ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, contenuto nel “Codex Pauli”, un’opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.

Fonte migliore d’informazione su Paolo di Tarso sono certamente le sue lettere, che si distribuiscono nel periodo dal 50/51 al 58 d.C., quando l’apostolo stava dispiegando una incessante attività missionaria per cercare, con ogni mezzo possibile, di mantenere i contatti con le Chiese che aveva fondato. Le lettere fanno quindi parte della sua missione; sono la sua voce che raggiunge le comunità cristiane, proseguendo un dialogo avviato, oppure, come ad esempio nella Lettera ai Romani, preannunciando un tema che spera di riprendere nella sua prossima visita. Quando scrive, Paolo continua ad essere missionario del Vangelo e le sue lettere sono come l’altro volto della sua azione apostolica. Vale per lui, la definizione di lettera: «l’altra metà del dialogo (to heteron meros tou dialogou)», che dava lo scrittore Demetrio, del I secolo d.C.

Mi soffermo sulla Lettera ai Romani, che lo studioso Günther Bornkamm ritiene il testamento di Paolo. Da persecutore dei cristiani, Saulo, abbagliato sulla via di Damasco dal fulgore di Cristo e conquistato dal suo amore, è diventato «apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio» (1,1). Per i riferimenti che contiene a circostanze concrete, questa lettera, la più estesa, non è un trattato teologico atemporale, ma, come del resto le altre, è legata a una storia concreta, che è poi la vita, la predicazione, la lotta e le difficoltà che s’intrecciano nella vicenda umana e missionaria di Paolo. Egli vi approfondisce il tema della giustificazione mediante la fede, sembrandogli urgente chiarire con accuratezza un punto tanto essenziale per l’evangelizzazione dei gentili. La dottrina sulla giustificazione costituisce il nucleo di quello che comunemente viene chiamato il “vangelo di Paolo”.

A Damasco egli aveva compreso che la salvezza è un evento di grazia, legato alla persona di Gesù Cristo. Di conseguenza, il “vangelo”, che esporrà nei suoi scritti – in maniera più argomentata nella Lettera ai Romani, – sarà proprio questo: l’unica via di salvezza è Cristo crocifisso e risorto. E poiché ogni esistenza cristiana comporta un combattimento spirituale per non ricadere sotto il giogo del peccato, i credenti debbono compiere opere conformi al dono della grazia ricevuta nel battesimo, manifestando così la propria comunione con Gesù.

Ritroviamo l’assoluta centralità di Cristo presente nella vita e nel vangelo di Paolo, anche nell’“apostolo gemello”: Pietro. La Prima Lettera di Pietro si apre, infatti, con questa esortazione: «Siate pronti ad agire, rimanete ben svegli. Tutta la vostra speranza sia rivolta verso quel dono che riceverete da Cristo Gesù, quando egli si manifesterà a tutti gli uomini» (1,13). La stessa preoccupazione pastorale di Paolo è percepibile in questo testo neotestamentario di Pietro. Stiamo parlando di uno dei documenti più importanti del Nuovo Testamento, che aiuta a capire la profondità della riflessione teologica e spirituale e l’impegno apostolico delle Chiese dell’Asia Minore. L’autore sacro vi pone in luce nuove e importanti considerazioni cristologiche, testimoni di un chiaro progresso nella comprensione di Cristo da parte di quelle prime comunità. Attingendo al pozzo della tradizione giudaica dell’Antico Testamento, Pietro focalizza l’attenzione su nuovi aspetti teologici concernenti la figura di Cristo: è “l’agnello senza difetti e senza macchia” (1,19) che ci libera dalla schiavitù del male; è il “servo sofferente” (2,21-25), che, rifacendosi alla tipologia del quarto canto del Servo (Is 53), offre la chiave interpretativa di tutto l’aspetto teologico e parenetico della lettera; è la “pietra viva” (2,4) – si tocca qui uno dei temi più originali della lettera e cioè il Cristo risorto, fondamento del nuovo tempio di Dio nel mondo – è infine “il pastore” (2,25; 5,1-4). Al Cristo si legano naturalmente alcuni temi ecclesiologici, tipici della Prima Lettera di Pietro, che affiorano in maniera esplicita o implicita nei documenti del Concilio Vaticano II, in particolare, nelle costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes.

Dunque come Paolo, anche Pietro afferma che ci salva solo l’incontro con il Signore Gesù: un incontro da vivere ogni giorno, specialmente nel momento della prova e della sofferenza (2,18-25). Trova qui logica collocazione il tema della speranza, che non si esaurisce negli orizzonti mondani, ma va oltre e tende a un adempimento costantemente volto a un incontro più pieno. A questa speranza certa, che muove all’agire e che suscita un atteggiamento permanente di conversione, il papa Benedetto XVI ha dedicato l’Enciclica Spe salvi.

