Shoccanti risultati di uno studio condotto in Inghilterra: le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C’è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate…

È stato pubblicato in questi giorni in Inghilterra un protocollo dal titolo “Valuing People Now” (“Valorizzare da subito le persone”) attraverso il quale il Governo britannico rinnova la strategia per sopperire alle gravi carenze del sistema sanitario nei confronti degli individui con handicap mentale denunciate nel luglio 2008 dal rapporto “Healthcare for All” (Cura della Salute per Tutti). Sulla rivista “Lancet”, veniva così sintetizzato il risultato del rapporto:  “Il rapporto ha mostrato che le persone con disabilità di apprendimento hanno grande difficoltà ad accedere al Sistema Sanitario Nazionale. Purtroppo, i sanitari e il sistema sanitario ignorano ampiamente questi individui. (…) Il fatto è che le persone con difficoltà di apprendimento sono quasi invisibili al Sistema Sanitario Nazionale” (9 agosto 2008).
I risultati della ricerca lasciavano sgomenti sui reali diritti dei disabili in un’epoca in cui la salute è garantita come diritto e le minoranze sono, a parole, tutelate. Il rapporto sosteneva che le persone con ritardo mentale ricevono meno analgesia e meno cure palliative – in particolare se fanno parte di etnie minoritarie – dal momento che i segni di dolore vengono confusi con quelli che sono espressione di malattia mentale. Riportava che in caso di diabete o d’ipertensione ricevono meno test e meno esami degli altri. E la conclusione è shoccante: “Le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C’è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate”.
Sono tre i punti del documento che spiegano tale carenza omissiva: in primo luogo la carenza di educazione curriculare per medici e infermieri a trattare e interpretare le necessità e i segnali delle persone con disabilità mentale. Il secondo punto è quello che il documento definisce overshadowing (oscuramento) diagnostico, ovvero la tendenza dei medici a scambiare erroneamente i sintomi di comuni malattie per “atteggiamenti” dovuti al ritardo mentale. Il terzo punto è ancora più inquietante:  “talora non viene offerta una cura a persone con disabilità mentale perché si traccia un giudizio sul valore di quella persona. Questo giudizio implica che una vita vissuta con disabilità mentale è una vita di minor valore”. Quest’ultima frase ricorda un’indagine fatta tra i medici di numerosi Paesi che in maggioranza affermavano proprio come la vita con disabilità neurologica o fisica sia peggiore della morte (“Journal of the American Medical Association”, novembre 2000).
L’ultimo punto – ma i primi due sono specchio del terzo – ci riporta a un dato inquietante, così sintetizzato da Didier Sicard, presidente emerito del Comitato Nazionale Francese di Bioetica: l’eugenetica di un tempo si è ora cambiata d’abito, ma scorre ampiamente nella nostra società. Probabilmente è così: non si afferma più che certi esseri umani hanno un “valore inferiore” sulla base di un presunto “bene della Patria” o “della razza”; ma che in fondo è “loro interesse” morire, perché “inevitabilmente soffrono”, e perché, se assolutamente dipendenti dagli altri, non avrebbero vita dignitosa; da qui a sostenere che sofferenza e dipendenza facciano perdere la qualità di “persona” il passo è breve. Ma mentre l’inquietante affermazione che nega l’essere “persone” dei disabili trova facile risposta già nella vita di tutti i giorni, attraverso l’amore di tante mamme e mogli che curano con affetto i neonati o i malati gravi, persone a tutti gli effetti, le altre due – riguardanti il dolore “inevitabile” e la “perdita di dignità” – sono affermazioni altrettanto errate, ma che devono essere ben comprese.
Vediamo di capire. Varie ricerche mostrano che per una serie di ragioni, tra cui il livello delle cure e l’ambiente familiare, la qualità di vita percepita dai disabili può essere pari a quella della popolazione generale, come mostrano uno studio su ex prematuri tra cui molti con problemi funzionali (Saroj Saigal, in “Pediatrics” del marzo 2006) o un altro su disabili fisici, di cui solo il 18 per cento poteva camminare senza aiuto (Susanna Chow, in “Quality of Life Research”, 2005). La discrepanza tra la qualità di vita vista “dall’esterno” e quella percepita dal malato è un fatto ben noto e fu definita disability paradox da Gary Albrecht e Patrick Devlieger che osservarono che inaspettatamente il 54 per cento dei disabili moderati o gravi del loro studio riportavano di percepire una qualità di vita “eccellente” (“Social Science and Medicine”, aprile 1999). Questo non significa che la vita con disabilità non sia una vita colma troppo spesso di fatica e dolore, e soprattutto una vita da curare con priorità, ma significa che dolore e fatica non sono per sé in grado di sopraffare la voglia di vivere – a differenza di quanto invece fanno l’abbandono e la solitudine – e dunque non sono l’ultima definizione della vita dei malati che certamente soffrono, ma riescono anche, con tragica forza talora, ad andare oltre la loro stessa sofferenza. Non è neanche vero che la malattia, anche quella estrema, renda la vita (o la morte) non dignitosa: la dignità dell’uomo resta tale anche in condizioni non dignitose:  è un paradosso che reclama di cambiare le condizioni, non di mettere fine alla vita. Le persone malate vanno curate e curate bene e la nostra società ancora è indietro rispetto ad una giusta classifica delle priorità. Ma risulta difficile capire come invertire la tendenza in società che guardano il malato con pietismo e non generando un’attiva solidarietà; che accanitamente moltiplicano i fondi per gli screening prenatali per malattie genetiche non curabili (vedi Joyce Carter sul “Brithish Medical Journal” dell’aprile 2009), riempiono i quotidiani con richieste di apertura all’eutanasia, ma il cui accanimento decade quando invece si tratta di spendere per cercare una cura alle malattie genetiche come la sindrome Down o le altre malattie dell’apprendimento. Una tale disparità di attenzioni mostra quanto oggi i disabili siano realmente degli “indesiderati” e come siano neanche troppo velatamente invitati a farsi da parte.
La cura delle persone malate, secondo quanto emerge dal rapporto “Healthcare for All” – e da un altro significativamente intitolato “Death by Indifference” (“morte per indifferenza”, del 2007) – trova dunque il maggiore ostacolo nel vederle come un “corpo estraneo” della società; magari un “corpo estraneo” da integrare e cui dare medicine, ma pur sempre un “corpo estraneo”. Questo scatena una vera e propria “handifobia” – come la chiamano in Francia – cioè l’avversione alla stessa presenza fisica della malattia in sé e negli altri, fino all’avversione verso il malato stesso. E l’handifobia genera discriminazione e cattiva cura, come abbiamo visto; è la base della nuova eugenetica, che nasce da una paura totale di ciò che non è programmabile, centellinabile e ostentabile in sé e negli altri. L’handifobia è pericolosa perché passa subdolamente nei media e nelle scuole, mostrando una visione distorta del malato ridotto solo alla sua malattia, censurando l’umanità, gli sforzi e le conquiste dei disabili e delle loro famiglie, riducendo la disabilità a spettacolo o a stato di cui vergognarsi. L’handifobia è dunque un abuso che, come la violenza fisica, merita una sanzione pubblica verso chi la fomenta e chi la tollera, al pari di quanto previsto per altre forme violente di discriminazione sociale.


di Carlo Bellieni –
L’Osservatore Romano