di don Antonello Iapicca

Dal Vangelo secondo Matteo 11,25-30.

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 
Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. 
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

IL COMMENTO

Il riposo appartiene ai piccoli. Lo shabbat, la Terra promessa, il latte ed il miele dell’amore e della misericordia, la fecondità e la pienezza della vita appartengono a chi è stato privato di tutto: Beati i poveri perchè di essi è il Regno dei cieli. Beati i miti perchè possederanno la terra”. Ma noi spendiamo tutto, forze, giorni, affetti, per ciò che non sazia, siamo debitori senza possibilità d’estingure il debito. La carne ci assedia, rende impotente lo Spirito. Ne assecondiamo i desideri, quelli che fanno guerra a Dio e da Lui ci separano. Chi di noi, oggi, non sta pagando un debito alla carne? Chi non è schiavo di un compromesso affettivo, chi non sta inseguendo la chimera del prestigio, la sirena del sesso, i luccichii del denaro? Chi di noi, oggi, non si sente squassato da qualche fatto della vita, oppresso da qualche fardello del passato che condiziona il presente dipingendo di nero il futuro? Chi di noi, oggi, dinanzi alla vita, al suo senso profondo, alle sue infinite possibilità così spesso frustrate non sperimenta il terrore? Chi di noi dinanzi a se stesso, al passato, al presente, al futuro, alla storia, al lavoro, alla famiglia, alla salute, al denaro, agli affetti, alla missione affidata non si sente infinitamente piccolo?

Oppure, anche senza essere appesantiti da qualche peccato mortale, evidente, chi, prendendo oggi seriamente in mano la propria vita, proprio quella che abbiamo consegnato al Signore, obbedendo a una chiamata – al presbiterato, al matrimonio o alla vita religiosa, non importa – non si sente impaurito, oppresso e affaticato? Un “pitocco”, come dice la parola greca originale del Vangelo. Chi non si sente un nullatenente, precario, debole, umiliato? Ora che i sogni e le prospettive degli inizi sembrano sfuggite via; e i figli che crescono e le loro sofferenze come una spada trafiggono la tua anima di padre e di madre; e i dubbi, e il timore di averli ingannati trasmettendogli la fede così radicalmente da strappargli di dosso tutto il mondo in un sol colpo; e che forse si è sbagliato tutto, esagerando e puntando troppo in alto da precipitare giù, e le grazie sembrano non valere a compensare le terribili esigenze della sequela di Cristo sine glossa; li guardi i tuoi figli, li hai condotti a seguire le tue proprie orme nell’abbandono totale alla volontà di Dio, ed è deserto, e la gioia sfilata dal cuore da chissà chi; ora che ti guardi indietro e ti sembra di aver buttato gli anni migliori e le energie della giovinezza nell’annuncio di un Vangelo che non interessa nessuno; e il celibato e la sua solitudine, e non è solo il grido della carne e delle sue voglie, è qualcosa di più profondo, la solitudine del rifiuto, e spesso è doloroso quanto mai questo rifiuto, quello impresso nei volti dei fratelli, degli stessi pastori; e la melma degli affetti che cercano di abbrancarti e tirarti dentro come sabbie mobili, il deserto delle intuizioni incomprese e delle tante parole predicate e volate via come foglie secche cadute da un albero. E anni spesi e nessun raccolto, tanti abbozzi e nessuna costruzione, e ti volti e la tua vita e le fatiche della missione sembrano una di quelle case in costruzione che son giunte al tetto, e la bandiera sventola nel cielo, ma son rimaste un povero scheletro di cemento, niente porte e finestre, niente arredi e letti, e tavoli e sedie ad accogliere vita e futuro. La solitudine del fallimento, come una croce piantata fuori dalla città, lontano dalla vita che sembra muoversi e pulsare. Ora che nulla ti interessa più, che gli anni pesano come fardelli, ed ogni giorno a batterti sulla spalla come il ricordo lancinante di una speranza abortita; ora che trema tutto, che tutto è in pericolo, che tenti di gettare lo sguardo più in là e non riesci a vedere a più di pochi centimetri, e quel che vedi è solo nebbia fitta. Ora che tutto è peso, fatica e oppressione sul cuore, la mente, le braccia e le gambe. Ora che è tutto questo, e molto di più, ora sei piccolo, infinitamente piccolo.

La stessa piccolezza di Francesco, la stessa fatica e oppressione, la paura e l’angoscia di aver sbagliato tutto, di aver fatto tutto sulle proprie forze, di aver capito male… L’Ordine si sbriciolava, discussioni e convegni, e quella parola ascoltata un giorno lontano che più di una chiamata sembrava ormai una chimera. Solo con quell’infinito dolore, e anche il fisico indebolito e stremato pareva rimproverarlo di averlo così strapazzato per nulla, per una vaga utopia, un sogno più grande, un’opera che, ora lo vedeva chiaro, superava di gran lunga le proprie forze. Era la notte della fede, quella sperimentata da tutti i santi, noti o sconosciuti, la dura notte oscura cantata da San Giovanni della Croce. La notte delle stimmate. Essa è descritta in una bellissima pagina di Eloi Leclerque (la pagina per esteso al termine del commento):

“Dio, mio Signore – esclamò allora Francesco – tu hai soffiato sulla mia lampada. Ed eccomi immerso nelle tenebre con tutti coloro che mi avevi affidato. Io son diventato per essi un oggetto di paura. Mi sfuggono ormai anche i seguaci già più fedeli. Tu hai allontanato da me i miei amici e i miei compagni della prima ora. Ascolta, o Signore, la mia supplica! La notte non mi è stata già, forse, abbastanza dura? Accendi nel mio cuore una nuova fiamma. Rivolgi verso di me la Tua faccia, perché la luce della Tua aurora riprenda a risplendermi in viso, e perché i miei seguaci non abbiano a brancolare nel buio. Abbi pietà di me, Signore, per il bene loro… Quindici anni di sforzi, di vigilanza, di esortazioni per giungere a questo triste risultato! La sua fatica era stata del tutto vana. Era uno scacco, il suo, un duro scacco. Ed egli ne risentiva l’offesa, non già a se stesso, ma a Dio, all’onore di Dio. L’indomani, il Venerdì Santo, Francesco volle trascorrere l’intera giornata in solitudine. Ora, mentr’egli pronunciava le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», Francesco si sentì più che mai colto da quel senso di abbandono già espresso dal Signore. Si sentì d’improvviso affratellato a Cristo nel dolore. Queste parole non gli erano mai parse chiare come ora. Gli si eran fatte familiari. Da mesi Francesco andava cercando il volto di Cristo. Da mesi aveva l’impressione che Dio si fosse distolto da lui e dal suo Ordine. Ora capiva l’agonia di Gesù: come un’assenza del Padre, come un senso di fallimento e come un moto fatale ed assurdo degli eventi nel corso dei quali l’uomo e le sue buone intenzioni vengono disperse e sopraffatte da un gioco di forze inesorabili. La Parola del Salmo si impossessava del cuore dì Francesco, senza provocare il ripiegamento su se stesso e senza rinchiuderlo nel suo dolore. La parola del Salmo lo apriva, al contrario, alla parola di Cristo fin dal fondo dell’anima sua. A Francesco sembrava di non aver contemplato questo dolore se non dall’esterno. Ora lo vedeva dal di dentro e vi prendeva parte. Ne faceva personalmente l’esperienza fino alla nausea. Ora egli si sentiva del tutto immedesimato col Cristo… Seguire Cristo a piedi nudi, con la sola tonaca indosso, senza bastone, senza borsa, senza viveri, era già qualcosa, di certo. Ma non era che un inizio, un primo passo. Bisognava seguirlo fino in fondo e lasciarsi condurre, come Cristo da Dio, attraverso un abisso di squallore fino a gustare, in una solitudine atroce, l’aspro sapore della morte del Figlio dell’uomo. Tornando verso l’eremo, Francesco si sentiva avvolto e pervaso della pace dei campi. Tutto era stato consumato. Cristo era morto, e si era rimesso alla volontà del Padre. Aveva accettato il suo scacco. La sua vita d’uomo, il suo onore d’uomo, la sua pena d’uomo, s’erano cancellati dai suoi occhi. Tutto ciò non contava più. Non restava più che una sola verità smisurata: Dio esiste. Questo solo contava e bastava: che Dio fosse Dio. Tutto il suo essere s’era inchinato dinanzi a questa sola realtà. Aveva adorato l’Essere unico ed era morto in questa accettazione senza riserve. In questa estrema povertà era morto Gesù, e in questa suprema accoglienza del Padre. E la gloria di Dio lo aveva rapito e lo aveva fatto suo. – Dio esiste, e tanto basta – mormorò Francesco. Queste semplici parole lo colmavano d’una luce nuova. Esse acquistavano per lui una infinita risonanza. Francesco tese l’orecchio. Lo chiamava una voce che non era umana. Essa aveva un accento di misericordia e parlava al suo cuore, dicendo: – Povero piccolo uomo! Sappi, dunque, ch’io sono Dio, e smettila per sempre d’esser turbato. Perché t’ho fatto pastore del mio gregge, devi forse dimenticare che il pastore principale son io? Ti ho prescelto, o uomo semplice, perché sia ben chiaro agli occhi di tutti che quanto io ho operato in te, anziché alla tua abilità, si deve alla mia grazia. Son io che t’ho chiamato. Son io che custodisco il gregge e lo faccio pascolare. Io sono il Signore e il Pastore. Questo è affar mio. Perciò non preoccuparti d’altro.
– Dio! Dio! – esclamò sottovoce Francesco. – Tu sei protezione. Tu sei guardiano e protettore. Sei grande e ammirevole, o Signore. Tu basti a noi tutti. Amen. Alleluia.
L’anima di Francesco grondava pace e letizia.
– Tu solo sei grande – esclamò Francesco.

