di Renzo Puccetti*

ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il professor Rodotà, nel ricevere il premio “Laico dell’anno”, ha  deliziato l’uditorio con un intervento proteso a tracciare una linea ideale che dall’habeas corpus transiterebbe all’articolo 32 della costituzione italiana per giungere, secondo il professore, alla sovranità dell’individuo sulla propria vita. Certo è comprensibile che citare un principio antico incorporato nella Magna Charta faccia molto british e conferisca un tocco di autorevolezza che, quando la sostanza del discorso rischia di essere leggerina, non guasta mai. Insomma che cosa afferma il professor Rodotà che possa interessare la bioetica? Che il vero laico è colui che rispetta l’autonomia e la sua declinazione concreta, rappresentata dal diritto all’esercizio dell’autodeterminazione di ciascuno. Ogni minaccia ad un tale diritto costituisce un attentato ad un diritto individuale sancito già nel medio-evo; implicitamente porre in dubbio la signoria dell’autoderminazione costituirebbe un tentativo di fare regredire il diritto di centinaia di anni e minaccerebbe di ricacciare l’uomo nei famigerati secoli bui. Questo, in sintesi, è il sunto argomentativo esposto dal laico dell’anno.[1] Leggendo l’estratto del suo discorso immaginiamo l’altezza da cui, declamate, le parole discendono su un uditorio estasiato e quasi ci pare di vedere la ieratica compostezza dei misurati, ma netti cenni del capo usati dall’oratore per sottolinearne l’incontrovertibile potenza persuasiva.

C’è da esserne impressionati, ma dura poco. In un attimo percepisco che quella stessa solidità argomentativa che incuteva timore è una rappresentazione degna di Carnera, “il colosso d’argilla”.

L’uomo descritto dal professore sarà forse un tipo assai comune per chi frequenta i salotti radical chic, ma se egli osserverà in modo limpido le persone che sono in una sala d’attesa di un qualsiasi pronto soccorso, o se si accomoderà ad attendere il suo turno dal medico di famiglia, si accorgerà che le cose sono assai meno nette di come egli le illustra; si renderà conto che le persone non sono monadi, sole come la molecola di sodio nella bottiglia della nota acqua, ma si relazionano le une alle altre; attraverso un fitto scambio di messaggi verbali e non verbali influenziamo le decisioni degli altri e dagli altri veniamo influenzati. Come ha fatto notare l’antropologo Girard, persino i nostri desideri non sono interamente nostri. L’autodeterminazione “hard” che emerge dalla rappresentazione del professor Rodotà sembra davvero poco attenta persino alle recenti acquisizioni neurofisiologiche e alla conseguente riflessione neuroetica.[2] Vi è un equilibrio: così come la dimensione intima dell’uomo non può essere annullata da quella comunitaria, neppure deve avvenire il contrario. La dipendenza non è qualcosa che subiamo e malediamo, è qualcosa costitutiva del vivere, che ricerchiamo quando siamo sotto il peso delle difficoltà, che come medici accogliamo di buon grado quando il paziente ci domanda: “dottore, che cosa mi consiglia? Che cosa devo fare?”. La dipendenza, quale orizzonte entro cui la vita umana è totalmente inscritta, è una realtà che la cultura greca affermava cristallizzandola nel mito della dea Cura; è un dato oggi rilevato con pari efficacia da un medico credente come Carlo Bellieni[3] e da una femminista come Rita Dominijanni, che di fronte al suicidio dell’amica rivendicato come estremo atto di autodeterminazione, ricorda: “si nasce dipendenti, da una madre, e si muore dipendenti, da chi abbiamo intorno”.[4]

