Una scuola materna di Milano abolisce la “Festa del Papà” per rispetto delle famiglie “same-sex”

(di Rodolfo de Mattei suOsservatorio Gender) Una decisione figlia di una ideologia falsa e iniqua che, negando l’esistenza di un principio di verità, mette sullo stesso piano il bene e il male e, paradossalmente, eleva a suo valore supremo e assoluto il principio relativista.

padreUna scuola materna di Milano, zona quartiere Isola, ha abolito la “Festa del Papà” per “rispetto” dei bambini figli di coppie same-sex che un papà, purtroppo per loro, non ce l’hanno e non lo hanno mai avuto, essendo composte da due mamme. A riportare la notizia è l’“ANSA” che scrive come ai bambini della scuola al centro del nuovo “caso gender”, in occasione della tradizionale ricorrenza del 19 marzo, festa di San Giuseppe, sia stato chiesto di preparare un insolito lavoretto politically correct sull’origine delle diverse etnie, piuttosto che realizzare un disegno o preparare una poesia per il proprio papà: 

Lo scorso anno avevano portato a casa un disegno con i colori della varie squadre di calcio e al centro la foto del loro papà. Come tutti i loro coetanei anche i bambini della scuola materna del quartiere Isola di Milano, erano stati impegnati per settimane a completare il loro lavoretto per la Festa del Papà. Ma quest’anno la programmazione è cambiata: il lavoretto non sarà legato alla ricorrenza del 19 marzo, ma all’origine delle varie etnie”.

Alle tante polemiche, sorte in seguito a tale inedita decisione, ha replicato, in consiglio comunale, l’assessore all’Educazione del Comune di Milano, Francesco Cappelli che ha liquidato la vicenda come una semplice montatura mediatica:

Il collegio insegnanti ha deciso quest’anno di non fare il tradizionale lavoretto per la festa del papà, ma di far realizzare ai bambini un biglietto per l’occasione, con una missiva. Tutto il resto è solo una montatura”.

Di tutt’altro avviso un papà che, intervistato davanti alla scuola, ha sottolineato il proprio totale disappunto per l’abolizione di una festa di lunga tradizione, cosi carica di significato, in particolare modo per i bambini:

Sì la maestra mi ha appena spiegato che i bambini faranno un biglietto d’auguri con una frase dettata da lei, ma non è la stessa cosa: non capisco perché eliminare una consuetudine che si concretizzava con un gesto d’affetto e restava nel tempo”.

Il vero motivo alla base di tale folle disposizione scolastica lo ha rivelato, senza giri di parole,una nonna di una piccola alunna, la quale ha sottolineato come, dietro alle varie giustificazioni di facciata, vi sia la volontà di non urtare la sensibilità di alcuni bambini con due mamme o due papà:

Non ci sono dubbi che il motivo è questo, nella classe di mio nipote c’è una bimba che vive con due mamme”.

La soppressione della tradizionale Festa del Papà in favore di un lavoretto “multietnico” rappresenta magistralmente il volto nichilista e falsamente neutrale della odierna dittatura gender e omosessualista. Nichilista, in quanto abolisce e disconosce, in un’irrazionale impeto autodistruttivo, le proprie identità e tradizioni, in nome di un vuoto e insignificante principio di non-discriminazione. Falsamente neutrale, poiché ogni scelta, per definizione, implica effetti e conseguenze, e la cancellazione della “Festa del Papà” costituisce il coerente e logico esito del riconoscimento sociale di ogni tipo di famiglia. Una decisione figlia di una ideologia falsa e iniqua che, negando l’esistenza di un principio di verità, mette sullo stesso piano il bene e il male e, paradossalmente, eleva a suo valore supremo e assoluto il principio relativista. (di Rodolfo de Mattei su Osservatorio Gender)

Cosa si nasconde dietro l’ideologia del gender

Cosa si nasconde dietro l’ideologia del gender

di Caterina Giojelli

Un libro di Aldo Vitale per non “tranquillizzare la propria coscienza” e tornare finalmente a ragionare.

Cop Gender questo sconosciuto.indd«Non è vero – scriveva Pier Paolo Pasolini in Lettere Luterane – che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che la società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua “accettazione realistica” è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti».

Tirare avanti: fin dove? Thomas Beatie non è un uomo, ma una donna: si chiamava Tracy Lagondino prima di innamorarsi di Nancy. I due decidono di avere un figlio: grazie alla donazione del seme da parte di un amico e a una inversa terapia ormonale, si procede con una fecondazione assistita eterologa e a portare avanti la gravidanza è proprio Tracy-Thomas. Oggi i due hanno tre figli che hanno una madre che vuole fare il padre (Tracy-Thomas, appunto), una madre “sociale” (Nancy) e un padre biologico (il donatore) grazie al quale è stata innescata l’intera procedura. Una vicenda resa ancora più complicata dalla separazione, dopo lungo travaglio giudiziario, dei due, un arresto per stalking di Tracy-Thomas nei confronti dell’ex moglie e una intervista rilasciata lo scorso dicembre al Sun in cui l’ormai celebre “pregnant man”, parlando dei suoi figli e dichiarando di volerne altri dalla sua nuova compagna Amber, racconta che il piccolo Austin «aveva i capelli lunghi e ha iniziato a dire che voleva essere una ragazza quando aveva tre anni», mentre Susan, la primogenita, a 7 anni gli ha già chiesto se tutte le ragazze debbano, prima o poi, diventare maschi. Una storia che è un caso limite? No, una storia con tutti i limiti del caso, piena di risvolti etico-giuridici e paradossi etico-esistenziali di immediata (e drammatica) comprensione.

