di M. Diaferia

Giovedì scorso, chi ha assistito ad Annozero, ha potuto godersi un classico scontro d’opinione anni 2000, nella  quale vince chi urla di più o chi fa la battuta più sagace.

Siamo ormai allo spettacolo puro, un copione previsto da chi si occupa del casting settimanale. Travaglio ospite fisso e poi La Russa, Di Pietro, il giornalista Nicola Porro. A fare da contorno un po’ di studenti del “movimento”. Rissa assicurata, insomma. Audience alle stelle.

Lascio agli appassionati il godimento per il certame. Per quanto mi riguarda, notavo l’immancabile premessa, che sembra quasi un lasciapassare obbligatorio prima di qualsiasi discussione sulle tematiche giovanili: “Anch’io alla vostra età partecipavo alle assemblee, sfilavo in corteo, mi scontravo con la polizia, ecc. ecc. ”. Questo succede nei talk show, come nella piccola cerchia del personale di un grande pluri-liceo del nord, dove ho la fortuna di lavorare come “assistente amministrativo” (precario).

Nonostante la fama di scuola tranquilla, grazie anche ad un costruttivo rapporto che c’è sempre stato fra studenti, presidi che si sono succeduti e corpo insegnante, quest’anno il vento della rivolta ha affascinato alcuni tra i più giovani studenti, trasformandoli in granitici rivoluzionari d’ottobre. Riecco i lucchetti alle cancellate, i picchetti per impedire “democraticamente” alla maggioranza di studiare regolarmente e per far sì che al personale docente e ATA venga sottratto un po’ di euro dal loro “lauto” stipendio, le assemblee per stabilire cosa vuole il popolo, mentre i più sono già tornati a casa, le partite a calcio in cortile e a ping-pong negli atri (nostalgia dell’oratorio?), l’occupazione con annesso bivacco notturno, tanto per vivere l’avventura. Tutto déjà vu et écouté: ogni generazione sembra dover pagare questo biglietto per entrare poi nella vita adulta.

Più interessanti per me sono invece state le reazioni degli adulti. Non ho potuto che provare una certa divertita amarezza nell’ascoltare i contorcimenti verbali di costoro, che potrei riassumere così: “Hanno ragione a protestare e mi fanno pure tenerezza, perché mi ricordano quando anch’io facevo lo stesso. Ma le motivazioni sono molto più superficiali di quelle dei miei tempi”. Sarebbe troppo crudele ricordare che le stesse cose pensavano i loro padri operai o travet ex-partigiani quando, dopo aver goduto a piene mani del benessere del boom economico, vedevano i figli studenti atteggiarsi a difensori del proletariato a spese loro.

Di conseguenza, per i sessanta-settantottini oggi “dall’altra parte”, la difficoltà sta tutta nel far convivere il loro antico spirito anti-sistema con il ruolo che il sistema ora ha dato loro. Un atteggiamento debole e ambiguo, nelle cui maglie si possono infilare facilmente i ragazzini: dopo mesi e mesi che a casa, a scuola e dal teleschermo li hanno convinti che stanno vivendo sotto un regime antidemocratico, che il male è tutto di là e il bene tutto di qua, una volta passati all’azione, ecco che gli stessi maestri li invitano “a fare i cattivi, ma non troppo”.

Ho provato una certa vergogna quando, circondato dal fluire di emozionanti racconti epici dei miei colleghi, storie di picchettaggi e occupazioni selvagge, assemblee dove rischiavano la pelle e scontri con la polizia “che una volta picchiava sodo”, mi sono permesso di alzare il ditino e dire forse la cosa più rivoluzionaria di tutte: “Non condivido questo modo di cambiare il mondo, come non lo condividevo quando ero studente…”. Uno sguardo interrogativo e di supponenza me lo sono “meritato”.

Troppo lungo sarebbe spiegare loro, che il giovanissimo Marco era anche lui affascinato da una rivoluzione, che non era quella leninista del 1917, né quella fascista del 1922, né quella auspicata nel 1945, né quella importata dall’estero nel 1968. Era avvenuta attorno al 30 d. C in Palestina ed era riassunta in quattro libricini, il cui contenuto era molto più esplosivo del Libretto Rosso di Mao.

Questi miei coetanei che si riempivano la bocca di parole come democrazia ed antimperialismo, ma erano solo capaci a travolgere con rabbia ed odio cose e persone (come sempre in ogni rivoluzione) senza pagarne in gran parte lo scotto, non capivano che il sistema si cambia nel nascondimento e nell’umiltà, con atti di amore e generosità verso i piccoli e i bisognosi, difendendo i più deboli, scoprendo la verità sulla nostra esistenza di creature e di figli bisognosi di aiuto da parte di Colui che è venuto tra noi apposta per “liberarci” dal vero oppressore: il male.

Sì, anch’io allora mi sentivo – con la gigioneria tipica dell’età – rivoluzionario, quando rinunciavo a parte della mia esistenza comoda di figlio della classe media, per i più piccoli di me secondo la metodologia scout, quando pregavo coi miei compagni di scuola di CL prima di entrare in classe, quando condividevo per qualche tempo la vita povera di un monastero francescano, quando mi spezzavo di fatica nei campi di lavoro, magari fra i terremotati, quando andavo negli ospedali a sostituire il personale ausiliario in sciopero, quando raccoglievo col carretto pane e carta vecchia per le Missioni, quando preparavamo iniziative con Mani Tese, quando passavo il Carnevale con gli anziani, quando condividevo con fratelli e sorelle una dura salita in montagna, magari d’inverno. Ero convinto che tanti semi di bene lasciati nel mondo avrebbero fatto ben di più che decine di scontri coi celerini, assemblee bla-bla, picchetti o sanpietrini lanciati a vanvera, come quelli che piombarono un giorno nell’atrio del mio liceo parificato cattolico, mentre passavano in fila i bimbi delle elementari.

Tutte le rivolte studentesche degli ultimi quarant’anni non hanno portato alcun miglioramento alla società civile, i loro protagonisti che poi si sono piazzati da adulti a destra e a sinistra, non hanno lasciato tracce particolarmente commendevoli neppure nell’agone politico.

Qualcuno dovrebbe spiegare a questi ragazzi che il mondo che contestano e che ha tolto loro non solo la speranza di benessere materiale, ma la Speranza stessa, è figlio in gran parte dei loro coetanei dei movimenti studenteschi o delle pantere di un tempo.

Non avendo alcuna speranza che messaggi di verità possano venire dai mezzi di comunicazione di massa, resta pressante per gli educatori cattolici presenti in qualsiasi ambito (prima di tutto le mura domestiche) prendersi carico dei problemi reali dei ragazzi, illuminandoli con la luce del Vangelo, per aiutarli a dare il giusto valore alle cose e un senso alle difficoltà della vita, e offrendo loro una valutazione onesta della realtà globale in cui siamo inseriti, dove non ci si può permettere di perdere tempo. Senza dimenticare di pregare molto per loro, “perché senza di Lui non possiamo fare nulla”.

da www.mascellaro.it