Strana idea di autodeterminazione quella del professore; quando include l’aborto, compreso quello con la RU-486, tra i diritti all’auto-determinazione egli tralascia il particolare non trascurabile che per il concepito esso si risolve nella etero-determinazione a morire sulla base di una etero-determinata privazione del diritto alla vita a sua volta fondata su una etero-attribuita presunta mancanza di personalità. Vale la pena ricordare ai puristi dell’autodeterminazione le parole di Ronald Reagan, pronunciate quando si accingeva a diventare presidente degli Stati Uniti d’America: “There’s one individual who’s not being considered at all. That’s the one who is being aborted. And I’ve noticed that everybody that is for abortion has already been born” (C’è un individuo che non viene considerato per niente. È colui che viene abortito. Ed ho notato che tutti coloro che sono a favore dell’aborto sono già nati).[5]

E che dire del ricorso museale alla “sessualità liberata” e “maternità consapevole” per esaltare una pratica, quella della contraccezione, che, per quanti si accostano a queste tematiche con un minimo di rigore scientifico, è nota per non avere minimamente contenuto il ricorso all’aborto, talora anzi incrementandolo[6] e che, nell’attesa che giungesse la mitica “consapevolezza”, ha spinto nella popolazione l’idea di procrastinare la prima gravidanza al punto tale da favorire l’infertilità di coppia, giunta oggi ad un caso ogni sette. E quale psicologo dell’infanzia direbbe che oggi i bambini e gli adolescenti sono più sereni, equilibrati e meglio accuditi rispetto ai coetanei nati in epoca pre-contraccettiva?

Strana idea di autodeterminazione quella del professore; la concederebbe a tutti, ma non a quanti la pensano diversamente da lui. Quelli a cui non dovrebbe essere concesso il godimento della libertà di agire secondo la propria coscienza sono i medici obiettori, che per il campione della laicità, non dovrebbero mettere piede negli ospedali pubblici. Intendiamoci bene, non è il solo, altri la pensano allo stesso modo,[7];[8];[9] ma certe cose, come le dice lui …: “Da moltissimi anni, quando ero in parlamento senza fortuna, io ho sostenuto esattamente gli argomenti di Carlo Flamini: è ovvio che chi entra a fare un certo lavoro nel pubblico entra a certe condizioni, che possono essere mutate ma non in maniera tale da incidere radicalmente sulle modalità di lavoro. Quindi allora l’obiezione era giustificata. Ma da un certo momento in poi si entra nelle istituzioni ospedaliere sapendo che l’interruzione della gravidanza è uno strumento a servizio della donna. Io lo chiamo anche “un diritto” della donna […] quando la legge attribuisce una facoltà, un potere, un diritto, a una donna, la possibilità di accesso, questo implica un dovere delle istituzioni pubbliche di mettere a disposizione gli strumenti e dunque in questo senso l’obiezione di coscienza perde di significato se non di significato ideologico. E il significato ideologico è quello che porta a proporre l’obiezione di coscienza dei farmacisti, che porta a proporre l’obiezione di coscienza degli attori per le scene scabrose, che porta gli infermieri a inserire nel loro codice deontologico che stanno elaborando il loro diritto di obiezione di coscienza. Possiamo privatizzare la coscienza quando questa significa imposizione di regole a soggetti altri? Io ho diritto di accedere a alcuni servizi nessuna categoria corporativa può sequestrare questo diritto e espropriare me di un diritto fondamentale”.[10] Insomma, di fronte al “diritto” attribuito dalla legge e sancito dalla coscienza delle istituzioni pubbliche, la coscienza del medico deve soccombere, così come quella del farmacista e dell’infermiere: o adeguarsi, o cambiare mestiere. Quando il professor Jean Laffitte delineava il tollerante ideologico come un piccolo Epiménide, forse aveva in mente una figura dalle convinzioni non dissimili da quelle del giurista italiano.[11] La tolleranza a tutto diventa così la norma generale, per chi non concorda o chinarsi, o essere bandito dal regno. Siamo ben oltre la nozione di stranieri morali teorizzata da Hugo Tristam Engelhardt jr.[12] Nello stato etico così delineato, al leviatano viene così ricondotto il potere di governare con la spada in una mano ed il pastorale nell’altra, il lecito diventa così giusto e il giusto, una volta dichiarato illecito, può con buona pace diventare ingiusto.[13]