La vicenda di Tracy-Thomas, una delle molte restituiteci da questi assurdi tempi di opposizione dei diritti/desideri/amori umani all’esercizio stesso del diritto, non è che infatti una delle tante propaggini connesse al tema del pensiero gender, per cui «ciò che è rilevante ai fini della propria identità non è più ciò che uno è, ma ciò che uno ritiene di essere; per cui ci si può percepire come maschio, come femmina, come entrambi o come nessuno dei due», un pensiero radicato in un soggettivismo etico, che combinato agli sviluppi tecnoscientifici conduce in fretta «a tutta una complicata e insolita tipologia fenomenologica che, invece di mettere in evidenza il diritto rivendicato, espone sotto gli occhi di tutti quanto il diritto, nella sua essenza strutturale, venga semmai violato».

Non manca il coraggio della verità ad Aldo Rocco Vitale, autore dell’efficace Gender questo sconosciuto (Ed. Fede & Cultura, 12 euro), 133 pagine e 30 capitoli che rispondono ai tanti punti oscuri sul pensiero poco conosciuto, sottovalutato e da più parti negato come invenzione propagandistica della Chiesa cattolica: il gender, appunto, andato configurandosi nella storia come quel «momento di negazione della differenza sessuata dell’essere umano, o meglio, come pensiero teso a elidere il dato dell’elemento biologico-naturale per sostituirlo con l’elemento psicoculturale». Avvocato, firma preziosa di numerose testate online (fra cui Tempi), socio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Vitale si destreggia tra storia e casi di cronaca, mostrando con chiarezza per ciascuno di essi paradossi e problemi antropologici e biogiuridici che il pensiero gender porta inevitabilmente con sé, arrivando ad esprimere «il livello più avanzato di annientamento radicale dell’essere dell’uomo».

Che si tratti di un vero e proprio totalitarismo, «lo si comprende facendo riferimento agli elementi che secondo la più nota ed autorevole teorizzatrice del tema, Hannah Arendt, sono necessari per dar vita, appunto, ad un totalitarismo: l’ideologia, la massa da indottrinare e la polizia politica per tacitare chiunque dovesse resistere all’indottrinamento». Vitale non ha paura di usare le parole giuste, avvalorare la sua scrittura chiara con i contributi di numerosissimi pensatori, da Karl Marx a Judith Butler, dal professor Francesco D’Agostino a Benedetto XVI, e instrada il lettore sulle vie della nascita e dello sviluppo complesso del gender che lungi dal rappresentare un’invenzione vaticana si afferma in un preciso momento storico, come frontiera ultima ed evoluzione sofisticata del pensiero femminista; svela l’interesse dei sostenitori del gender a promuovere l’equivoco che esso c’entri con l’omosessualità; rimette ordine su ciò che è diritto, fondato, come diceva Cicerone, «non su una convenzione ma sulla natura»; smaschera la pretesa di chi vorrebbe porre quale causa prima della famiglia («quell’istituto riconosciuto dal diritto statuale che su quest’ultimo non si fonda, ma che è fondamento di quest’ultimo») non il diritto naturale – che attiene alla natura dell’uomo ed è dunque accessibile attraverso l’esercizio della ragione – bensì il diritto positivo e statale, e quella di chi vede nell’amore «un principio ordinante del diritto che a sua volta deve disciplinare e ordinare l’esistenza», come è accaduto lo scorso giugno quando Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha statuito che i singoli Stati non potessero rifiutarsi di riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso senza violare la Costituzione: incentrata non sulla razionalità del diritto, ma sulla passionalità dell’amore, «la suddetta sentenza, lungi dall’essere espressione di giustizia rappresenta piuttosto il triste volto di un diritto violato, cioè, in definitiva dell’ingiustizia».

La diffusione del fast-divorce, la proliferazione delle convivenze more uxorio, le richieste di riconoscimento e tutela giuridica di situazioni «che normalmente dovrebbero essere sottratte al diritto per natura (loro intrinseca e del diritto medesimo), come per esempio in matrimonio omosessuale o l’omogenitorialità (cioè la genitorialità come diritto delle coppie omosessuali attraverso l’istituto dell’adozione o le tecniche di procreazione medicalmente assistita)», evidenziano con forza le spinte contrarie e opposte a cui è soggetta l’istituzione famigliare, tra questi marosi è tuttavia possibile distinguere due principali prospettive «quella che in tende la famiglia come uno dei numerosi prodotti sociali che storicamente si vengono a determinare e succedere» (tipicamente sociologica e marxista) e «quella che rivela la famiglia come società naturale evidenziandone la struttura giuridica sostanziale e sottraendola così a tutte le ipotizzabili manipolazioni»: ecco allora come leggere l’articolo 29 della Costituzione Italiana ai sensi del quale «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», ovvero l’unione tra uomo e donna, requisito naturale, essenziale e logico della società naturale.

Uomo e donna: è qui che Vitale affronta i paradossi che derivano dalla negazione della natura propagata dal gender, sostituita dal sentimento e dal desiderio che una volta benedetti dalla politica e dal legislatore approdano facilmente alle storture del caso Beatie, al sostegno delle lobby gender all’industria dell’utero in affitto con la surrogazione di maternità che rappresenta per gli individui LGBT l’opportunità di avere una famiglia. Dai più recenti casi internazionali a quelli italiani, il libro racconta i problemi biogiuridici legati a omoconiugalità e omogenitorialità giocati sulla pelle di bambini ridotti a prodotti ultimi di una catena di montaggio procreativa: valga per tutti il caso del 31enne omosessuale messicano Jorge che nel 2010 decide di diventare padre senza nemmeno essere fidanzato, usa il proprio seme e l’ovulo donato da un’amica e l’utero della madre: nasce un bambino che è figlio di Jorge e della sua amica, figlio della sua amica e di sua madre, figlio e fratello di Jorge, figlio e nipote della madre di Jorge, «essendo figlio di tutti, paradossalmente, è figlio di nessuno. È più figlio o più nipote? E di chi è figlio? E si possono avere due madri e un padre? E se il proprio padre è proprio fratello? E se la propria madre è la propria nonna? Contorsioni esistenziali derivanti da una concezione e da un’applicazione del possibilismo tecnico assolutamente svincolate da ogni paradigma veritativo dell’essere umano».