E. Leclerque, La sapienza di un povero

E’ la notte che ci avvolge tutti: affaticati, un lavoro duro alle spalle, come quello degli ebrei in Egitto; oppressi, sottomessi come una bestia da soma secondo l’originale greco. Ma è la notte dove Lui ci ha dato appuntamento, come accadde a Francesco sulla Verna. Il silenzio e il deserto, le lacrime e l’angoscia, ogni millimetro del nostro essere scosso come in una centrifuga, la nostra Verna, il luogo preparato da Dio per incontrarci. Questo tempo, così com’è, è opera sua. E’ scandalo, è stoltezza, è la sua Croce piantata nella nostra vita. La fatica e l’oppressione sono la sua voce che ci chiama, e quanto più l’angoscia sconvolge il cuore, tanto più profondamente risuona la sua chiamata: “vieni a me!”. Ora si comprende il senso di questa chiamata, la stessa udita all’inizio: “Seguimi! Venite e vedete!”; ora si svela il senso autentico di quella voce che ha pronunziato il nostro nome, e quello di ciascuno della nostra famiglia, come pronunciò quello di Francesco, “quelli che Egli volle perchè stessero con Lui e per mandarli a predicare”. Tra le due chiamate, fatica e oppressione, e questa notte di oggi. In essa la prima e irrevocabile chiamata raggiunge carne vera, finalmente preparata per accogliere il sigillo, il compimento dell’amore: “Pregando il beato Francesco sul fianco del monte della Verna, vide Cristo in aspetto di Serafino crocefisso; il quale gl’impresse nelle mani e nei piedi e anche nel fianco destro le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo.” (S. Bonaventura). Questa notte ci consegna il tesoro più grande; in essa possiamo imparare l’umiltà e la mitezza di Cristo. Non si tratta di studiare ma di accogliere il dardo che sigilla nelle nostre membra il suo amore. La fatica e l’oppressione hanno preparato il cammino, la Croce può ora imprimersi nella nostra carne, nella vita reale, nei pensieri e negli affetti, in ogni istante, nessuno escluso. Questa notte è preparata da sempre perchè potessimo essere attirati in Lui, nell’unica certezza che pacifica il cuore, nell’unico ristoro e riposo dell’anima: essere crocifissi con Lui, vivere in Lui, sperimentare, nel nulla dei sentimenti, nell’abisso del fallimento, la Roccia che non vacilla in eterno. E’ notte di libertà, da noi stessi, dall’affetto umano per i figli, siano essi quelli generati nella carne, siano i progetti della mente e del cuore.

“Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L’uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l’opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d’inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l’uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l’iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L’uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l’uomo attinge l’ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte“.

E. Leclerque, La sapienza di un povero

E’ la notte del Moria, dove riconsegnare a Dio Isacco, per riaverlo purificato da ogni idolatria, ed accoglierlo e custodirlo e amarlo come un dono affidato. E’ la notte di Giacobbe al guado di Jabbok, dove ha sperimentato che l’unica forza è la debolezza appoggiata in Dio; è quella di Giobbe condotto per mano da Dio a riconoscere la propria piccolezza, dove tapparsi la bocca per riconoscere che “prima ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono”; è la notte di Pietro, irrorata dalle lacrime del tradimento, la più dura, dove conoscere, come il Popolo nel deserto, la propria totale incapacità, il mare che separa il dire dal fare. E’ la notte dove sperimentare il suo amore, l’unico che non delude, non abbandona, non giudica. La notte che ci è data per imparare a non conoscere più nessuno secondo la carne, neanche Cristo, perchè è Lui che viene a conoscere noi, a unirci a Lui, a farci carne della sua carne, a farci suoi sino al fondo più buio della nostra anima; è Lui che imprime il suo giogo, la Croce della sua offerta incondizionata, per portarlo con noi, per noi, in noi. Non v’è altro riposo che la Terra promessa, la certezza del suo amore, che solo Lui basta davvero; la Terra che è immagine del Regno, le primizie del Cielo qui ed ora, per noi, per i nostri figli, per ogni uomo raggiunto dai nostri stessi passi. La Terra che è Cristo: “Gli ebrei pensano che la terra santa sia il suolo della Giudea, mentre è da intendersi come la carne del Signore, la quale, da ora in poi, è terra santa per coloro che si sono rivestiti di Cristo, veramente santa per l’inabitazione dello Spirito Santo”. (Tertulliano, Trattato sulla risurrezione).

Per questo Francesco, al colmo della sofferenza fisica, con l’Ordine che sembra averlo rifiutato e non seguirlo più, alle soglie della morte, cieco e senza forze, affaticato ed oppresso, può erompere in un cantico di gioia, colmo della perfetta letizia; aveva deposto il suo giumento di progetti e speranze, l’uomo vecchio che conosce uomini e avvenimenti secondo la carne, per caricare il giogo di Cristo, fonte di letizia autentica, che solo i piccoli possono sperimentare. I sapienti e gli intelligenti faticano disperatamente cercando di acciuffare quello che solo l’amore può accogliere. “L’amore, in effetti, rende assolutamente facili e riduce quasi a nulla le cose più spaventose ed orrende. Quanto dunque la carità rende più sicuro e più facile il cammino verso l’acquisto della vera felicità, mentre la cupidigia, per quanto lo può, rende facile il cammino alla miseria! le cose che sono aspre per coloro che provano affanno, si addolciscono per quelli che amano” (S. Agostino, Discorso 70).

L’amore impresso nella carne per trasformarla in amore da offrire. Nella notte Francesco ha compreso, per esperienza, il totale capovolgimento di prospettiva che quelle stimmate avevano operato in Lui. Lo stesso che oggi il Signore vuole rivelarci. Sediamoci allora solitari e silenziosi, la bocca nella polvere, nell’attesa paziente che Lui ci segni con le stimmate del suo amore. Lasciamo che la storia che il Padre traccia per noi distrugga le sicurezze, gli schemi, i criteri. Che ci purifichi laddove il demonio ha deposto la sua menzogna e ci ha fatti schiavi e debitori verso la carne e i suoi desideri. Il Suo giogo, la Croce che crocifigge il nostro uomo vecchio, il suo amore che fa dolce e leggera la vita, anche la più difficile. E’ leggero e soave il suo giogo perchè è libertà e amore. In Lui la notte oscura è trasformata nella notte del Getsemani, dove, trascinati dalla sua obbedienza, consegnare la nostra vita: le sue stimmate in noi, il segno che ci fa suoi, attirati nella sua volontà che vince la nostra carne e la vincola in un aquedà d’amore. Le stimmate che ci inchiodano la carne, la spada che ci trafigge l’anima, sono puro amore riversato in noi: esse impregnano ogni fibra del nostro essere dell’unica certezza, e, dal ripiegamento affaticato e oppresso su noi stessi, ci spingono ad offrirci, a donarci senza riserve. Caritas Christi urget nos! L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti, perchè nessuno viva più per se stesso. Ecco il segreto della notte, delle stimmate, della nostra storia, il rovesciamento d’ogni criterio: in questa notte è il suo amore che ci spinge da dentro ad uscire, a consegnarci, a vivere questo istante così doloroso in un’offerta di soave odore. E’ questa la missione, è questo il successo e la pienezza della vita, proprio quando e dove essa sembra perduta irrimediabilmente.

Oh! Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, fa ch’io porti amore,
dove è offesa, ch’io porti il perdono,
dove è discordia, ch’io porti la fede,
dove è l’errore, ch’io porti la Verità,
dove è la disperazione, ch’io porti la speranza.
Dove è tristezza, ch’io porti la gioia,
dove sono le tenebre, ch’io porti la luce.
Oh! Maestro, fa che io non cerchi tanto:
Ad essere compreso, quanto a comprendere.
Ad essere amato, quanto ad amare
Poichè:
Sì è: Dando, che si riceve:
Perdonando che si è perdonati;
Morendo che si risuscita a Vita Eterna.
Amen.