È una strana autodeterminazione quella invocata dal professor Rodotà, quando, in maniera sorprendente per un giurista del suo livello, dimentica che il principio dell’habeas corpus a cui egli rimanda come radice normativa dell’auto-governo individuale non fu istituito come fine a se stesso, ma per la difesa del bene della persona dal sopruso, giacché con esso non si nega legittimità alla detenzione tout-court, ma  a quella ingiusta, cioè a quella attuata senza la decisione del giudice naturale: “Habeas corpus, ad subjiciendum judicium” (ne sia esibito il corpo, per sottoporlo a giudizio).[14] Come Rodotà stesso ammette, l’abuso e non l’esercizio della professione medica sugli esseri umani ha portato come reazione all’elaborazione di tutti quei codici di garanzia che in Norimberga, Helsinki e nella carta di Oviedo vedono tappe fondamentali. Una corretta lettura della protezione dell’autonomia, compresa quella attestata dal biodiritto, impone di riconoscere che essa non è mai stata intesa in modo auto-referenziale, libera di trasformarsi in diritto al capriccio e all’arbitrio fino all’autodistruzione, ma è sempre stata concepita, dagli albori fino ai padri costituenti della repubblica, per tutelare il bene della persona, perché proprio la dignità della persona umana, intesa laicamente in termini kantiani, non fosse messa mai in discussione, da nessuno, neppure da sé stessi. Ciascuno di noi, se ne faccia una ragione il professore, non ha scelto un mestiere per compiacere, ma ha scelto una professione fondata sulla tutela della vita, della salute e il sollievo della sofferenza, in cui un uomo, il medico, è chiamato ad aiutare un altro uomo, il paziente, che è tale proprio in quanto sofferente e che non chiameremo mai utente, perché come medici non permetteremo di essere usati come utensili; ruoli distinti, stessa dignità.

[1] S. Rodotà. Laicità e governo sulla vita: padroni della nostra esistenza Repubblica, 10 marzo 2010.

[2] Garrels SR. Imitation, Mirror Neurons and Mimetic Desire: Convergence between the Mimetic Theory of René Girard and Empirical Research on Imitation. Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture 2006;12-13:47-86.

[3] C. Bellini. Caro Rodotà, la laicità è qualcosa di più di un’impossibile autodeterminazione. L’Occidentale, 11 Marzo 2010.

[4] R. Dominijanni. Roberta Spezzata, Il Manifesto, 21 aprile 2009, p 12.

[5] Dibattito presidenziale Anderson-Reagan (21-9-1980). http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=29407

[6] Puccetti R, Di Pietro ML, Costigliola V, Frigerio L. Prevenzione dell’aborto in occidente: quanto conta la contraccezione? Italian Journal of Gynaecology & Obstetrics 2009:21(3):164-78.

[7] Paolo Flores d’Arcais. Aborto, aboliamo l’obiezione per i medici. Liberazione, 31 Ottobre 2007.

[8] C. Flamini. Aborto, basta obiezione. http://temi.repubblica.it/micromega-online/aborto-basta-obiezione/

[9] M. Srebot. Il Tirreno, 8 Aprile 2008.

[10] S. Rodotà. Il diritto minacciato, dall’habeas corpus al pugno nero. Agenda Concioni 2008;3(3):10-12. http://issuu.com/agendacoscioni/docs/marzo2008/3?mode=a_p

[11] J. Laffitte. XIII Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita. 24 febbraio 2007. http://www.academiavita.org/italiano/AssembleaGenerale/2007/rel2007/ita/laffitte-ita2007.pdf

[12] La soluzione pratica proposta da Engelhardt ai vari problemi è falsamente neutrale e quindi accettabile da tutti, dal momento che è tributaria di un’antropologia funzionalista.

[13] Le voci che pretendono di sostituirsi al Magistero sono una nota costante a partire dall’Humanae Vitae.

[14] «Nullus liber homo capiatur, vel imprisonetur, aut disseisiatur, aut utlaget

* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.