in essa si  vive. Il problema è quindi alla radice, nella consapevolezza dell’esperienza che si fa. Per questo Benedetto XVI spiegò che la famiglia è alla base dell’esperienza umana, il luogo dove attraverso i legami affettivi primari  si scopre e si ama l’altro nella sua diversità, anche sessuale (e non identità a sé), e quindi anche se stessi nella propria specifica identità. Solo nel vivere questo impegno, accettandone le fatiche e le sfide, se ne scopre la ricchezza, che è la crescita della persona, in un contesto amoroso, anche se costantemente sfidato. Come ripeté papa Ratzinger prima dell’ultimo Natale: la famiglia è la condizione necessaria allo sviluppo integrale di un essere umano.

Come un uomo può riprendersi da una condizione alienante?
Uscirne è possibile in un percorso lungo che richiede tempo, pazienza e amore. Senza libertà e volontà, la persona non può compiere un cammino di liberazione. Aiutano molto le pratiche religiose come la preghiera, fatta anche con il corpo, i digiuni, il nutrimento dei sacramenti. Tutto questo compensa l’inadeguatezza o la perdita del padre biologico con l’alleanza col Padre della vita. Perché in questi momenti di relazione forte con Dio padre la persona si riequilibra, si riscopre figlio amato e comincia a vederlo anche nell’altro ed in tutta la creazione.

Basta questo?
Servono anche padri che rappresentino il Padre. Persone che ci indichino il senso, la nostra strada per riconoscerlo, e che la ricerchino con noi. Servono contesti in cui i legami siano veri, comunità in cui ci si supporti l’uno con l’altro, spiritualmente, affettivamente  e materialmente. Ne abbiamo urgenza sia noi sia gli altri. Le persone sono sempre più isolate: quando le incontriamo dobbiamo fare di tutto per rompere questo isolamento. Dobbiamo costruire dei ponti, come ci sta ricordando papa Francesco.

Perché allora, come descrive lei ad esempio terapeutico, la madre siro-fenicia che chiede aiuto a Gesù perché guarisca la figlia all’inizio non viene ascoltata?
In lei c’è ancora una fantasia di fusione totale: vuole imporre a chi la aiuta, Gesù, cosa fare senza “vedere”, considerare nella sua alterità la persona a cui si rivolge. Come molte madri fanno rivendicando i diritti dei figli (o i loro diritti sui figli). Cristo allora chiede alla donna un rapporto di amore e  insieme di distanza da sé. Lei accetta e la bimba guarisce. Perché serve una distanza? Perché senza di essa non riconosciamo l’altro, e quindi non gli consentiamo di incontrarci. È un continuo esercizio di relazione amorosa, ricevere e donare, stare e andare, di cui l’emblema è la vita monacale, dell’Ora et Labora.

Insiste sulla necessità di essere padri. Ma come può esserlo una generazione che non ne ha avuto uno?
Le nostre ferite sono le nostre fonti primarie di vita. Se le guardiamo e le affrontiamo nel processo sopra descritto, diventano sorgenti d’amore e di acqua viva. Penso alla ferita del costato di Cristo davanti a noi in questo triduo pasquale appena passato: insieme al sangue ne esce acqua, che rende fertile il terreno che la riceve. Da lì scaturisce l’amore che ancora oggi perdona, converte e costruisce la Chiesa. Non sarà dagli sviluppi tecnologici, dal pensiero astratto e intellettuale che rinascerà la vita vera e una società umana. Ma da una sofferenza tale, come dice il filosofo Pietro Barcellona, che l’uomo pur di uscirne sarà disposto a seguire un bene da cui farsi salvare.