La notte delle stimmate. Da La sapienza di un povero

“Dio, mio Signore – esclamò allora Francesco – tu hai soffiato sulla mia lampada. Ed eccomi immerso nelle tenebre con tutti coloro che mi avevi affidato. Io son diventato per essi un oggetto di paura. Mi sfuggono ormai anche i seguaci già più fedeli. Tu hai allontanato da me i miei amici e i miei compagni della prima ora. Ascolta, o Signore, la mia supplica! La notte non mi è stata già, forse, abbastanza dura? Accendi nel mio cuore una nuova fiamma. Rivolgi verso di me la Tua faccia, perché la luce della Tua aurora riprenda a risplendermi in viso, e perché i miei seguaci non abbiano a brancolare nel buio. Abbi pietà di me, Signore, per il bene loro. Francesco andò a sedersi ai piedi d’una rupe. Il cuculo cantava nel bosco. L’aria era tiepida e dorata. Ma Francesco non vedeva il sole, né udiva il cuculo. Aveva freddo e pensava a frate Rufino e agli altri: agli altri tutti, dal primo all’ultimo. Se uno dei suoi primi seguaci, quale Rufino, aveva potuto allontanarsi tanto facilmente da lui, che assegnamento poteva farsi sulla fedeltà di quella folla di frati appena conosciuti? La piaga dell’anima sua, già lenita da Chiara, tornava ora a riaprirsi e a sanguinare. Quindici anni di sforzi, di vigilanza, di esortazioni per giungere a questo triste risultato! La sua fatica era stata del tutto vana. Era uno scacco, il suo, un duro scacco. Ed egli ne risentiva l’offesa, non già a se stesso, ma a Dio, all’onore di Dio.
L’indomani, il Venerdì Santo, Francesco volle trascorrere l’intera giornata in solitudine, meditando sulla Passione di Cristo. Aveva scelto a tale scopo un luogo selvaggio la cui austerità si intonava al grande evento che gli colmava il pensiero ed il cuore. Volendo immedesimarsi coi sentimenti del Signore, Francesco prese a declamare il Salmo già recitato da Cristo sulla Croce. Ad ogni versetto faceva una pausa per consentire alle parole di invaderlo fin nel fondo dell’anima. Ora, mentr’egli pronunciava le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», Francesco si sentì più che mai colto da quel senso di abbandono già espresso dal Signore. Si sentì d’improvviso affratellato a Cristo nel dolore. Queste parole non gli erano mai parse chiare come ora. Gli si eran fatte familiari. Da mesi Francesco andava cercando il volto di Cristo. Da mesi aveva l’impressione che Dio si fosse distolto da lui e dal suo Ordine. Ora capiva l’agonia di Gesù: come un’assenza del Padre, come un senso di fallimento e come un moto fatale ed assurdo degli eventi nel corso dei quali l’uomo e le sue buone intenzioni vengono disperse e sopraffatte da un gioco di forze inesorabili. La Parola del Salmo si impossessava del cuore dì Francesco, senza provocare il ripiegamento su se stesso e senza rinchiuderlo nel suo dolore. La parola del Salmo lo apriva, al contrario, alla parola di Cristo fin dal fondo dell’anima sua. A Francesco sembrava di non aver contemplato questo dolore se non dall’esterno. Ora lo vedeva dal di dentro e vi prendeva parte. Ne faceva personalmente l’esperienza fino alla nausea. Ora egli si sentiva del tutto immedesimato col Cristo. Da lungo tempo Francesco aspirava ad imitare in tutto il Signore. Da quando s’era convertito non aveva desistito da questo sforzo. Ma per quanto ci si adoperasse, non sapeva ancora in verità cosa fosse l’immedesimazione col Signore. E come avrebbe potuto saperlo? L’uomo non può conoscere altro che i dati della propria esperienza. Seguire Cristo a piedi nudi, con la sola tonaca indosso, senza bastone, senza borsa, senza viveri, era già qualcosa, di certo. Ma non era che un inizio, un primo passoBisognava seguirlo fino in fondo e lasciarsi condurre, come Cristo da Dio, attraverso un abisso di squallore fino a gustare, in una solitudine atroce, l’aspro sapore della morte del Figlio dell’uomo.
Quel giorno del Venerdì Santo fu molto stancante e molto lungo. Ma pur venne la sera con tutta la sua pace. Fu una pace profonda, come la pace dei campi al termine dei lavori agresti. Allora la terra è sconvolta e squarciata. Essa non oppone più alcuna resistenza, ben aperta e docile. La frescura della sera la imbeve tutta. Tornando verso l’eremo, Francesco si sentiva avvolto e pervaso della pace dei campi. Tutto era stato consumato. Cristo era morto, e si era rimesso alla volontà del Padre. Aveva accettato il suo scaccoLa sua vita d’uomo, il suo onore d’uomo, la sua pena d’uomo, s’erano cancellati dai suoi occhi. Tutto ciò non contava più. Non restava più che una sola verità smisurata: Dio esiste. Questo solo contava e bastava: che Dio fosse Dio. Tutto il suo essere s’era inchinato dinanzi a questa sola realtà. Aveva adorato l’Essere unico ed era morto in questa accettazione senza riserve. In questa estrema povertà era morto Gesù, e in questa suprema accoglienza del Padre. E la gloria di Dio lo aveva rapito e lo aveva fatto suo.
– Dio esiste, e tanto basta – mormorò Francesco.
Da uno spiraglio tra i rami, Francesco contemplò il cielo che era sgombro di nuvole. Vi spaziava un nibbio rosso. Il suo volo tranquillo e solitario pareva che dicesse alla terra: «Dio solo è l’Onnipotente. Egli è l’Eterno. Basta che Dio sia Dio». Francesco sentì l’anima sua alleggerita. Possente e leggera, insieme, come un colpo d’ala.
– Dio esiste, e tanto basta – ripeté Francesco.
Queste semplici parole lo colmavano d’una luce nuova. Esse acquistavano per lui una infinita risonanza. Francesco tese l’orecchio. Lo chiamava una voce che non era umana. Essa aveva un accento di misericordia e parlava al suo cuore, dicendo:
– Povero piccolo uomo! Sappi, dunque, ch’io sono Dio, e smettila per sempre d’esser turbato. Perché t’ho fatto pastore del mio gregge, devi forse dimenticare che il pastore principale son io? Ti ho prescelto, o uomo semplice, perché sia ben chiaro agli occhi di tutti che quanto io ho operato in te, anziché alla tua abilità, si deve alla mia grazia. Son io che t’ho chiamato. Son io che custodisco il gregge e lo faccio pascolare. Io sono il Signore e il Pastore. Questo è affar mio. Perciò non preoccuparti d’altro.
– Dio! Dio! – esclamò sottovoce Francesco. – Tu sei protezione. Tu sei guardiano e protettore. Sei grande e ammirevole, o Signore. Tu basti a noi tutti. Amen. Alleluia.
L’anima di Francesco grondava pace e letizia. Egli camminava d’un passo felice. Anziché camminare, gli pareva di danzare. Giunse Francesco ad un luogo donde il suo sguardo poteva spaziare molto lontano sulla campagna. Di lì si dominavano le colline circostanti e oltre ad esse la pianura che sfumava all’orizzonte. Francesco si fermò un istante a contemplare il paesaggio. Su una delle colline un armento di vacche tornava dal pascolo. Era minuscola quella visione. Si distinguevano le bestie, e dietro di loro l’uomo in cammino. Tutt’intorno dovevan esserci dei cani, ma si distinguevano a mala pena. Quando una delle bestie si allontanava troppo dalle altre, essa veniva ricondotta nel gruppo come da una forza invisibile. L’uomo doveva urlare e i suoi cani abbaiare. Ma a quella distanza e a quella altezza non se ne percepivano le singole voci. La scena era pervasa di silenzio. Essa sembrava fusa con la vita silenziosa della natura. L’affaccendarsi del guardiano assumeva in quel complesso le sue giuste proporzioni. Era qualcosa di minuscolo, di quasi insignificante.
– Tu solo sei grande – esclamò Francesco.

Ancora da La sapienza di un povero.