Un’altra storia che è un caso limite? No, un’altra storia con tutti i limiti del caso, una delle tante provenienti dagli Stati dove l’ideologia gender, sotto l’ipocrisia della tutela dei diritti riproduttivi (un pensiero unico in cui trova accoglimento anche la promozione del reato di omofobia), va frammentando i ruoli genitoriali e trasformando le tecniche di procreazione medicalmente assistita da rimedio estremo per i casi di sterilità e infertilità in mezzi in cui poter strumentalizzare i figli a soddisfazione dei propri desideri e delle proprie aspirazioni.

Scrive Donna Haraway in “A manifesto for cyborgs: science, technology and socialist feminism in 1980s”, pubblicato nel 1985 sulla rivista Socialist Review: «Il cyborg è una creatura di un mondo post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni di interezza organica ottenute investendo un’unità suprema di tutti i poteri delle parti. Il cyborg non ha nemmeno una storia delle origini nell’accezione occidentale del termine. (…) Il cyborg definisce una polis tecnologica in parte fondata sulla rivoluzione delle relazioni sociali nell’oikos. (…) Il cyborg non sogna una comunità costruita sul modello della famiglia organica». E ben si comprende l’orizzonte in cui si muove l’homo faber, che può modificare a proprio piacimento la realtà e la sua stessa natura, raccontato da Vitale. Un libro per non “tranquillizzare la propria coscienza” e tornare finalmente a ragionare.

Fonte: www.tempi.it

Dopo il sì alle nozze omosex, perché no alla poligamia?

Dopo il sì alle nozze omosex, perché no alla poligamia?

di Tommaso Scandroglio

E ancora, se le “nozze” gay devono essere riconosciute per legge dal momento che non farlo sarebbe discriminatorio verso le coppie omosessuali, perché non riconoscere i matrimoni poligamici? Non sarebbe ugualmente discriminatorio verso quelle persone che, per tradizione culturale vecchia di secoli se non quasi di millenni, sono legate da un vincolo già riconosciuto dalla loro religione come un vincolo coniugale? Se il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso è invenzione recente, la poligamia è da sempre esistita e quindi avrebbero più diritto i poligami rispetto alle persone omosessuali di vedersi riconosciuta dallo Stato la loro particolarissima convivenza.

Simili argomentazioni nei mesi passati venivano bollate dal fronte omosessualista come steriliprovocazioni, iperbole buone solo per gli scontri dialettici, fantasie per tirar fesso qualcuno. Insomma stupidi espedienti retorici. Ma il bello – o forse il brutto – sta nel fatto che per davvero qualcuno ha chiesto ai propri governanti di legittimare la poligamia e la poliandria appellandosi proprio alla legge che ha istituito i “matrimoni” omosessuali.

É accaduto a Mayotte, un arcipelago di isole costituito Dipartimento d’oltremare della Repubblicafrancese situato tra il Mozambico e il Madagascar. Le isole di Mayotte sono francesi a tutti gli effetti: ad esempio la moneta di scambio è l’euro. In quell’angolo di paradiso alcuni cittadini di fede islamica si sono riuniti in un comitato e hanno chiesto ufficialmente che il Parlamento francese estenda l’ambito di applicazione della legge sui “matrimoni” tra persone dello stesso sesso anche ai poligami. La motivazione è semplice semplice: se il Mariage pour Tous è davvero pour Tous perché negarlo a chi ha più compagne o più compagni e vuole un giorno chiamarli mogli e mariti? In breve si chiede di legalizzare la poligamia.

Ovviamente questa, a causa della suddetta legge sulle “nozze” gay, potrà essere eterosessuale (ad es. un marito e più mogli), omosessuale (solo mariti o solo mogli) oppure bisessuale (più mariti e più mogli sposati ognuno con tutti gli altri). Una bella espansione – intesa in senso tecnico – del matrimonio di base, un suo aggiornamento con notevoli implementazioni. Il comitato ha manifestato anche davanti alla prefettura locale.Uno striscione sintetizzava al meglio le motivazioni oggettivamente inappellabili per riconoscere la poligamia: ”Perché no alla poligamia e sì ai matrimoni gay?”.

In Francia la proposta è stata accolta con favore da un gruppo di femministe. Sì proprio loro, quelleche a parlare di poligamia fino a ieri giustamente diventavano paonazze dalla rabbia pensando alle donne ridotte a concubine di un unico marito. La poligamia è, in effetti, il simbolo eccellente della disuguaglianza tra uomo e donna così tanto vituperato da vecchie e nuove suffragette. Orbene, i musulmani di Mayotte hanno trovato proprio in loro una sponda favorevole per vedersi riconoscere la poligamia: «La definizione di matrimonio è duttile», ha commentato la leader femminista Jillian Keenan. «Come il matrimonio omosessuale non è né migliore né peggiore di quello eterosessuale, l’unione di due adulti non è intrinsecamente né più né meno corretta di quella tra tre (o quattro, o sei) adulti consenzienti. I poligami sono una minoranza, la libertà non ha alcun valore se non si estende ai piccoli gruppi o a quelli più marginali»

Siamo alle solite. Se accettiamo le premesse erronee – love is love – dobbiamo inevitabilmenteaccettarne anche le conseguenze logiche: sì alla poligamia. Se l’unico elemento necessario perché ci sia matrimonio è il libero consenso dei nubendi e l’affetto, allora il numero di coniugi non deve far problema perché aspetto solo accessorio. Se accetti il “matrimonio” gay devi accettare la poligamia. Anzi a ben guardare dal punto di vista meramente quantitativo il matrimonio poligamico vale di più di quello un po’ triste a due. Oltre a questo è più efficiente: ci sono più persone pronte a risolvere i problemi della famiglia e a badare ai figli, c’è più solidarietà. Non trovate?

Chiaro è che i poligami a loro volta non potranno opporsi ad altre espansioni di questa cosa informeche una volta si chiamava “matrimonio”. E così a breve ci potremo sposare la sorella, il nipote, qualche defunto (magari celebre) o l’amico che resterà però amico. Va da sé che potremo convolare a giuste nozze anche con il nostro amatissimo labrador, nonché in un prossimo futuro con robot umanoidi. Non sono anch’essi esseri intelligenti e che provano qualcosa? Tutte fantasie? C’è già chi sta proponendo il matrimonio interspecie e transumano.

