Il Mattino 24 Maggio 2010 di Claudio Risè

Si va ampliando una strana zona grigia nella libertà sessuale. Oggi si può cambiare sesso, applicare sul proprio corpo attributi sia maschili che femminili, affittare organi per la riproduzione, vendere seme, etc. Chi però abbia tendenze omosessuali che lo disturbino (al contrario dell’eterosessuale con lo stesso problema), rischia di non trovare un terapeuta che lo prenda in carico. Sta crescendo infatti un rumoroso dibattito sull’illegalità delle terapie a persone omosessuali.

L’omosessualità, infatti (lo hanno dichiarato da qualche anno sia i principali manuali diagnostici che l’Organizzazione Mondiale sella Sanità), non è più una malattia. E allora perché prendere in terapia chi sia omosessuale, se non per pregiudizio ideologico, o affarismo? D’altra parte, molte persone vivono con sofferenza la loro condizione omosessuale, e chiedono, appunto, di essere ascoltati, e curati. Secondo alcuni, occorrerebbe spiegare loro che sono solo preda di un antico pregiudizio, l’omofobia, o avversione ai comportamento omosessuale, e rimandati a casa. D’altra parte, la psicoanalisi, ad esempio, ha sempre preso in carico queste sofferenze (non malattie), seguita poi da altre terapie, che notano le ricorrente presenza, nelle omosessualità indesiderate, di un quadro familiare specifico, caratterizzato da un padre assente o svalutato, e da una madre possessiva e invadente. Sotto la spinta di alcune associazioni gay si è cercato più volta di classificare queste terapie come omofobe; anche se non tutta la scena omosessuale è d’accordo con questa valutazione. D’altra parte molti gruppi confessionali, non solo cattolici, considerano l’omosessualità un comportamento disordinato, e bisognoso a volte di terapie competenti, per aiutare il soggetto a non mettersi in pericolo, dal punto di vista della salute fisica e psichica. Particolarmente scomoda, in questa rissa politico-ideologica dai toni eccitati, è la posizione degli psicoanalisti. La psicoanalisi infatti non ha mai creduto che l’omosessualità fosse una malattia (termine d’altronde poco frequentato nel suo lessico): esistono su questo innumerevoli documenti, sia di Freud (che tra l’altro credeva nella bisessualità di base di ogni individuo), che di Jung e degli altri principali esponenti di queste psicologie dinamiche. Il problema era piuttosto, per loro, il senso di questo comportamento per il singolo paziente, e, soprattutto, il suo vissuto: se egli vi riconosce un significato, o se si tratta di una manifestazione ossessivo-compulsiva, o comunque legata a sofferenza e disistima. Rispetto a tutta l’esperienza psicoanalitica, che riporta ogni comportamento al senso evolutivo o regressivo che ha per il paziente (e non a classificazioni formali, sia che provengano da catechismi confessionali, che da manuali diagnostici), tutto questo dibattito appare astratto, ed in ritardo di circa un secolo rispetto alle esperienze delle analisi dinamiche del profondo. La depatologizzazione dell’omosessualità non riguarda infatti la psicoanalisi per la quale il problema non è la malattia (difficile da certificare nelle varie strutture della psiche), ma il senso che i comportamenti, o i vissuti, hanno nel rapporto tra l’Io della persona e il suo Sé: se cioè l’aiutano a realizzarsi oppure no. Su questo, le persone che chiedono terapie devono essere ascoltate, senza pregiudizi ideologici.