“Per seguire il richiamo di Dio, uno si dedica tutto ad un’opera, con passione e con entusiasmo. È bene e necessario che sia così. L’entusiasmo solo è creatore. Ma creare qualcosa significa imporle la nostra firma e significa impossessarcene. Allora il servo di Dio si espone al suo più grande pericolo. L’opera compiuta diventa per l’autore che vi si attacca, il centro del mondo: essa lo mette in uno stato di indisponibilità radicale. Potrà liberarsene solo a costo d’una frattura. Grazie a Dio, tale frattura può prodursi. Ma i mezzi di cui dispone la Provvidenza per ottenerla sono terribili. Essi consistono nell’incomprensione, nella contraddizione, nella sofferenza e nello scacco. E, talora, anche nello stesso peccato, permesso da Dio. La vita di fede subisce allora la sua crisi, la più profonda e la più decisiva. Né può evitarsi questa crisi che, prima o poi, si produce in tutte le condizioni della vita. L’uomo s’è dedicato, anima e corpo, all’opera sua e s’è illuso di dedicarla alla gloria di Dio. Sennonché, Dio par che lo abbandoni a se stesso e non si interessi del suo lavoro. Anzi, par che Dio gli chieda di rinunciare al suo lavoro, d’abbandonare l’opera alla quale l’uomo ha dedicato per anni ed anni tutte le proprie forze, ora nella gioia ed ora nel dolore.
«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami tanto, e va nel paese di Moria ed offrilo in olocausto». Questa terribile ingiunzione rivolta da Dio ad Abramo, non c’è servo di Dio che non se la senta rivolgere un giorno a se stesso. Abramo aveva prestato fede alla promessa che Dio gli aveva fatta di dargli una discendenza; per vent’anni aveva atteso che tale promessa si realizzasse. Non aveva perso ogni speranza. E quando finalmente nacque il figlio, frutto della promessa divina, Dio ingiunse ad Abramo di sacrificarglielo, senza nessuna spiegazione. Fu un colpo ben duro e incomprensibile. Orbene, anche a noi, un giorno o l’altro, Dio fa la stessa ingiunzione. Fra Dio e l’uomo par che non si parli più la stessa lingua. Essi non si intendono più. Dio aveva chiamato e l’uomo aveva risposto. Ora è l’uomo che chiama, ma Dio non risponde. È un momento tragico, questo, in cui la vita religiosa confina con la disperazione: l’uomo lotta da solo, nelle tenebre con l’inafferrabile. Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L’uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l’opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d’inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l’uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l’iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L’uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l’uomo attinge l’ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte”.

Testamento (1226)

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo.
E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E il Signore mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi.
E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà.
E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri.
E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.
E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in un luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola, così come coloro che ci danno lo spirito e la vita.
E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere e il signor Papa me lo confermò.
E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca rappezzata dentro e fuori, quelli che volevano, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
E dicevamo l’ufficio, i chierici come gli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; a assai volentieri rimanevamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e soggetti a tutti. E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, e tutti gli altri frati voglio che lavorino di lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore chiedendo l’elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace.
Si guardino i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, ovunque sono, non osino chiedere lettera alcuna nella curia romana direttamente o per mezzo di interposta persona, né per le chiese, né per altri luoghi, né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi, ma, dove non saranno ricevuti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di Dio.
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di darmi. E così io voglio essere schiavo nelle sue mani che non possa andare e fare oltre l’obbedienza e la sua volontà, poiché egli è mio signore. E sebbene sia semplice ed infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico che mi reciti l’ufficio, così come è detto nella Regola.
E tutti gli altri frati siano tenuti ad obbedire così ai loro guardiani e a recitare l’ufficio secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non recitano l’ufficio secondo la Regola o volessero comunque variarlo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque sono, siano tenuti per obbedienza, appena trovato uno di essi, a consegnarlo al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custodia sia tenuto fermamente per obbedienza, a custodirlo severamente come un uomo in prigione, giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano, finché personalmente lo consegni nelle mani del suo ministro.
E il ministro sia tenuto fermamente per obbedienza a farlo scortare per mezzo di frati che lo custodiscano giorno e notte come un prigioniero, finché non lo consegnino al cardinale di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità.
E non stiano a dire i frati che questa è un’altra Regola; poiché questa è un ricordo, un’ammonizione, una esortazione e il mio testamento che io frate Francesco poverello faccio a voi, fratelli miei benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.
E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non aggiungere e a non togliere niente a queste parole.
E sempre tengano con sé questo scritto insieme con la Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole. E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente per obbedienza che non aggiungano spiegazioni alla Regola e a queste parole dicendo: Così si devono intendere; ma come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere la Regola e queste parole con semplicità e purezza, così semplicemente e senza commento dovete comprenderle e santamente osservarle sino alla fine.
E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ripieno della benedizione del diletto Figlio suo col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i santi. Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen.

Piccolo testamento

(Siena, maggio 1226)

Scrivi il modo in cui benedico tutti i miei frati che sono ora nell’Ordine e che vi entreranno fino alla fine del mondo. E siccome per la mia debolezza e per la sofferenza della malattia non posso parlare, in tre parole mostrerò brevemente la mia volontà e la mia intenzione a tutti i frati presenti e futuri.
Cioè: in ossequio alla mia memoria, alla benedizione e al testamento, sempre si amino tra loro come io li ho amati e li amo; sempre amino ed osservino nostra signora la santa povertà; e sempre siano fedeli sudditi dei prelati e chierici della santa madre Chiesa.

BENEDETTO XVI PRESENTA LA FIGURA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì, 27 gennaio 2010