Come la poligamia appariva fino a poco tempo fa una provocazione ma oggi bussa alla porta delParlamento francese, così tra un po’ accadrà anche a queste nuove forme di legame nuziale: oggi bizzarrie, domani diritti civili. In breve, oggigiorno non si nega un matrimonio a nessuno, che tu sia etero, omo, bisex, single, poligamo o poliandro. Sposati con qualcuno o qualcosa, basta che ci sia tanto, ma tanto love.

Fonte: www.lanuovabq.it

Venerdì della XXIX settimana del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 12,54-59.
Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esecutore e questi ti getti in prigione. Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo».
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca

Ipocriti! Spesso sperimentiamo come la nostra vita sia spezzata in due, in una schizofrenia spirituale tra quanto accade fuori di noi e quello che si nasconde all’interno. L’esperienza ci ragguaglia sugli eventi naturali e ne sappiamo giudicare i possibili sviluppi, ma non abbiamo alcun discernimento per giudicare il tempo nel quale essi accadono, il senso a cui rimandano. Studiamo e raggiungiamo vette altissime di conoscenza, ma non sappiamo comprendere i tempi e i momenti per giudicare come vivere secondo giustizia. E’ un’istantanea di questo tempo, nel quale l’uomo, con la scienza e la tecnica, ha tagliato traguardi impensabili, e contemporaneamente, proprio attraverso queste conquiste, vuole impadronirsi della vita per gestirla, stravolgerla, distruggerla. Sappiamo moltissimo del corpo umano, della terra e del cielo, ma ci accaniamo con la vita più fragile e indifesa. E’ l’ipocrisia che tutti ci definisce, e che ha radice nel peccato originale; la superbia ha indotto i progenitori a separarsi da Dio prima e tra loro poi, sino ad arrivare alla drammatica divisione interna a se stessi, l’ipocrisia. “Esiste una unificazione dell’uomo con Dio che è unità che crea amore, in cui entrambi restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola” (Benedetto XVI, Deus caritas est). L’unità della persona scaturisce dall’unità con Dio che crea amore. La superbia ha reciso questo legame, e così l’uomo si è ritrovato solo e nudo, come spezzato in due: “L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso” (Benedetto XVI, ibid.).

Quando ci separiamo da Dio usciamo, per così dire, anche noi dal Paradiso, l’unico luogo dove si può discernere l’opera di Dio, l’intimità con Lui che ci fa giudicare cosa sia giusto. Fuori dal Paradiso siamo nudi, indifesi, incapaci di vedere il bene quando viene, ci appoggiamo alla carne e ai suoi criteri mondani e sperimentiamo la maledizione del non poter amare: l’amore infatti, presuppone qualcosa che sfugge ai calcoli di cui la carne è capace. Amare è sempre perdere se stessi; la carità è pioggia anche quando soffia lo scirocco e sole anche quando salgono le nuvole da ponente, perchè è la giustizia che supera quella ipocrita del contraccambio, delle regole della natura e del sapere secondo la carne. L’amore è giusto quando abbraccia anche il nemico. Per questo, lontani da Dio – l’unico che rivela al nostro spirito di essere suoi figli amati creati per amare – precipitiamo inevitabilmente nell’ipocrisia che svela l’incompletezza della nostra persona e della nostra vita. Corpo e anima procedono slegati, manifestando l’ipocrisia di atti che non corrispondono alla nostra vocazione, pensieri contrari al pensiero di Dio che ci ha creati; così, giungiamo a compiere il male che non vorremmo. Non viviamo più secondo la volontà divina: i pensieri e le azioni si riducono a maschere che disegnano su di noi una tragica caricatura. Tutto diviene intimamente falso, anche le apparenti opere buone, anche le virtù. Pascal arriva a dire delle suore ipocrite: “caste come angeli, superbe come demoni”. Essendo divisi in noi stessi, separati da Dio e dagli altri, non possiamo più discernere gli eventi, che ci appaiono incidenti senza senso e spesso ingiusti; non sappiamo giudicare il tempo ridotto ad un contenitore da cui estrarre le cose che non ci garbano per essere colmato di quelle che ci danno piacere. Non comprendiamo più nulla, di noi stessi, della moglie, del marito, dei figli, del lavoro, delle malattie, del denaro.


Nel testo odierno Luca utilizza due volte il termine discernimento, dokimazo (valutare in vista di un giudizio), che traduce il verbo ebraico bchn (verificare, mettere alla prova, provare, saggiare anche i metalli); e una volta giudicare, krino che, traduce il verbo ebraico bîn (= vedere la differenza, connesso con la preposizione bên ‘tra’, quindi vuol dire anche distinguere). Verifichiamo sino all’ultimo particolare per comprendere – letteralmente – il “volto della terra e del cielo” ma non sappiamo guardare con la stessa attenzione per discernere questo kairos, il tempo favorevole nel quale Dio si fa presente; non sappiamo guardare i segni per discernere che cosa essi indichino. E, di conseguenza, non possiamo giudicare, vedere la differenza tra giusto e ingiusto, distinguere tra bene e male. Siamo come gli abitanti di Ninive, non sappiamo distinguere la destra dalla sinistra. Il cuore è indurito, in esso non risuona nulla. Guardiamo il “volto” della creazione ma non sappiamo riconoscervi le sembianze del Creatore, e di conseguenza, abbiamo “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile… abbiamo cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore” (cfr. Rom. 2, 23.25). Guardiamo una donna, ne apprezziamo la bellezza, ma rimaniamo sedotti dalla carne: l’eros fagocita l’agape e così, invece che verso il dono, l’impulso ci muove al possesso. Tutto è sporcato, ogni relazione è macchiata dall’ipocrisia: gli occhi non rispondono più ai comandi del cuore, la mente non riesce a decodificare gli impulsi dello Spirito, siamo come un aereo ingovernabile che sta precipitando. “I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso, verso il male. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto… Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo “cuore” deve essere elevato. Ma noi da soli siamo troppo deboli. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto” (Benedetto XVI, Omelia nella Domenica delle Palme del 2011).

