La commissione di bioetica della Conferenza dei vescovi svizzeri sull’assoluzione di un medico
Tratto da L’Osservatore Romano del 21 dicembre 2010

Friburgo, 20 – “No” a chi vuole estendere ulteriormente la pratica del suicidio assistito fino a far scomparire il limite che lo separa dall’eutanasia; “no” a chi ritiene che, in alcune circostanze, aiutare a morire sia una “necessità” e addirittura un compito dei medici. L'”omicidio su richiesta” resta un omicidio e deve essere punito, poiché “il divieto di provocare la morte altrui o di esserne complice” fa parte dei fondamenti della vita di una società e “deve restare non negoziabile”. Sono questi, in sintesi, i punti fermi del comunicato con il quale la commissione di bioetica della Conferenza dei vescovi svizzeri ha reagito, nei giorni scorsi, alla sentenza di assoluzione emessa dal tribunale di Boudry, nel cantone di Neuchâtel, nei confronti del medico Daphné Berner, accusato di aver ucciso – iniettandole una sostanza letale – una donna affetta da una malattia incurabile, paralizzata a letto, che le aveva espresso il desiderio di morire.

Nonostante l'”omicidio su richiesta della vittima” sia punito dalla legge ai sensi dell’articolo 114 del Codice penale svizzero, i giudici, in questo caso, lo hanno giustificato riconoscendo uno “stato di necessità”. Nel verdetto si ricorda che il Tribunale federale, in passato, ha già riconosciuto il carattere “scusabile” di un omicidio se esso risponde alla necessità di porre fine a un “martirio”.

I vescovi si dicono preoccupati non tanto per la sentenza in sé quanto per i commenti dell’opinione pubblica favorevoli all’allargamento della pratica del suicidio assistito e alla modifica della legge sull’eutanasia, considerata obsoleta. Aiuto al suicidio ed eutanasia sono mossi dalla stessa logica – si legge nel documento, a firma del presidente della commissione di bioetica, Thierry Collaud – poiché in entrambi i casi “si contribuisce volontariamente alla morte di una persona per consentirle di sottrarsi a una condizione di vita considerata intollerabile”.

Per il tribunale di Boudry, la diagnosi della paziente deceduta (sclerosi laterale amiotrofica) era così terribile da giustificare tale “omicidio compassionevole”. Riguardo ciò, Collaud afferma che è “inquietante” vedere come la lista delle malattie che vengono giudicate incompatibili con una vita degna a poco a poco si allunghi. “Siamo convinti che non esistano situazioni di esistenza umana che per definizione siano indegne di essere vissute”, è scritto nel comunicato, anche se sappiamo che “esistono situazioni individuali di sofferenza nelle quali la persona tocca i limiti della sopportazione”. Situazioni, queste ultime, che “non devono essere affrontate con fatalismo e rassegnazione”, ma con grande energia “per trovare insieme il cammino di una vita possibile malgrado questa sofferenza o attraverso essa”.

Per questo – sottolinea la commissione di bioetica – “rigettiamo con forza l’idea che, in alcune circostanze, aiutare a morire sia “una necessità” e ancora di più quella che lo considera un compito dei medici. Se una necessità esiste, è quella di un accompagnamento nella solidarietà umana, che unisca la competenza e la sollecitudine. Le cure palliative ci mostrano che il dolore si calma con specifiche terapie, che la sofferenza psichica o esistenziale (solitudine, dipendenza, angoscia, disperazione) si allevia attraverso relazioni interpersonali calorose e autentiche, la presenza di persone portatrici di speranza” e – conclude il comunicato – tenendo aperta la dimensione spirituale che dà senso alla fine della vita.