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi, ho già illustrato il ruolo provvidenziale che l’Ordine dei Frati Minori e l’Ordine dei Frati Predicatori, fondati rispettivamente da san Francesco d’Assisi e da san Domenico da Guzman, ebbero nel rinnovamento della Chiesa del loro tempo. Oggi vorrei presentarvi la figura di Francesco, un autentico “gigante” della santità, che continua ad affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione.
“Nacque al mondo un sole”. Con queste parole, nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XI), il sommo poeta italiano Dante Alighieri allude alla nascita di Francesco, avvenuta alla fine del 1181 o agli inizi del 1182, ad Assisi. Appartenente a una ricca famiglia – il padre era commerciante di stoffe –, Francesco trascorse un’adolescenza e una giovinezza spensierate, coltivando gli ideali cavallereschi del tempo. A vent’anni prese parte ad una campagna militare, e fu fatto prigioniero. Si ammalò e fu liberato. Dopo il ritorno ad Assisi, cominciò in lui un lento processo di conversione spirituale, che lo portò ad abbandonare gradualmente lo stile di vita mondano, che aveva praticato fino ad allora. Risalgono a questo periodo i celebri episodi dell’incontro con il lebbroso, a cui Francesco, sceso da cavallo, donò il bacio della pace, e del messaggio del Crocifisso nella chiesetta di San Damiano. Per tre volte il Cristo in croce si animò, e gli disse: “Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina”. Questo semplice avvenimento della parola del Signore udita nella chiesa di S. Damiano nasconde un simbolismo profondo. Immediatamente san Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo stato rovinoso di questo edificio è simbolo della situazione drammatica e inquietante della Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che non forma e non trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffreddarsi dell’amore; una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche una decomposizione dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali. Tuttavia, in questa Chiesa in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al rinnovamento, chiama Francesco ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano, simbolo della chiamata più profonda a rinnovare la Chiesa stessa di Cristo, con la sua radicalità di fede e con il suo entusiasmo di amore per Cristo. Questo avvenimento, accaduto probabilmente nel 1205, fa pensare ad un altro avvenimento simile verificatosi nel 1207: il sogno del Papa Innocenzo III. Questi vede in sogno che la Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. E’ interessante notare, da una parte, che non è il Papa che dà l’aiuto affinché la chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso, che il Papa riconosce in Francesco che Gli fa visita. Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san Francesco, chiamato da Dio. Dall’altra parte, però, è importante notare che san Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il Papa, ma solo in comunione con lui. Le due realtà vanno insieme: il Successore di Pietro, i Vescovi, la Chiesa fondata sulla successione degli Apostoli e il carisma nuovo che lo Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa. Insieme cresce il vero rinnovamento.
Ritorniamo alla vita di san Francesco. Poiché il padre Bernardone gli rimproverava troppa generosità verso i poveri, Francesco, dinanzi al Vescovo di Assisi, con un gesto simbolico si spogliò dei suoi abiti, intendendo così rinunciare all’eredità paterna: come nel momento della creazione, Francesco non ha niente, ma solo la vita che gli ha donato Dio, alle cui mani egli si consegna. Poi visse come un eremita, fino a quando, nel 1208, ebbe luogo un altro avvenimento fondamentale nell’itinerario della sua conversione. Ascoltando un brano del Vangelo di Matteo – il discorso di Gesù agli apostoli inviati in missione –, Francesco si sentì chiamato a vivere nella povertà e a dedicarsi alla predicazione. Altri compagni si associarono a lui, e nel 1209 si recò a Roma, per sottoporre al Papa Innocenzo III il progetto di una nuova forma di vita cristiana. Ricevette un’accoglienza paterna da quel grande Pontefice, che, illuminato dal Signore, intuì l’origine divina del movimento suscitato da Francesco. Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni carisma donato dallo Spirito Santo va posto a servizio del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; pertanto agì sempre in piena comunione con l’autorità ecclesiastica. Nella vita dei santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma di governo e, se qualche tensione viene a crearsi, essi sanno attendere con pazienza i tempi dello Spirito Santo.
In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia. La verità è che san Francesco ha avuto realmente una relazione immediatissima con Gesù e con la parola di Dio, che voleva seguire sine glossa, così com’è, in tutta la sua radicalità e verità. E’ anche vero che inizialmente non aveva l’intenzione di creare un Ordine con le forme canoniche necessarie, ma, semplicemente, con la parola di Dio e la presenza del Signore, egli voleva rinnovare il popolo di Dio, convocarlo di nuovo all’ascolto della parola e all’obbedienza verbale con Cristo. Inoltre, sapeva che Cristo non è mai “mio”, ma è sempre “nostro”, che il Cristo non posso averlo “io” e ricostruire “io” contro la Chiesa, la sua volontà e il suo insegnamento, ma solo nella comunione della Chiesa costruita sulla successione degli Apostoli si rinnova anche l’obbedienza alla parola di Dio.
E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi. Sapeva sempre che il centro della Chiesa è l’Eucaristia, dove il Corpo di Cristo e il suo Sangue diventano presenti. Tramite il Sacerdozio, l’Eucaristia è la Chiesa. Dove Sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa vanno insieme, solo qui abita anche la parola di Dio. Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni.
Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziuncola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di nobile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.
Anche il successore di Innocenzo III, il Papa Onorio III, con la sua bolla Cum dilecti del 1218 sostenne il singolare sviluppo dei primi Frati Minori, che andavano aprendo le loro missioni in diversi paesi dell’Europa, e persino in Marocco. Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il Cristianesimo e l’Islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cfr Nostra Aetate, 3). Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti, fecero dei Luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione. Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana di Terra Santa.
Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo vicario, fra Pietro Cattani, mentre il Papa affidò alla protezione del Cardinal Ugolino, il futuro Sommo Pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva sempre più aderenti. Da parte sua il Fondatore, tutto dedito alla predicazione che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata dal Papa.
Nel 1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella forma di un serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso, ricevette le stimmate; egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che esprime la sua intima identificazione col Signore.
La morte di Francesco – il suo transitus – avvenne la sera del 3 ottobre 1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i suoi figli spirituali, egli morì, disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi il Papa Gregorio IX lo iscrisse nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una grande basilica in suo onore veniva innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di moltissimi pellegrini, che possono venerare la tomba del santo e godere la visione degli affreschi di Giotto, pittore che ha illustrato in modo magnifico la vita di Francesco.
È stato detto che Francesco rappresenta un alter Christus, era veramente un’icona viva di Cristo. Egli fu chiamato anche “il fratello di Gesù”. In effetti, questo era il suo ideale: essere come Gesù; contemplare il Cristo del Vangelo, amarlo intensamente, imitarne le virtù. In particolare, egli ha voluto dare un valore fondamentale alla povertà interiore ed esteriore, insegnandola anche ai suoi figli spirituali. La prima beatitudine del Discorso della Montagna – Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3) – ha trovato una luminosa realizzazione nella vita e nelle parole di san Francesco. Davvero, cari amici, i santi sono i migliori interpreti della Bibbia; essi, incarnando nella loro vita la Parola di Dio, la rendono più che mai attraente, così che parla realmente con noi. La testimonianza di Francesco, che ha amato la povertà per seguire Cristo con dedizione e libertà totali, continua ad essere anche per noi un invito a coltivare la povertà interiore per crescere nella fiducia in Dio, unendo anche uno stile di vita sobrio e un distacco dai beni materiali.
In Francesco l’amore per Cristo si espresse in modo speciale nell’adorazione del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Nelle Fonti francescane si leggono espressioni commoventi, come questa: “Tutta l’umanità tema, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, vi è Cristo, il Figlio del Dio vivente. O favore stupendo! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi per la nostra salvezza, sotto una modica forma di pane” (Francesco di Assisi, Scritti, Editrici Francescane, Padova 2002, 401).
In quest’anno sacerdotale, mi piace pure ricordare una raccomandazione rivolta da Francesco ai sacerdoti: “Quando vorranno celebrare la Messa, puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo” (Francesco di Assisi, Scritti, 399). Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni. Portava come motivazione di questo profondo rispetto il fatto che essi hanno ricevuto il dono di consacrare l’Eucaristia. Cari fratelli nel sacerdozio, non dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci chiede di essere puri, di vivere in modo coerente con il Mistero che celebriamo.
Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tutte le creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che gli ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto attuale. Come ho ricordato nella mia recente Enciclica Caritas in veritate, è sostenibile solo uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi l’ambiente (cfr nn. 48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è legata al rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si dispiega la sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa proprio come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà diventa trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.
Cari amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua semplicità, la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà verso ogni uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti, tra la santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrittore francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non essere santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza di san Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità: diventare santi, vicini a Dio!
Ci ottenga la Vergine, teneramente amata da Francesco, questo dono. Ci affidiamo a Lei con le parole stesse del Poverello di Assisi: “Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te nata nel mondo tra le donne, figlia e ancella dell’altissimo Re e Padre celeste, Madre del santissimo Signor nostro Gesù Cristo, sposa dello Spirito Santo: prega per noi… presso il tuo santissimo diletto Figlio, Signore e Maestro” (Francesco di Assisi, Scritti, 163).

Da La sapienza di un povero

– Ascoltami bene. – disse Francesco al termine d’un breve silenzio. – Non voglio lasciarti nella illusione. Ti parlerò ben chiaro, dal momento che me lo chiedi. Io non mi considererei un frate minore se non fossi nelle seguenti condizioni: io sono il Superiore del mio Ordine, partecipo al Capitolo, faccio la predica, esprimo le mie osservazioni; e quando ho esaurite le mie mansioni, mi si dice: «Tu non hai le qualità che ci vogliono per noi. Tu sei ignorante e disprezzabile. Non ti vogliamo più come nostro Superiore, perché non sai parlare e perché sei sempliciotto e limitato». Mi si caccia via con ignominia, e tutti mi disprezzano. Ebbene, se io non accetto le suddette accuse con viso immutato, con la stessa allegrezza e conservando l’identica volontà di santificazione, ciò significa che io non sono punto un vero frate minore.

– Tutto questo sta bene, ma non risolve la questione – obiettò Tancredi.

– Quale questione? – chiese Francesco.

Tancredi lo fissò, tutto stupito.

– Quale questione? – tornò a chiedere Francesco.

– Ebbene, la questione dell’Ordine! – esclamò Tancredi. Tu mi hai rivelato ora il tuo stato d’animo, ch’io posso anche approvare. Ma tu non puoi limitarti a questo punto di vista del tutto personale e preoccuparti soltanto della tua perfezione. Ci sono anche gli altri. Tu sei il loro Padre e la loro guida! Non puoi tu abbandonarli a loro stessi. Essi hanno diritto al tuo aiuto. Non devi trascurarli.

– È vero, Tancredi. Ci sono gli altri; ed io, credi, penso molto ad essi – soggiunse Francesco. – Ma non s’aiuta a praticare la dolcezza e la pazienza evangelica, sferrando colpi contro tutti coloro che non la pensano come noi.

– Ma cosa ne fai tu della collera di Dio? ribatté vivamente Tancredi. – Ci son sante collere. Cristo ha fatto schioccare la frusta sul capo dei profanatori del Tempio, e non sul loro capo soltanto. Bisogna talora cacciare dal Tempio i profanatori. E bisogna farlo senza mezzi termini. Anche questo è un modo di imitare il Signore.

Tancredi s’era animato e parlava ad alta voce e con foga, accompagnando le sue parole con gesti violenti. Il suo viso s’era acceso. Fece per alzarsi, ma Francesco lo trattenne, posandogli la mano sulla spalla.

– Orsù, fratello Tancredi, prestami un po’ ascolto – disse Francesco con tono pacato. – Se il Signore volesse bandire dal suo cospetto ogni traccia di corruzione umana, credi tu che saremmo in molti ad esserne risparmiati? Saremmo spazzati via tutti quanti, caro mio! Noi non meno degli altri. Non c’è tanta diversità fra gli uomini da questo punto di vista. Per nostra fortuna Dio non pulisce la casa facendone un deserto. E in questo sta la nostra salvezza. Egli ha cacciato un giorno i profanatori dal Tempio. Ma lo ha fatto al fine di dimostrarci che poteva farlo, che ne aveva pieno diritto e che era padrone in casa sua. Ma lo ha fatto, bada bene, una sola volta e come per gioco, o per caso. In seguito si è offerto lui stesso ai colpi dei suoi persecutori. Ci ha rivelato in tal modo in che consista la pazienza di Dio. Non in una impotenza a punire con rigore, ma in una volontà d’amore che non si rinnega mai.

– Sì, Padre, ma così facendo, tu non fai che disertare la partita. L’Ordine si perderà. E la Chiesa avrà a soffrirne moltissimo. Anziché rinnovarsi, essa si corromperà ancor più. Ecco tutto concluse Tancredi.