Per vivere una vita autentica mossa da un cuore in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito occorre dunque accogliere l’umiltà di Cristo, il suo amore che lo conduce, anche oggi, a camminare con noi. Per uscire dall’ipocrisia occorre aprirsi alla misericordia di Dio. Occorre un cuore contrito che si apra a Cristo, e non abbia timore di mettersi d’accordo con Lui. Sino ad oggi Egli è stato ai nostri occhi spenti un avversario, nelle sembianze della moglie, del marito, del professore, del collega, della suocera o di chi sia. Sino ad oggi, ipocritamente ciechi, non abbiamo riconosciuto il suo volto in quello di chi ci è accanto, il suo amore negli eventi della nostra vita. Per questo non abbiamo giudicato giusto amare, perdonare, donarci: abbiamo vissuto nell’egoismo, il vestito dell’ipocrisia. Non importa! Accanto a noi oggi vi è Cristo! Quante volte ha avuto pietà di noi, quanti prodigi ha compiuto in nostro favore, quanti segni! Sino ad oggi il demonio, l’avversario autentico, ci ha ingannato, sovrapponendo la sua menzogna al volto misericordioso di Dio. Possiamo oggi “darci da fare per liberarcene”, secondo l’originale greco tradotto con mettiti d’accordo: accogliere l’umiltà di Gesù che sui è fatto peccato nella nostra storia per distruggere la maschera ipocrita del demonio che tutto ha avvelenato. Sì, proprio ciò che ai nostri occhi appare come morte è il seno benedetto della vita: giudichiamo allora che cosa sia giusto, accogliamo quello che secondo l’inganno del demonio è male, e rifiutiamo ciò che per lui è bene. Non sbaglieremo! Lasciamoci giudicare come giusti nella giustizia della Croce di Cristo, perchè Lui vuole riconciliarci nella usa misericordia, mettersi d’accordo e liberarci dall’avversario. Accogliamo oggi il suo giudizio di misericordia per non dover subire il giudizio di condanna che gi getti nella prigione dell’inferno. Rimaniamo nascosti nel Suo amore che mette d’accordo i nostri desideri con la Sua volontà. E’ questa la pace dove ci conducono i segni del tempo che ci è dato. L’amore che cancella ogni debito, ci riscatta dal carcere della menzogna dove sino ad oggi abbiamo dovuto pagare sino all’ultimo spicciolo della nostra vita; la Verità che ci fa liberi d’essere quello per cui siamo nati, amati per amare.

Silvano Fausti-Una comunità legge il Vangelo di Luca

     vv. 54-55. Dal “volto” della terra e del cielo sappiamo discernere cosa avverrà. Abbiamo un grande discernimento nelle cose materiali, ma non in quelle spirituali. L’uomo animale non coglie ciò che è dello spirito di Dio (1 Cor 2,14). Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste Dio ha preparato per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito. Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che abita in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuto conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale (psichico) però non comprende le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter esser giudicato da nessuno. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora noi abbiamo il pensiero (noun) di Cristo. (1 Cor 2, 9-16).

    vv. 56 “Ipocriti”.  Il nostro giudizio non è quello di Dio. Conosciamo bene ciò che è utile per la vita animale, ma non ciò che è necessario per la vita inesauribile. Sappiamo discernere il volto del cielo e della terra, ma non quello del nostro Signore: sapientissimi in ciò che ci dà la morte, siamo stoltissimi in ciò che ci dà la vita: abbiamo il lievito dei farisei, e non quello del Regno (v. 1; 13,20).
           “questo momento”. E’ il tempo della vita di Gesù, che viviamo nell’eucaristia. La sua venuta e il nostro incontro con lui è il kairòs, il momento decisivo di conversione. L’ eucaristia infatti ci rende contemporanei al grande mistero, e ci dona luce per discernere e forza per vivere il nostro presente.
      v. 57 “Ora perché anche da voi stessi non giudicate il giusto”. L’eucaristia dona ed esige il giudizio giusto. La morte e risurrezione del Signore è criterio di scelta e capacità di attuarla.
         58 “Quando vai con il tuo avversario, ecc.”. La nostra vita è un cammino pieno di avversità: il nemico, l’inferno, l’altro! In forza dell’eucaristia, il tempo presente ci è dato per andare d’accordo con lui considerandolo come fratello, e così diventare misericordiosi come il Padre (6,36). Diversamente la nostra inimicizia col fratello ci condanna come nemici del Padre. Buon discernimento è quello che vede nell’imicizia interpersonale l’appello a convertirsi dal male proprio alla misericordia.
       59 “abbia reso anche l’ultimo centesimo”. Per entrare nella dimensione di Dio bisogna aver perdonato: se non lo facciamo ora, dovremo farlo allora.
BENEDETTO XVI, OMELIA NELLA CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 17.04.2011

Ci commuove nuovamente ogni anno, nella Domenica delle Palme, salire assieme a Gesù il monte verso il santuario, accompagnarLo lungo la via verso l’alto. In questo giorno, su tutta la faccia della terra e attraverso tutti i secoli, giovani e gente di ogni età Lo acclamano gridando: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”

