di Vincenzo Andraous

In questi giorni di proteste, di scontri in piazza, di bombe carta e vecchi merletti, mi sono chiesto cos’è la libertà, se esistono davvero uomini liberi.

Osservo i vecchi ribelli, i giovani in cammino, gli slogans, gli ordini impartiti, le grida di gioia, le urla di dolore, i giusti e gli ingiusti, mi chiedo dove sta la libertà  di non condividere né accettare deleghe in bianco, dove sta la libertà di dissentire, di sottrarsi dall’effetto di mille politiche confutate o che potranno esserlo in futuro.

Libertà di manifestare, libertà di protestare, libertà di non accettare, libertà di parola, e poi ancora libertà di prenderle e di darle, libertà di morire in nome dei più alti ideali, eppure in loro nome sono state commesse le nefandezze più inenarrabili.

Questa non è la trama di un film già visto altre volte, come qualcuno si ostina a raccontare, è  una punteggiatura nuova di zecca, dell’era digitale, e sebbene nulla del passato potrà mai ritornare, qui non c’è la possibilità di gridare: “ehi regista fammi uscire dalla trama del film, mi sono stancato. voglio ritornarmene a casa”.

Con la mente ripercorro uno sceneggiato di tanti anni addietro, dove utopie e romanticismi sociali sconvolsero drammaticamente il paese, finchè si perse il conto dei morti e dei feriti. Ma quella fu una degenerazione sociale fisiologica al sistema di allora, che reclamava il giusto cambiamento, eppure pochi uomini condussero alla eliminazione non solo di tante persone, ma addirittura di una intera generazione.

Oggi lo scenario investe una libertà  che non è quella invocata ieri, perché  coinvolge confini, terre, mondi, uomini e politiche; non ci sono più  quegli slogans né quei compartimenti stagni.

In questo presente dove le parole e gli stili di vita sono di per sé diga insormontabile per qualunque ritorno al passato, perchè non posseggono propri colori e brevetti, tanti uomini grandi per autorevolezza hanno ribadito di non cadere nella trappola della violenza, di non riesumare pagine di un libro ingiallito dal tempo.

Ma non è un’arma a fare di un uomo un rivoluzionario, so che una pistola fa di un uomo un futuro assassino, e quando questo accade, non ci sono giustificazioni né attenuanti: c’è il baratro, da cui risalire è assai difficile.

So che la  pace rappresenta il mondo umano senza bisogno di tessere o bandiere, essa è una canzone che ha note di evidenza reale che appartengono a tutti, potenti e non.

L’impressione che si ricava dalle lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile ben operare a causa della marea di disagio dilagante, ma lo è soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere, che non hanno più l’etichetta protestataria di un tempo. E’ un inverso ipnoticamente diritto che assale generazioni diverse, che si insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una condanna, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità.

Non è con il bastone, con le bottiglie incendiarie, o peggio con il fucile, che  le richieste di giustizia, di solidarietà, di democrazia possono transitare da una istanza politica a una scelta morale, ma con la fede della ragione, della mia, della tua, dell’altro: questo può avvicinare a un’idea di imparzialità e giustizia.