– Ebbene, io son certo che l’ordine sopravvivrà ad ogni prova – affermò Francesco con gran decisione – purché mantenga la sua calma. Il Signore me lo ha assicurato. È affar suo provvedere all’avvenire dell’Ordine. Se i frati saranno infedeli, Dio ne susciterà ben altri al posto loro. Forse, questi nuovi frati sono già nati. Per quanto mi riguarda, il Signore non mi ha chiesto di far opera di persuasione per mezzo dell’eloquenza e della cultura, né tanto meno di far opera di costrizione sugli uomini. Egli non mi ha imposto che di vivere secondo i dettami del Vangelo. E, non appena ebbi dei seguaci, io mi affrettai a redigere una Regola di poche e semplici parole. Ne ebbi l’approvazione del Papa. Non avevo pretese, ed ognuno di noi era sottomesso a tutti gli altri. Io intendo serbar fede a questo principio fino alla mia morte.

– Dobbiamo, dunque, lasciare che gli altri agiscano a loro modo, e subire ogni offesa senza un moto di protesta! – ribatté Tancredi.

– Per quanto mi concerne – aggiunse Francesco – io intendo sottomettermi a tutti gli uomini e a tutte le creature del mondo, per quanto Dio me lo consente. Ecco quel che significa esser frate minore.

– No, Padre. Non posso seguirti per questa via, né posso comprenderti disse Tancredi.

– Tu non mi comprendi riprese Francesco perché questo mio atteggiamento umile e sottomesso ti sembra vile e passivo. Ma si tratta di ben altro. Anch’io, per lungo tempo non ho capito. Mi son dibattuto nel buio come un povero uccello nella pania. Ma il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell’uomo e la sua maturità consistono anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell’accettare con gioia la realtà, tutta la realtà. L’uomo che vagheggia il suo ideale, rimane chiuso in se stesso. Egli non comunica veramente con gli altri, né prende conoscenza dell’universo. Gli mancano il silenzio, la profondità e la pace. La profondità dell’uomo non è altro che la sua disposizione ad accogliere il mondo. Gli uomini restano, quasi tutti, isolati in se stessi, ad onta delle apparenze. Essi sono simili ad insetti che non riescono a spogliarsi del loro guscio. Essi si agitano, disperati, nel cerchio dei loro limiti. In fin dei conti, essi si ritrovano al punto,di partenza. Essi credono d’aver cambiato qualcosa, e non s’avvedono di morire senz’aver visto la luce del giorno. Gli uomini non sono mai del tutto svegli alla realtà. Hanno vissuto in sogno.

Tancredi ascoltava in silenzio. Le parole di Francesco gli suonavano tanto strane. Quale dei due sognava? Francesco o lui? Lo irritava il pensiero di esser considerato un sognatore. Tancredi era sicuro di sé, di quel che vedeva e di quel che sentiva.

– Allora, sono tutti dei sognatori coloro che tentano di fare qualcosa in questo mondo! – esclamò Tancredi dopo un breve silenzio.

– Non dico questo – replicò Francesco. – Ma penso che è difficile accettare la realtà. In verità, nessuno l’accetta in blocco. Noi aspiriamo sempre ad aggiungere, in qualche modo, una spanna alla nostra statura. È questo il fine di quasi tutte le nostre azioni. Anche quando si crede di operare per il Regno di Dio, non cerchiamo che di farci più grandi, fino al giorno in cui, sconfitti, non ci rimane che questa sola smisurata realtà: Dio esiste. Allora scopriamo che Lui solo è Onnipotente, che Lui solo è santo, che Lui solo è buono. L’uomo che accetta questa realtà e se ne compiace, trova in cuor suo la serenità. Dio esiste, ed è tutto. Qualunque cosa gli succeda, c’è Dio e c’è la luce di Dio. Basta che Dio sia Dio. L’uomo che accetta integralmente Dio, si rende capace di accettare se stesso. Egli si libera di ogni volontà particolare. Più nulla disturba in lui il gioco divino della creazione. La sua volontà s’è fatta più semplice e, al tempo stesso, vasta e profonda come il mondo. Semplice e pura volontà di Dio che tutto abbraccia ed accoglie. Più nulla separa in tal modo l’uomo dall’atto creativo. L’uomo si fa del tutto disponibile all’azione di Dio che lo plasma e lo conduce a suo piacimento. Questa santa obbedienza dispone l’uomo ad accedere alle profondità dell’universo, alla potenza che muove gli astri e fa fiorire gli umili fiori campestri. Egli penetra col suo sguardo l’interno del mondo e scopre quella bontà sovrana che è alla radice di tutti gli esseri e che un giorno sarà tutta intera in noi, ma egli la vede già diffusa e sbocciata in ciascuna creatura. Egli partecipa alla bontà universale, e diventa misericordioso e solare come il Padre che fa risplendere il sole con la stessa prodigalità sui buoni e sui cattivi. Deh, fratello Tancredi! Quant’è grande la gloria di Dio! E quanto è colma la terra della sua bellezza e della sua misericordia!

– Ma nel mondo – obiettò Tancredi – esistono anche il male e la colpa. Noi non possiamo eluderli. E, dinanzi ad essi, noi non abbiamo il diritto di serbarci indifferenti. Guai a noi, se per via del nostro silenzio e della nostra pigrizia, i cattivi si rafforzano nel male e trionfano sui buoni.

– È vero: noi non abbiamo il diritto di serbarci indifferenti dinanzi al male e alla colpa – riprese Francesco. – Ma non dobbiamo adirarci né turbarci di questo. Il nostro turbamento e la nostra irritazione non possono che compromettere il senso di carità, nostra ed altrui. Dobbiamo imparare a considerare il male e la colpa come li considera Dio. Ed è proprio questa la cosa più difficile. Giacché, dove noi vediamo una colpa da condannare e da punire, Dio ci vede, innanzi tutto, uno stato di smarrimento da soccorrere. L’Onnipotente è anche il più dolce e il più paziente degli esseri. In Dio non v’è traccia, neppur minima, di risentimento. Quando la sua creatura gli si ribella e lo offende, essa non cessa di restare agli occhi Suoi la sua creatura. Dio potrebbe annientarla, s’intende. Ma che gusto ne avrebbe Dio a distruggere l’opera sua, frutto di tanto amore? L’intero creato serba profonde radici nel cuore del suo Autore. Questi è del tutto disarmato in faccia alle sue creature, come una madre al cospetto del figlio. In ciò consiste il segreto di quella enorme pazienza divina che talvolta ci scandalizza. Dio è simile a quel padre che diceva ai suoi figli già grandi ed assetati di indipendenza: «Volete partire, siete impazienti di vivere ciascun a modo suo? Ebbene, prima che andiate intendo dirvi: se un giorno vi troverete a mal partito, sappiate che io sono sempre qui. La mia porta resta aperta per voi giorno e notte. Voi potete sempre accedervi. Voi sarete in casa vostra e io farò di tutto per aiutarvi. Allor che tutte le porte vi saranno chiuse, la mia resterà per voi sempre aperta». Dio è fatto così, fratello Tancredi. Non c’è nessuno che sia capace di amare come Lui. Ma noi dobbiamo sforzarci di imitarlo, finora non abbiamo fatto ancor nulla in tal senso. Cominciamo dunque a far qualcosa.

– Ma da che parte cominceremo, Padre? Dimmi chiaramente qual è la necessità più urgente – chiese Tancredi.

– Innanzitutto – rispose Francesco – dobbiamo aspirare ad avere lo Spirito del Signore. Lui solo può renderci buoni, buoni fin nel profondo dell’anima.

Francesco fece una breve pausa e poi riprese:

– Il Signore ci ha mandati ad evangelizzare le genti. Ma hai tu mai riflettuto cosa ciò significhi? Evangelizzare un uomo significa dirgli: «Anche tu sei amato da Dio in Cristo». Né basta dirglielo: bisogna esserne convinti. Né basta essere convinti: dobbiamo comportarci con quell’uomo, in modo che egli avverta e scopra in se stesso qualcosa che è stato salvato, qualcosa di più grande e di più nobile che egli non pensasse, e dobbiamo, infine, provocare in lui il risveglio di una nuova coscienza di se stesso. Ciò significa annunciargli la buona novella. Sennonché, non potrai ottenere questo bel risultato se non offrendo a quell’uomo la tua amicizia: una amicizia reale, disinteressata, senza condiscendenza, tutta nutrita di fiducia e di stima profonda.