Ma che cosa facciamo veramente quando ci inseriamo in tale processione – nella schiera di coloro che insieme con Gesù salivano a Gerusalemme e Lo acclamavano come re di Israele? È qualcosa di più di una cerimonia, di una bella usanza? Ha forse a che fare con la vera realtà della nostra vita, del nostro mondo? Per trovare la risposta, dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa Gesù stesso abbia in realtà voluto e fatto. Dopo la professione di fede, che Pietro aveva fatto a Cesarea di Filippo, nell’estremo nord della Terra Santa, Gesù si era incamminato come pellegrino verso Gerusalemme per le festività della Pasqua. È in cammino verso il tempio nella Città Santa, verso quel luogo che per Israele garantiva in modo particolare la vicinanza di Dio al suo popolo. È in cammino verso la comune festa della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto e segno della speranza nella liberazione definitiva.
Egli sa che Lo aspetta una nuova Pasqua e che Egli stesso prenderà il posto degli agnelli immolati, offrendo se stesso sulla Croce. Sa che, nei doni misteriosi del pane e del vino, si donerà per sempre ai suoi, aprirà loro la porta verso una nuova via di liberazione, verso la comunione con il Dio vivente. È in cammino verso l’altezza della Croce, verso il momento dell’amore che si dona. Il termine ultimo del suo pellegrinaggio è l’altezza di Dio stesso, alla quale Egli vuole sollevare l’essere umano.
La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita. Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze? Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità.
Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di “essere come Dio”, di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.
I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.
Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: “Sursum corda – in alto i cuori!” Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo “cuore” deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio.
Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce.
Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, ci dice la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.
Il Salmo processionale numero 24, che la Chiesa ci propone come “canto di ascesa” per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.
La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità.
Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante tutta la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.
Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, “che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” (Sal 24,6). Amen.

I paradossi delle politiche per la famiglia

Un paradosso, tra i tanti, connota di sé la società italiana di questa fase storica.

Mentre è ormai ampiamente diffusa la consapevolezza del ruolo decisivo che la famiglia svolge come soggetto sociale e come produttore di grandi esternalità positive a beneficio dell’intera società, non procede con pari consapevolezza la messa in cantiere di provvedimenti e di misure volti alla attuazione di una politica della famiglia in sostituzione delle inadeguate politiche per la famiglia. Detto in altro modo, non procedono allo stesso ritmo il riconoscimento da un lato e la valorizzazione dall’altro che la politica “deve” alla famiglia per la mole di funzioni sociali che nessuno Stato, nessun mercato, nessuna agenzia pubblica possono surrogare in modo equivalente. Ad onor del vero, il divario qui denunciato riguarda un po’ tutta l’Europa, anche se per l’Italia esso assume un’ampiezza particolarmente preoccupante.

Infatti, se si leggono con attenzione i documenti della strategia di Lisbona si scoprirà che, mentre si parla ad abundantiam di capitale umano, di capitale sociale, di coesione sociale, ecc. mai la famiglia in quanto tale viene chiamata in causa, come se quest’ultima non fosse – lo vedremo tra breve – uno dei più decisivi generatori dei primi. Ancora, l’Eurobarometro, nei suoi rapporti periodici, non perde occasione per indicare che c’è un divario crescente tra il numero di figli che gli europei desidererebbero mettere al mondo e quelli che effettivamente nascono. Quanto a dire che la tanto sbandierata libertà di scelta dei coniugi non trova il modo di essere tradotta in pratica: una sorta di razionamento implicito nell’accesso alla generatività responsabile è all’opera nelle nostre società. Nei Trattati Europei non si fa parola di una qualche politica familiare europea, dato che l’intera materia viene lasciata agli Stati membri. Il che finisce col determinare discrasie di ogni tipo, dal momento che la vita delle famiglie europee risulta influenzata e deve fare i conti con non poche delle direttive comunitarie in aree quali la protezione sociale; i tempi di lavoro; l’eguaglianza di genere; la salute; l’educazione. In tutti questi ambiti, la famiglia diviene argomento di interesse europeo come destinataria, diretta o indiretta, di regolamenti e provvedimenti vari, ma invano l’osservatore attento troverebbe in tali documenti una qualche definizione di famiglia.

Un paio di esempi possono servire ad illustrare la portata di tale schizofrenia. Nel gennaio 1999, il Parlamento Europeo approvò un circostanziato rapporto sulla protezione della famiglia e dei bambini (Rapporto Marie Therese Hermange) in cui si avanzavano raccomandazioni per il rispetto della libertà di scelta dei genitori in materia educativa; per le pari opportunità per uomini e donne; per andare oltre l’approccio puramente socio-economico fino ad allora dominante. Il rapporto è rimasto lettera morta. Nel marzo 2004, sempre il Parlamento Europeo fece proprio il Rapporto Regina Bastos sull’urgenza di procedere verso la conciliazione tra famiglia e lavoro, richiamandosi agli obiettivi fissati nel summit di Barcellona del 2002: eliminazione degli ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro entro il 2010; assicurazione dei servizi di cura ai bambini di età compresa tra i tre e i sei anni nella misura del 90% e dei nidi d’infanzia fino al 33% del fabbisogno; flessibilizzazione dei tempi di lavoro e altro ancora. Quasi nulla di tutto ciò si è trasformato in direttive di azione, anche se – va riconosciuto – nel giugno 2007 la Commissione Europea ha approvato un importante documento (Towards common principles of flexicurity) in cui si parla esplicitamente della famiglia e dei suoi compiti e anche se nel marzo 2008 si è arrivati finalmente alla “Revisione della strategia di Lisbona” in cui entra, in maniera esplicita, la questione familiare. E così via.

Nel caso del nostro paese, questi ritardi e queste incongruenze risultano ulteriormente amplificati e accentuati rispetto a quanto accade altrove, come la Seconda Conferenza Nazionale della Famiglia del novembre 2010 a Milano ha puntualmente messo in luce. Non solamente, come si è visto nel capitolo 3, la spesa per i servizi alla famiglia è scandalosamente bassa. (Basti un dato: se l’UE destina alla famiglia l’8% circa della spesa sociale, l’Italia ne destina il 4, 1%, corrispondente a poco più dell’1% del PIL). Quel che è più grave è che le modalità con cui vengono combinate tra loro le politiche che attribuiscono alla famiglia risorse di tempo (orari flessibili, congedi parentali), risorse economiche (deduzioni e/o detrazioni; buoni per l’acquisto dei servizi di cura) e servizi di cura diretti sono tali da determinare spesso effetti perversi (1). E’ il “familismo di default” – come lo ha chiamato Chiara Saraceno (2) – quello che per lungo tempo ha caratterizzato l’impianto del welfare state italiano. Ad esempio, mai fino ad oggi è stata introdotta una prestazione universalistica per le famiglie con figli allo scopo di sostenerle economicamente. Lo strumento adottato – quello degli assegni familiari volti a compensare per via assicurativa i carichi familiari dei lavoratori dipendenti – essendo sottoposto alla prova dei mezzi non solamente non ha sortito l’effetto desiderato (sostegno al reddito della famiglia) data la sua esiguità, ma ha finito con lo scoraggiare il lavoro fuori casa delle donne.

