di Carlo Bellieni
Tratto da L’Occidentale il 14 aprile 2009

Un clamoroso studio inglese uscito nei giorni scorsi smentisce tanti luoghi comuni: i medici non vogliono la legalizzazione dell’eutanasia, e anche la popolazione, secondo la ricerca, è molto cauta al riguardo.

Secondo lo studio di Clive Seal, pubblicato su “Palliative Medicine”, solo l’8% dei medici inglesi è favorevole all’eutanasia e solo il 3. 5% al suicidio assistito. Questo dice la ricerca, ma anche tra la gente la percentuale non è alta, pur trattandosi di persone che sanno solo in modo approssimativo cosa sia una malattia grave, non avendola – a differenza dei medici – neanche mai vista: il 30% della popolazione è favorevole all’eutanasia attiva e il 16% al suicidio assistito. E questo dopo anni di martellamento pubblicitario in favore di entrambi.

Ora, l’Inghilterra è certo uno stato laico, e i dottori inglesi non sono certo degli sprovveduti. E a maggioranza si oppongono. Mentre in Italia si vuole far passare la legalizzazione dell’eutanasia come una richiesta di popolo, evidentemente da parte di chi il popolo non lo ha proprio sentito. E la strategia è quella di creare ansia (con la paura diffusa di un supposto accanimento terapeutico), generare confusione tra cosa è terapia e cosa non lo è, e infondere la certezza rigida che le circostanze non fanno cambiare opinione (cioè che se io – ad esempio- penso che vorrei morire se perdessi le gambe, non cambierei idea qualora questo avvenisse). Su questi due ultimi punti bisogna essere chiari.

1 – Acqua, zucchero e proteine non sono una terapia, perché terapia è quello che cura una malattia, e alimentazione e idratazione non curano proprio niente. Dunque, mentre è corretto pensare di non usare farmaci inutili, e di non usare farmaci rifiutati dal paziente, non è corretto soprattutto in assenza di un diniego “in diretta” negare il sostegno vitale. E’ importante tenere a mente questo, perché altrimenti si può pensare che tutto quello che il medico prescrive (dieta sana, passeggiata, aria di montagna) sia una terapia, e reputarla addirittura salva-vita.

2 – L’altro punto è altrettanto importante: vari studi mostrano che si cambia idea, dopo aver espresso l’idea di morire, se cambiano le condizioni ambientali, cioè se si viene curati meglio, in particolare la possibile depressione che cova in ogni malato grave, e se ci si trova in un ambiente stimolante. Uno studio di JL Abraham sulla rivista Hematology mostra che “la richiesta dei parenti o del paziente di affrettare la morte è un modo di esprimere la richiesta di maggiore comunicazione, miglior controllo dei sintomi, migliore comunicazione. E’ raro che rappresenti la necessità per il paziente di controllare ora, luogo e modalità della morte”. E uno studio della professoressa Linda Grandini di Portland, USA, pubblicato dal British Medical Journal spiega che “la legge sulla morte con dignità può mancare nel proteggere i pazienti le cui scelte sono influenzate dalla depressione” dal ricevere il farmaco letale richiesto.

Insomma, la richiesta che viene dai medici è di parlare conoscendo le cose e conoscendo i pazienti. E’ una richiesta a spalancare le porte dell’assistenza e della cura, che, come mostrano recenti reportages del Ministero della Salute inglese, devono fare tanti progressi, soprattutto per le persone disabili. Certamente non si deve usare una terapia inutile, ma viene da pensare che tutta questo terrore alzato verso una supposta sopraffazione sui malati terminali generi solo ansia verosimilmente ingiustificata, e rischi di far introdurre decisioni basate più sulla paura che sull’oggettività scientifica.