LARRAÑAGA IGNACIO
NOSTRO FRATELLO DI ASSISI

“Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange”.
Dante, Paradiso XI, 49-51

Tra saggio e romanzo, il volume del francescano Larrañaga vuole rivisitare soprattuttto la biografia interiore di san Francesco, cercando di capire e interpretare le sue stesse sensazioni, i desideri, i sentimenti, i contrasti.
Si percepisce chiaramente l’affetto reverenziale che l’Autore prova verso il santo, ma non si è qui in presenza di un’agiografia o di un libro di edificazione religiosa, dal momento che non vengono nascosti i momenti di buio e di desolazione – la terribile “notte di Dio” – vissuti da Francesco fin quasi alla fine della sua vita.
L’immagine del povero di Assisi risulta contestualizzata nella storia del suo tempo, concreta, non idealizzata, molto umana eppure non priva della sua dimensione trascendente e di uno straordinario e intenso rapporto con Dio e la sua grazia, un rapporto simile a quello dei profeti, inviati ad annunciare rinnovamento e spirito nuovo.
Né pazzo, né esaltato, né antesignano degli ecologisti, Francesco è una personalità sensibile trasformata dall’incontro con Dio attraverso una “transizione progressiva”, cioè non per improvvisazione o folgorazione repentina. Ogni suo cambiamento è frutto di preghiera, grazia e meditazione e richiede un certo tempo per attuarsi. Francesco agisce secondo il Vangelo, applicandolo alla lettera giorno per giorno senza piani precostituiti.
Larrañaga, basandosi sulle fonti – un vero peccato che manchi una bibliografia finale – colloca l’inizio del cambiamento di Francesco nella “notte di Spoleto”.
Nel 1198, a venticinque anni, Francesco parte per la guerra insieme ad altri giovani di Assisi per unirsi, nel Sud Italia, alle milizie papali che stanno sconfiggendo quelle imperiali. Arrivati a Spoleto pare che durante la notte Francesco abbia avuto “un’esperienza infusa di Dio”, cioè la presenza divina si manifestò improvvisamente in forma imprevista, invadente, sproporzionata e vivissima. Fu una rivoluzione.
Il mattino seguente Francesco ritorna a casa: ha preso coscienza che niente altro è importante se non il Signore, gli altri impegni, legami, attese possono venir messi da parte.
Nel giro di tre anni Francesco cambia gradualmente, lascia le feste e i divertimenti con gli amici, non gli interessa l’attività commerciale paterna, ricerca invece momenti di solitudine tra i boschi del Subasio per dialogare con Dio e adorare.
Man mano che questo rapporto matura cresce anche la straordinaria sensibilità di Francesco verso i poveri: Larrañaga sottolinea come, grazie alla chiamata del Signore, il santo riesca ad amare i più miserevoli, addirittura i lebbrosi, che gli avevano sempre suscitato ribrezzo. Non arriva a Dio attraverso l’uomo, si realizza invece il processo contrario, Dio lo conduce fuori da se stesso e lo spinge a conoscere e accudire personalmente gli stessi lebbrosi, che predilige con materna dedizione.
Francesco fa in pratica quello che Gesù realizza con l’incarnazione: spoglia se stesso e risponde alla chiamata in modo pieno e totale. Solo una forte motivazione può rendergli positivo ciò che comunemente è ributtante e miserabile.
Così il giovane brillante e ricco di Assisi s’allontana da quello che tutti immaginavano sarebbe stato il suo mondo: via dal godimento, via dalla gloria militare, s’avvia a diventare un “cavaliere di Cristo”, paladino di madonna Povertà. Nel suo agire infatti Francesco ha stile e classe, dà sempre contorni cavallereschi alle sue scelte e le riveste di luce e di gioia purissime, è libero, perché nulla possiede e dunque nulla può legarlo a sé, se non il Signore.
Nella prima fase della sua vita Francesco pensa solo a vivere la Parola giorno per giorno, non ha programmi, progetti o idee chiare sul futuro, non sospetta che Dio gli manderà molti fratelli e che dovrà mettere per iscritto la sua Regola.
Di fronte a compiti organizzativi si sentirà sempre impreparato, poco abile ad argomentare o a tenere discorsi complicati.
Dopo aver avuto da Dio l’incarico di restaurare la chiesa di san Damiano, convocato dal padre di fronte al vescovo, Francesco si spoglia dei suoi abiti, rinuncia ai beni, al nome e se ne va, nudo e libero, nel mondo.
La povertà, da lui abbracciata in modo totale, lo conduce alla pace e alla gratitudine verso Dio e il creato, verso ciò che riceverà in dono dagli altri per il suo sostentamento.
“Che cosa posso fare? Solo chi non possiede nulla può fare esperienza della liberalità di colui che alimenta gli uccelli e i fiori. Gli uccelli sono liberi perché non hanno granai. Solo chi riceve sa dare. Per amare bisogna essere poveri”. (p.82)
La vita di Francesco si svolge tra lavoro, preghiera e aiuto ai poveri, molte ore sono dedicate al colloquio con Dio.
Straordinario è l’umanesimo di Francesco: egli ama l’uomo come creatura, a prescindere dalle sue qualità. Di solito si ama una persona per le sue qualificazioni, ciascuno ha un suo polo d’attrazione (simpatia, ricchezza, bontà, fama) e viene perciò reso accattivante da tale polo. Se una creatura è priva di poli d’attrazione, chi la guarderà? Solo un cuore puro può farlo, un cuore purificato da Dio. Francesco sa guardare il “semplicemente uomo”, la creatura priva di ornamenti.
Egli pose venerazione dove non c’erano motivi di venerazione; pose stima dove non c’era motivo di stima. Amò in forma superlativa coloro che non offrivano ragioni per essere amati. Il suo affetto verso le persone aumentava in proporzione inversa ai poli di attrazione”. (p.96)
Sulla scia del suo esempio altri giovani lo seguono, l’amico Bernardo in primis. Lasciano beni e famiglie e condividono la sua estrema povertà. Lui li accoglie, li conosce uno per uno e li ama con dolcezza materna. Si può dire che Francesco riveli il volto materno di Dio, in questo forse c’è un retaggio del rapporto di tenerezza e affinità che ebbe sempre con la madre, madonna Pica, donna sensibile e raffinata, forse d’origine provenzale (e Francesco conosceva la lingua provenzale, probabilmente il parlar materno, nel quale intonava spesso canzoni).
Opposto all’uomo teorico, Francesco è un esploratore, l’uomo della concretezza e del senso letterale, l’uomo della sorpresa capace di stupirsi e d’improvvisare, di collocarsi fuori da qualsiasi schema: né monaco, né sacerdote, non cerca guide spirituali, semplicemente applica il Vangelo alla lettera e agisce di conseguenza.
Dio gli manda dei fratelli, destinati a diventare un seguito una moltitudine.
I primi due anni costituiscono l’epoca d’oro della storia francescana: dalla povertà assoluta Francesco fa scaturire il senso della fraternità e di qui la dimensione della gioia. Nulla è predeterminato in questi primi tempi e le difficoltà vengono risolte man mano che si presentano. La forza di Francesco sta tutta nell’esempio, nella limpida coerenza tra le sue parole e la sua vita.
Per risolvere il problema del loro sostentamento senza gravare sulle popolazioni chiedendo l’elemosina, Francesco lascia che i suoi fratelli lavorino come salariati, a giornata, e che ricevano il pagamento in alimenti o vestiti per sé e per gli altri. È una grande novità, che permette di raggiungere due scopi: il mantenimento quotidiano e la presenza profetica dei fratelli tra il popolo, specie tra i lavoratori.
Nei primi anni i frati s’impegnano nelle atttività più diverse: portano acqua dalle sorgenti alle borgate, tagliano legna nei boschi, fanno i calzolai, ripuliscono mobili, tessono ceste, seppelliscono i morti specie durante le epidemie. Raccolgono, a seconda delle stagioni: grano, olive, frutta, uva.
In seguito si mescoleranno a marinai e pescatori o faranno i cuochi presso i signori feudali.
Francesco li lascia liberi rispetto alle ore e alle modalità di lavoro, purchè mantengano spazi per la preghiera.
La professione di ciascuno non viene abbandonata all’ingresso in fraternità, ma viene considerata il campo normale dove esercitare l’apostolato. Francesco valorizza i talenti di ciascuno e non pretende l’impossibile. “Nella formazione del fratello bisogna usare molto rispetto, molta pazienza e, soprattutto, un’invincibile speranza”. (p.129)
“Quasi tutti erano giovani, poveri e felici, forti e pazienti, austeri e dolci. Tra loro erano cortesi e affettuosi. Non imprecavano contro i nobili, né contro il clero, né contro alcuno. La loro bocca pronunciava sempre parole di pace, povertà e amore. Si mescolavano di preferenza tra i gruppi degli ammalati, poveri ed emarginati. La loro parola possedeva autorità morale perché il loro esempio precedeva la parola” (p.129).
Periodicamente e secondo il dettato evangelico Francesco manda i fratelli in misisone, a coppie, nei paese e nelle città: affrontano rifiuti, disprezzo, prese in giro, ostilità, soffrono fame, freddo, prepotenze senza ottenere alcun successo apostolico. Francesco continua però a insegnare umiltà e povertà, considera il martirio la forma più alta di apostolato, forme nobilissime erano: il perdono delle offere, la gioia nelle tribolazioni, pregare per i persecutori, aver pazienza nei maltrattamenti, cambiare il male con il bene, non maledire chi maledice, non turbarsi per le calunnie.
All’inizio la predicazione vera e propria veniva in secondo piano, la forza del messaggio era costituita tutta dall’esempio e le parole erano poche e semplici.
Questo tipo di apostolato è più difficile di quello organizzato o ministeriale, perché non è possibile toccare con mano i risultati e si deve procedere alla luce della fede, è un ‘attività apostolica che richiede non tanto una preparazione intellettuale quanto piuttosto una permanente conversione del cuore.
Il percorso esistenziale di Francesco fu comunque tutt’altro che lineare: la sua fede fu grande, ma non gli furono risparmiate né le sofferenze fisiche nell’ultima parte della sua vita, né quelle spirituali.
Ebbe i suoi momenti d’insicurezza, la paura di non farcela a condurre i fratelli (non era colto, né abile a parlare), d’imporre loro un peso troppo grande da portare con il severo sposalizio con madonna Povertà.
La crisi nasce nel momento in cui Francesco pensa di appoggiarsi solo a sé stesso e alle sue forze e non a Dio. Lanciarsi nelle braccia di Dio implica un autentico “salto spirituale” non facile, né scontato neppure per una persona non comune come il povero d’Assisi.
Quando egli si affida totalmente all’Altro riacquista serenità e libertà e può essere di nuovo guida e luce per i suoi fratelli.La forza di Francesco sta nella debolezza: non ha nulla, è debole come Cristo sulla croce e proprio così diviene forte e dimostra che solo Dio è il salvatore, non l’uomo, né la ricchezza, né il potere.
Ricevuto a Roma dal papa, Francesco suscita non poche discusisoni e scompiglio, ma affascina tutti con la sua innocenza e spontaneità e per la forza con cui applica il Vangelo.
Francesco vive con semplicità e immediatezza disarmanti il messaggio di Gesù. Dalla povertà in cui vivono le prime comunità di fratelli si genera la fraternità, che apre i singoli l’uno verso l’altro. Se uno soffre, soffrono tutti, gioie e dolori, sentimenti ed esperienza vengono condivisi come il cibo quotidiano. In questo modo il senso di comunione cresce e si consolida. Francesco codifica questa scelta di vita solo negli ultimi anni, quando le fraternità sono diventate numerose e comprendono non solo italiani.
“Poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più affetto uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale!” (p.183)
Sola sicurezza dei fratelli, privi di beni o proprietà, è il Signore, unico in grado di salvare.
Man mano che l’ordine s’allarga oltre ogni previsione del suo fondatore, si fa sentire la necessità di dargli una regola scritta, la stesura della quale fu tormentata. Francesco non era un legislatore ed ha contrasti con i suoi stessi vicari, vive anni difficili di silenzio di Dio e “notte dello spirito”. Quel che gli appare certo è che suo compito nella Chiesa sia quello d’imitare Cristo povero e umile, non Cristo maestro e dottore.
Lui e i suoi fratelli non sono chiamati a organizzare battaglie intellettuali o a difendere il prestigio della Chiesa.
Francesco non abiurerà mai al suo ideale di povertà e umiltà e si sentirà sempre un “cavaliere di Cristo”, animato da un ideale ai suoi occhi così limpido ed evidente da non aver neanche biosgno di essere dimostrato.
“Ha bisogno forse la luce di aggredire le tenebre per vincerle? È sufficiente che la luce scopra il suo volto e le tenebre si ritirano spaventate”. (p.244)
Una prima stesura della regola andò perduta (fu fatta sparire?) e Francesco dovette riscriverla con non poca fatica. Tra le norme innovative, oltre al precetto del lavoro manuale, c’è quella per cui se un ministro ordinasse qualcosa di contrario all’ideale, i fratelli non sono obbligati a obbedire. Inoltre, se i ministri andassero fuori dallo spirito della Regola, i frati devono correggerli e, se non si ravvedono, devono essere denunciati nel capitolo generale.
Per non provare rancore contro i suoi oppositori Francesco lavora su se stesso, prega molto e trova pace e consolazione, diviene libero da pensieri e opere non conformi a Cristo. Francesco è consapevole che è sbagliato trasformare l’avversario ideologico in nemico del cuore, perché così si chiudono le possibilità d’intesa e dialogo. Non ci può essere armonia con Dio, né con la terra mentre esistono dissonanze tra fratelli.
“La creazione è un immenso sacramento di Dio. […]
Il primo comandamento consiste nel credere nel bene. Che guadagno ci può essere nell’aggredire le tenebre? Basta solo accendere la luce e le tenebre fuggono spaventate. Se tu pretendi di distruggere una guerra con un’altra guerra, creerai un conflitto mondiale. Anche s enon è così evidente, la pace è più forte del male, perché Dio è il sommo bene.” (p.340)
Larrañaga descrive Francesco trasfigurato e già proiettato verso l’aldilà nell’ultima parte della sua vita, seppure tormentato da grandi sofferenze fisiche, che comunque affronta con serenità riuscendo a sublimarle.