La condizione del credente nella storia ondeggia nella costante tensione tra il “già” e il “non ancora”, nella dialettica permanente tra l’indicativo della salvezza («Tu sei figlio di Dio…») e l’imperativo morale («…dunque comportati da figlio di Dio!»). Sì, Cristo ci ha effettivamente liberati – questa è la nostra fede –; ma noi dobbiamo fare attenzione agli assalti del male. Sì, io sono già salvato, in forza della risurrezione; ma non sono ancora fuori dalla lotta. Sì, il Cristo ha già vinto la morte, e siede alla destra del Padre; ma la Chiesa pellegrinante non ha ancora raggiunto la sua patria. Così, spalancato al gratuito dono di Dio, il credente vive la lotta quotidiana della sua esistenza. Emerge con tutta evidenza che a salvarci non è una dottrina, bensì una persona: Gesù Cristo, il cui ritorno nella gloria attendiamo e prepariamo con fiduciosa speranza.

Maestro di sintesi, san Paolo chiude il capitolo 8 della Lettera ai Romani con un inno all’amore di Dio animato dall’insistente domanda “chi?”. Il testo respira una profondità teologica, che giunge al cuore del “vangelo di Paolo”. Se Dio ha immolato il suo Figlio per tutti noi (v. 32), egli argomenta, allora nessuno può separarci dal suo amore, dall’amore che Cristo stesso ci ha meritato sacrificandosi per noi (vv. 38-39). Sta proprio qui la ragione della gioia e di quell’ottimismo che ogni cristiano deve coltivare. «Se nonostante tutto siamo ottimisti», confessava don Franco Delpiano, missionario salesiano nel Mato Grosso, morto a 42 anni, «è perché Cristo è risorto. Immersi nella sua morte e risurrezione, risorgiamo ogni giorno». «Cristo risorto viene ad animare una festa nel più profondo dell’uomo», amava ripetere frère Roger Schutz, Priore di Taizé, ucciso mentre stava pregando, «ma la festa non è per niente un’euforia passeggera. È animata da Cristo in uomini e donne pienamente lucidi della situazione del mondo, e capaci di farsi carico degli avvenimenti più grandi… Allora la lotta diventa una festa: festa del combattimento affinché Cristo sia il primo nostro amore; festa della lotta per l’uomo schiacciato».

Questo è l’inguaribile ottimismo di chi crede all’amore di Dio, “vittoria” sul mondo e “motore” della storia. Chi rimane in questo amore non rinuncia alla lotta, non perde il coraggio di denunciare l’ingiustizia e non si lascia irretire dalle illusioni del male. Chi ama Cristo combatte la buona battaglia della fede e nutre nel cuore una grande speranza aspettando, secondo la promessa, – scrive san Pietro – «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). E la ragione ultima è perché – ricorda san Paolo – «noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,37).

In definitiva, Paolo invita i cristiani a incorporarsi, attraverso il battesimo, alla morte e alla risurrezione del Signore. Egli invita a vivere, già adesso, la vita nuova dell’amore, preparando, nell’impegno quotidiano, l’incontro definitivo con il Risorto. Questi due aspetti, dialettici tra di loro, impongono ai battezzati di vivere, di credere e di sperare a partire dalla morte e risurrezione del Signore. Nel mistero pasquale, infatti, si chiarisce il senso ultimo della fede e della speranza cristiana. Esse sono insieme dono di Dio, perché la risurrezione di Cristo ha vinto in modo irreversibile il male del mondo; ma sono anche impegno dell’uomo, perché si manifesti il pieno compimento delle promesse.

In sintesi, che risposta darebbe Paolo alla domanda cruciale su cosa significa vivere a partire dalla morte e risurrezione del Signore? Oggi, come a tutti i cristiani lungo i secoli della storia, risponderebbe che vivere a partire dalla morte e risurrezione significa portare dentro di sé un inguaribile ottimismo, la certezza che l’amore è più forte della morte, e che le scelte di bene, anche le meno appariscenti e le più smentite, mandano avanti la storia dell’uomo e del mondo. Vivere a partire dalla morte e risurrezione significa avere il coraggio di denunciare le piccole e le grandi ingiustizie dell’uomo, e riconoscere che in ogni gesto di liberazione – da qualunque parte essa venga – è presente il Signore della vita. Vivere a partire dalla morte e risurrezione è, infine, sentirsi parte di una “grande speranza”, che non è soltanto speranza nel mondo e nell’uomo, ma in quei cieli nuovi e in quella terra nuova che attendono ogni uomo di buona volontà, e che sono il dono di Dio.

Card. Tarcisio Bertone

Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI