La beatificazione di don Carlo Gnocchi, spinge i reduci di Russia a raccontare l’epopea che nel 1943 vide protagonista il cappellano della Tridentina Il sacerdote fu come un padre per quei soldati. Che lo salvarono mentre giaceva, sfinito, sulla steppa gelata • Nelson Cenci, reduce del Don, ricorda il ‘suo’ cappellano «Una testimonianza che ci aiutò a uscire dalla sacca»
di Paolo Ferrario
Tratto da Avvenire dell’11 ottobre 2009
Una benedizione lunga tutta la vita. Nelson Cenci l’ha ricevuta nel gennaio del 1943, durante i giorni terribili e grandi del ripiegamento degli alpini sul Don e, dopo più di sessant’anni, la conserva ancora nel più profondo del cuore, pronto a “tirarla fuori” nei momenti di sconforto. Oggi la sua “tana” non è più «tutta bianca scavata nel gesso», secondo l’indimenticabile descrizione del “Sergente nella neve”, ma ha le fattezze di un bel casolare ristrutturato immerso nelle vigne della Franciacorta. Anche l’inverno non è più così tremendo e lo zaino meno pesante. Di intatto è rimasto invece il caro ricordo di don Carlo Gnocchi, suo cappellano prima in Montenegro e poi in terra di Russia.
Ogni gesto, ogni momento trascorso con questo sacerdote è per il novantenne, Medaglia d’argento al valor militare, riminese trapiantato a Cologne Bresciano per amore dei suoi alpini, una boccata di aria fresca, un sostegno prezioso quando la fatica di vivere si affaccia alla porta del cuore.
«Il mio primo ricordo di don Carlo risale al 1941 – dice Cenci, ufficiale sottotenente tra i protagonisti principali del racconto di Mario Rigoni Stern, di cui era comandante al battaglione “ Vestone” del 6° alpini divisione “Tridentina” –. Entrambi eravamo in Montenegro con la “Julia” della quale lui era cappellano. Poi, le vicende della guerra ci hanno diviso per un paio di anni, fino al 18 gennaio 1943, il primo giorno del ripiegamento sul Don. Eravamo a Podgornoje e ancora non sapevamo che cosa ci aspettava: undici disperati e sanguinosi combattimenti per uscire dalla sacca, una marcia di più di quattrocento chilometri nella steppa gelata e sferzata da venti a quaranta gradi sotto zero, i compagni morti e i tanti feriti e congelati». Quel giorno, don Carlo fece fare a tutti gli alpini il segno della Croce e diede a tutti la benedizione. Tanti si confessarono e fecero la Comunione. Per tutti, ebbe parole di conforto e di speranza. «Torneremo a baita, signor tenente?», gli chiedevano gli uomini che sognavano la casa e la famiglia. «Il cappellano – ricorda Cenci – ci diede una risposta che ci scaldò il cuore e ci confortò. “Certo che ritornerete a baita”, ci disse. E subito aggiunse: “Io e Gesù siamo con voi”. Ecco, queste parole, questa benedizione di don Carlo la porto ancora nel cuore e, quando lo sconforto mi pesa sul petto, vado con la memoria a quei momenti e una grande pace mi scende nell’anima. Oggi, dopo tanti anni, posso dire che la sua presenza ha accompagnato e accompagna ancora i miei passi su questa terra».
A don Gnocchi, Cenci dedicherà un bel passaggio di uno dei tanti libri di memorie scritti negli anni della pensione. In “Quello che resta in noi”, il sottotenente annoterà: «Un battaglione senza il cappellano è come se fosse senza il colonnello oppure senza il medico». E ancora: «Il cappellano è quello che ti salva l’anima, che ti dà la benedizione, che entra nella tua buca dove, accato alla fotografia della ragazza, si trovano appesi l’immagine della Madonna oppure il Crocefisso e ti fa fare il segno della Croce». E infine: «Il cappellano è quello che ascolta parole di disperazione e dice parole di consolazione e speranza».
Come don Carlo, anche il sottotenente Cenci, allora appena 23enne, rischiò di morire nella steppa. Proprio l’ultimo giorno del ripiegamento, il 26 gennaio a Nikolajewka, fu ferito a entrambe le gambe da un colpo di parabellum. Giaceva con gli arti spezzati nella neve insanguinata, quando un gruppo di alpini lo raccolse e lo caricò su una slitta di fortuna, assistendolo e curandolo per cinque lunghi giorni. Fu la sua salvezza. In onore di questi generosi soldati, tutti originari di Cologne Bresciano (Brescia), Cenci, dopo la guerra, deciderà di trasferirsi sulle colline della Franciacorta, dove oggi, con la figlia Giuliana, produce degli ottimi vini e spumanti firmati “La boscaiola”. Qui, il 12 settembre 1954, in occasione della consacrazione del santuario della Madonnina del Monte, realizzata dal locale gruppo Ana, don Carlo rivelò all’amico di come gli alpini gli avessero salvato la vita. «Durante il ripiegamento – prosegue il racconto di Cenci – don Carlo sentì di non avere più forze. Si abbandonò sulla neve che, come mi disse lui stesso, tutto a un tratto gli parve non più gelata ma soffice e accogliente. Era la “dolce morte ” che lo stava prendendo. Per fortuna, mentre la colonna già era un puntino lontano all’orizzonte, un gruppo di alpini, vedendolo in quello stato, lo raccolse e lo portò con sè. “Gli alpini”, mi disse don Carlo quella volta, “sono uomini incantevoli, immensi. Li si deve amare come un padre ama i suoi figli”». Ritornato in Italia, Cenci termina gli studi di Medicina e diventa un affermato otorinolaringoiatra, consulente, tra l’altro, dell’Istituto dei tumori di Milano. Qui incontra tanti piccoli malati, alcuni molto gravi e tutti affida alle preghiere di don Carlo. «Non so se la mia fede sia grande o piccola – afferma con delicatezza –. Sono certo, però, che piccola o grande che fosse, è uscita rafforzata dalla sacca del Don. E questo lo devo esclusivamente a don Carlo, che ci ha sostenuto e, con la sua sola presenza, ha dato a tanti di noi la forza di sperare contro ogni speranza. Se siamo tornati da quell’inferno di gelo e pallottole, lo dobbiamo anche a lui. Per ciò che riguarda me, posso dire di essere tornato senz’altro cambiato. Don Carlo, che quando celebrava Messa dietro un fienile o in un’isba diroccata, pregava anche per i russi, per le donne e i bambini che incontravamo sulla nostra strada, ci ha insegnato il valore della tolleranza, dell’altruismo, un forte sentimento di pietà per la sorte comune e quel vincolo d’amore che lega tutti gli uomini. Di tutto lo ringrazio e sento la responsabilità di essere vissuto accanto a un uomo così grande».
Tra pochi giorni, la Chiesa proclamerà beato questo sacerdote ambrosiano che, per gli alpini, siede già da tempo accanto ai santi. Con la sua talare nera e il cappello con la penna.
Comandante di plotone, fu compagno del “Sergente nella neve”, Mario Rigoni Stern. «La sera prima del ripiegamento, ci rinfrancò dicendo: “Tornerete a casa. Io e Gesù siamo con voi”» Dopo la guerra, diventò chirurgo e curò tanti bambini ammalati di tumore. «Tutti affidavo alle preghiere di don Carlo. Per noi alpini è santo da sempre. È in cielo con la talare e il cappello con la penna»