Nasce in questa fase finale il Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum, straordinaria preghiera e documento letterario:
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi Siignore, per sora Luna e le stelle:
il celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi Signore, per sor’Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infermitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Il 3 ottobre 1226, a quarantacinque anni, Francesco si spegne attorniato dall’affetto dei suoi frati e delle popolazioni circostanti. Ha portato nella Chiesa uno spirito assolutamente nuovo, ha realizzato un rapporto privilegiato con la creazione, immagine di Dio, e con Cristo, ha vissuto in modo totalizzante e assoluto la sua vocazione. È stato un uomo autentico.

AFFINITÁ ELETTIVE
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su» mi disse «ala cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogni voto accetta
che caritate a suo piacer conforma».

Dante, Paradiso III, 97-102

Profondamente affine a san Francesco è la luminosa figura di santa Chiara d’Assisi. Di famiglia aristocratica, giovanissima fuggì nottetempo da casa per consacrarsi al Signore e seguire l’esempio di Francesco.
Fu donna di grande costanza e fortezza, che rappresentò sempre per il povero d’Assisi sostegno, aiuto e consiglio. Il loro rapporto fu di grande affinità e nobiltà.
L’idea originaria di Chiara era di seguire la scelta di Francesco e dei suoi fratelli: povertà, servizio ai lebbrosi, forse anche vita itinerante, ma i tempi non erano ancora maturi per questo e non si concepiva una vita religiosa femminile diversa da quella monacale.
Chiara così si dedicò alla vita contemplativa, una dimnesione che fu sempre carissima a Francesco, che egli praticò spesso, ma forse non quanto avrebbe desiderato.
“Si ha l’impressione che Francesco fosse un eterno insoddisfatto nella sua insaziabile sete di Dio, e che una parte importante della sua anima sia rimasta incompleta, quasi frustrata. Se fosse dipeso da lui sarebbe stato un felice e perpetuo anacoreta in una qualsiasi roccia dell’Appennino. Fu il vangelo a tirarlo fuori dalla solitudine” (p.212).
La vita contemplativa apparentemente non serve a nulla, è semplicemente adorazione e dimostra che Dio è così grande chemerita donargli l’esistenza intera. Larrañaga la paragona all’olocausto, nel quale l’animale immolato veniva interamente bruciato come offerta al Signore. Nel sacrificio invece le carni servivano ai leviti e ai servitori del tempio.
L’originalità delle clarisse è rappresentata dalla povertà. Le novizie dovevano rinunciare a tutti i loro beni, mentre in quel tempo le nobildonne che si consacravano portavano al convento una ricca dote.
Chiara attuò una sorta di rivoluzione: le monache dovevano vivere del loro lavoro e, se questo non bastava al loro sostentamento, potevano chiedere la carità.
Nella regola, scritta un anno prima della morte, Chiara attua la fraternità ed elimina la verticalità dell’autorità, affidando alla comunità l’uso del potere.
Come Francesco, Chiara abbraccia in pieno il “privilegio dell’altissima povertà”: le comunità da lei fondate vivono senza rendite o beni sicuri, fatto inconcepibile all’epoca. Papi e cardinali cercarono più volte di convincere Chiara a rinunciare a questo suo ideale, che loro ritenevano irrealizzabile, alla fine, solo nel monastero di Monticelli – unico su ventiquattro – rimase in vigore il “privilegio”.
Tutto questo nei ventisette anni che Chiara sopravvisse a Francesco.
Ciò nonostante la santa rimase fedele all’ideale e, prima di morire, riuscì a convincere il papa a rinnovare il “privilegio” per le generazioni future.