Non c’è allora da sorprendersi se il Rapporto 2008 del Global Gender Gap, promosso dal World Economic Forum, vede l’Italia in 84a posizione su 128 paesi per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro (con una perdita di ben sette posizioni rispetto al Rapporto precedente). E non c’è da stupirsi se il “Primo Rapporto sulle politiche familiari” dell’OCSE (Parigi, 27 Aprile 2011) denuncia con forza la situazione italiana per il modo in cui vengono lasciate al loro destino le donne che cercano con fatica di conciliare i tempi di vita familiare con i tempi di vita lavorativa. Il rischio sarà – viene evidenziato – che i giovani che oggi hanno un’età compresa tra i venti e i trenta anni si vedranno nell’impossibilità pratica di generare figli, dopo essere stati “costretti” a posticipare tale desiderio a causa di un mercato del lavoro non amico della famiglia.

Occorre dunque essere avvertiti del fatto che l’Italia è un paese che, nonostante una certa retorica di maniera, continua a vedere la famiglia solamente come una delle voci di spesa del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per la società. Del pari, si continua a considerare la famiglia come “variabile dipendente”: le grandi scelte a livello di assetto giuridico-istituzionale e di organizzazione produttiva vengono prese a partire dal presupposto – ovviamente non dichiarato – che debba essere la famiglia ad adeguarsi alle decisioni degli altri attori sociali. E’ solamente in tempi recenti che si è “scoperto” – si fa per dire – per un verso, che la famiglia è un soggetto attivo, dotato di una sua propria autonomia e non già un mero aggregatore di preferenze individuali (come la concezione individualista persiste nel far credere) e, per l’altro verso, che il benessere della famiglia è magna pars del benessere generale: non può esserci avanzamento duraturo sul fronte della felicità pubblica se non si migliorano le condizioni di vita delle famiglie. Una recente ed accurata indagine empirica (3) svela più e meglio di ogni considerazione teorica il significato pratico di tale paradosso. Indagando sull’impatto della grande crisi durante il triennio 2007-2009 sulla distribuzione dei redditi familiari di 21 paesi occidentali, gli Autori, dopo aver mostrato che la crisi non ha colpito questi paesi in modo omogeneo, ci informano che, mentre nella gran parte dei paesi considerati il reddito disponibile delle famiglie è aumentato pur in presenza di una diminuzione del PIL, in quattro paesi (Svizzera, Danimarca, Grecia, Italia) ciò non è accaduto. Le famiglie italiane hanno perso il 3, 3% del reddito disponibile – l’Italia è ultima in tale poco invidiabile classifica – ; quelle francesi hanno guadagnato il 2, 2%; le inglesi il 2, 5%; le tedesche le 0, 5%; le americane il 2, 5%. E come v’era da attendersi, l’impatto negativo maggiore è stato sulle famiglie più giovani e con figli a carico.

(1) Cfr. M. Matzke, I. Ostner, “Change and continuity in recent family policies”, Journal of European Social Policy, 20, 2010.
(2) C. Saraceno, “Social inequalities in facing old-age dependency”, Journal of European Social Policy, 20, 2010.
(3) S. P. Jenkins, A. Brandolini, J. Micklewright, B. Nolan, “The Great Recession and the Distribution of Household Income”, Sett. 2011.

di Stefano Zamagni
Tratto dal sito ZENIT

Cattolici. Cosa sta accadendo

Nebbia e tenebre fitte attorno ai cattolici in questi giorni. Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza. In queste ore c’era una vera notizia, importante, che riguardava la Chiesa: la proclamazione dell’Anno della fede fatta da Benedetto XVI.

Ebbene, è stata alquanto snobbata dai mass media, impegnati com’erano a farsi regalare un titolo di politica (contro il governo) dalla piccola e confusa conventicola di Todi.

Che rischia di farsi abbindolare dai media e di farsi usare come foglia di fico per progetti di potere altrui.

Così la grande notizia (sull’Anno della fede), è stata oscurata dalla piccola sceneggiata di Todi (dove va ricordato solo il bellissimo discorso di Bagnasco, disatteso da Bonanni e dal resto della compagnia).

Non solo. Per i cattolici c’erano altre due notizie più importanti di Todi, anch’esse passate in cavalleria.

Primo: la profanazione della chiesa di Roma durante le violenze di sabato, che risulta un inedito. Molti semplici cristiani mi hanno scritto, feriti nell’anima, dicendo che l’atto sacrilego della profanazione di quella chiesa (del crocifisso e della statua della Madonna) rende necessaria quantomeno una solenne messa riparatoria.

Penso anche io che si dovrebbe annunciarla pubblicamente e celebrarla in quella stessa chiesetta violata (a due passi dal Laterano, dal Colosseo e da San Pietro).

Oltre a ciò occorre che i cattolici abbiano finalmente un giudizio chiaro su una mala pianta ideologica che in Italia (e solo in Italia) da decenni dà frutti di odio e (nelle frange estreme) di violenza: l’hanno sperimentata i nostri padri nell’immediato dopoguerra, l’abbiamo sperimentato noi dopo il ’68 e ora lo sperimentano i nostri figli.

C’è poco da stupirsi. E’ sempre quella. C’è sempre la stessa bandiera che svolazza, anche se oggi sembra raggruppare pure giovanotti meno politicizzati, più nichilisti che rivoluzionari. Tuttavia usati in un alveo velleitariamente rivoluzionario che ha una continuità ideologica col passato.

L’odio ideologico del resto è sempre uguale, al di là della sommossa di sabato: cambiano solo – di decennio in decennio – i “nemici” politici contro cui scagliarsi e certi contenuti e slogan. Ma contro la Chiesa l’odio non cambia mai.

Il secondo fatto, ben più importante di Todi, ma anch’esso snobbato dai media è l’ennesimo martirio, nelle Filippine, di un missionario italiano, padre Fausto Tentorio.

Questo sacerdote del Pime era, laggiù nelle Filippine, un segno dell’amore di Cristo per tutti gli uomini, a partire dai più abbandonati e oppressi. E, come al solito, è stato fatto fuori.

Sono duemila anni che va così. E triste che i media e il nostro mondo intellettuale lo dimentichino e non perdano occasione per trascinare la Chiesa (sempre martire) sul banco degli imputati.

Chi annuncia Cristo è costretto in partenza a mettere in conto l’odio del mondo, la violenza e pure il martirio: questo dovrebbe far capire pure ai “carbonari” di Todi che quando invece i pifferai del mondo ti suonano la serenata e di coprono di elogi significa che non stai seguendo il Signore, ma stai servendo “lorsignori”.

Infatti padre Fausto, in una sorta di testamento spirituale, aveva scritto di “essere riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria” e di essere “cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno”.

Questi sono gli uomini (e nella Chiesa ce ne sono tantissimi) da guardare e da ammirare. Quelli di cui i media si disinteressano.

Non gli idoli fabbricati dai media: lo dico anche per certi cattolici che nei giorni scorsi hanno idolatrato Steve Jobs, ma che neanche si sono accorti del martirio di padre Fausto (si commuovono per l’I-Phone, i poverini…).

I missionari del Pime concludono il loro comunicato sulla morte di padre Fausto così: “Infine vogliamo pregare per la conversione dell’uccisore e degli eventuali mandanti, perché aprano il cuore al Signore: Egli non vuole che i peccatori periscano, ma che si convertano e abbiano la vita eterna”.

Questo – cari signori e cari compagni – è il mondo nuovo che tutti sognano e che alcuni credono di ottenere sfasciando le città e la testa del prossimo.

Questi uomini e donne di Dio capaci di dare la vita per amore e di perdonare sono l’alba dell’unico mondo davvero nuovo e davvero felice.

I cattolici devono capire – anche perché papa Ratzinger lo ripete da sempre – che non è dalla politica, né dall’economia che può venire la salvezza e la felicità: è solo dall’amore. Cioè da Gesù Cristo e dalla vita nuova che egli suscita in chi lo segue.

Da questo punto di vista era assurdo che a Todi partecipassero dei movimenti ecclesiali la cui missione è prettamente evangelizzatrice. Infatti l’azione politica – cosa ben diversa – deve avere altri soggetti, sennò tutte le cose che sono state insegnate sulla laicità dal Concilio vanno a ramengo.

Dunque è stato molto significativo e saggio che non fosse presente a Todi un movimento ecclesiale come “Comunione e l. iberazione”.

Mentre trovo inspiegabile che abbia partecipato l’Azione Cattolica: cos’ha a che fare con la Confartigianato e con i proclami di Bonanni sul governo?

L’Azione Cattolica non aveva fatto la “scelta religiosa”? La distinzione dei piani di Maritain – ripetuta fino alla noia dal professor Lazzati – non ha insegnato proprio niente a costoro?

Devo dire che mi ha stupito negativamente pure la partecipazione a Todi di un mio caro amico, Salvatore Martinez, responsabile nazionale del “Rinnovamento nello Spirito”, uno splendido movimento ecclesiale che non ha a che fare direttamente con la politica (Martinez fra l’altro è fra i consultori del papa).

Il mio amico Martinez per ingenuità si è trovato coinvolto in una parata che è risultata un’operazione di politica politicante. E sempre per ingenuità ieri ha rilasciato un’intervista al “Corriere” il cui titolo contro il governo deve averlo davvero amareggiato, perché forzava le sue dichiarazioni.

Ma voglio considerare le cose che Martinez ha effettivamente detto. Ha parlato di etica, di “coscienza sociale erronea” e ha aggiunto: “proponiamo un rilancio di quell’idealismo cristiano dal quale discendono le buone prassi”.

Ma allora mi chiedo (e chiedo a Martinez): non era più serio che a Todi, con questo tipo di preoccupazioni etiche, si prendessero di petto – per esempio – una piaga sociale come l’evasione fiscale o errori “politico-sindacali” perduranti e disastrosi come le pensioni a 50 anni, invece di puntare banalmente il dito sul solito Berlusconi (cosa facilissima, ma parziale e ipocrita)?

Sarebbe stato giusto, prezioso e morale, perché questi sono i problemi che restano anche quando sarà spazzato via Berlusconi.

Infine colpisce la ristrettezza di orizzonti di Todi. Al di là di una sparata contro l’attuale governo nient’altro: della condizione dei cristiani nel mondo, uno scandalo che grida al cospetto di Dio, nulla si è letto.

Eppure siamo a pochi giorni da un ennesimo massacro, quello in Egitto, dove i cristiani, adesso, dopo essere stati martirizzati vengono pure colpevolizzati dalle menzogne del potere che sono state fatte proprie perfino da Obama, come spiegano gli articoli di Bernardo Cervellera su Asianews.

Potranno esserci dei cristiani che, tristemente, abboccano alle lusinghe delle sirene e dei poteri mondani, ma la Chiesa e i suoi figli non abboccheranno mai: “Molti tentano la Chiesa” scriveva già s. Ambrogio “ma nessun ‘incantesimo’ le potrà nuocere. Non hanno alcuna efficacia gli incantatori, là dove ogni giorno risuona il cantico di Cristo. Ella ha già il suo incantatore: è il Signore Gesù per opera del quale ha potuto rendere inefficaci gli incantesimi degli incantatori e i veleni dei serpenti”.

di Antonio Socci
Tramite il sito Lo Straniero, il sito web ufficiale di Antonio Socci