di Massimo Introvigne
Tratto da La Bussola Quotidiana

All’udienza generale del 14 dicembre, proseguendo nella sua «scuola della preghiera» su Gesù, Benedetto XVI ha parlato della relazione fra la preghiera e la «prodigiosa azione guaritrice» del Signore. «Si tratta – ha detto il Papa – di una preghiera che, ancora una volta, manifesta il rapporto unico di conoscenza e di comunione con il Padre, mentre Gesù si lascia coinvolgere con grande partecipazione umana nel disagio dei suoi amici, per esempio di Lazzaro e della sua famiglia, o dei tanti poveri e malati che Egli vuole aiutare concretamente».

Il Pontefice ha esaminato due casi emblematici: la guarigione del sordomuto e la resurrezione di Lazzaro. Quanto alla guarigione del sordomuto, così narra il Vangelo di Marco: «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, “Apriti”» (Mc 7, 33-34). Il Papa nota anzitutto come Gesù voglia che la guarigione avvenga «in disparte, lontano dalla folla». Questo «non sembra dovuto soltanto al fatto che il miracolo deve essere tenuto nascosto alla gente per evitare che si formino interpretazioni limitative o distorte della persona di Gesù». La scelta di questo rapporto privato nello stesso tempo «fa sì che, al momento della guarigione, Gesù e il sordomuto si trovino da soli, avvicinati in una singolare relazione. Con un gesto, il Signore tocca le orecchie e la lingua del malato, ossia le sedi specifiche della sua infermità. L’intensità dell’attenzione di Gesù si manifesta anche nei tratti insoliti della guarigione: Egli impiega le proprie dita e, persino, la propria saliva. Anche il fatto che l’Evangelista riporti la parola originale pronunciata dal Signore – “Effatà”, ossia “Apriti!” – evidenzia il carattere singolare della scena». Questi sono dettagli, che ci introducono al significato profondo di questa guarigione ma non ce lo svelano ancora.

In realtà «il punto centrale di questo episodio è il fatto che Gesù, al momento di operare la guarigione, cerca direttamente il suo rapporto con il Padre». Leggiamo infatti che il Signore «guardando […] verso il cielo, emise un sospiro» (Mc 7, 34). Qui, ci fa notare il Papa, «l’emissione del sospiro è descritta con un verbo che nel Nuovo Testamento indica l’aspirazione a qualcosa di buono che ancora manca (cfr Rm 8, 23)». Nei gesti e nelle parole di Gesù «ancora una volta riemerge il suo rapporto unico con il Padre, la sua identità di Figlio Unigenito. In Lui, attraverso la sua persona, si rende presente l’agire sanante e benefico di Dio. Non è un caso che il commento conclusivo della gente dopo il miracolo ricordi la valutazione della creazione all’inizio della Genesi: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7, 37).

Nell’azione guaritrice di Gesù entra in modo chiaro la preghiera, con il suo sguardo verso il cielo. La forza che ha sanato il sordomuto è certamente provocata dalla compassione per lui, ma proviene dal ricorso al Padre. Si incontrano queste due relazioni: la relazione umana di compassione con l’uomo, che entra nella relazione con Dio, e diventa così guarigione». Nel racconto della risurrezione di Lazzaro nel Vangelo di Giovanni ritroviamo questa stessa duplice dinamica. Anche qui «s’intrecciano, da una parte, il legame di Gesù con un amico e con la sua sofferenza e, dall’altra, la relazione filiale che Egli ha con il Padre». Continuamente sono sottolineati il legame di amicizia, la partecipazione e la commozione di Gesù davanti al dolore dei parenti e conoscenti di Lazzaro: ma tutto questo «si collega, in tutto il racconto, con un continuo e intenso rapporto con il Padre». Per quanto ne sia commosso, nello stesso tempo «l’avvenimento è letto da Gesù in relazione con la propria identità e missione e con la glorificazione che Lo attende». Così Egli parla della malattia dell’amico: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11, 4). E perfino della morte di Lazzaro Gesù dice: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate» (Gv 11, 14-15). Arriviamo così al «momento della preghiera esplicita di Gesù al Padre davanti alla tomba, [che] è lo sbocco naturale di tutta la vicenda, tesa su questo doppio registro dell’amicizia con Lazzaro e del rapporto filiale con Dio».

Anche qui la dinamica è sempre duplice: «Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato”» (Gv 11, 41). Questa frase «rivela che Gesù non ha lasciato neanche per un istante la preghiera di domanda per la vita di Lazzaro. Questa preghiera continua, anzi, ha rafforzato il legame con l’amico e, contemporaneamente, ha confermato la decisione di Gesù di rimanere in comunione con la volontà del Padre, con il suo piano di amore, nel quale la malattia e la morte di Lazzaro vanno considerate come un luogo in cui si manifesta la gloria di Dio». Come sempre, il Papa si chiede che cosa insegnano questi episodi a noi e come possono ispirare la nostra preghiera. La risposta è che debbono aiutarci a «comprendere che nella preghiera di domanda al Signore non dobbiamo attenderci un compimento immediato di ciò che noi chiediamo, della nostra volontà, ma affidarci piuttosto alla volontà del Padre, leggendo ogni evento nella prospettiva della sua gloria, del suo disegno di amore, spesso misterioso ai nostri occhi. Per questo, nella nostra preghiera, domanda, lode e ringraziamento dovrebbero fondersi assieme, anche quando ci sembra che Dio non risponda alle nostre concrete attese».

Il Pontefice ci rimanda, come fa spesso, al Catechismo della Chiesa Cattolica, che commenta proprio la preghiera di Gesù nel racconto della risurrezione di Lazzaro: «Introdotta dal rendimento di grazie, la preghiera di Gesù ci rivela come chiedere: prima che il dono venga concesso, Gesù aderisce a colui che dona e che nei suoi doni dona se stesso. Il Donatore è più prezioso del dono accordato; è il “Tesoro”, ed il cuore del Figlio suo è in lui; il dono viene concesso “in aggiunta” (cfr Mt 6, 21 e 6, 33)» (CCC, n. 2604). Commenta Benedetto XVI: «Questo mi sembra molto importante: prima che il dono venga concesso, aderire a Colui che dona; il donatore è più prezioso del dono. Anche per noi, quindi, al di là di ciò che Dio ci da quando lo invochiamo, il dono più grande che può darci è la sua amicizia, la sua presenza, il suo amore. Lui è il tesoro prezioso da chiedere e custodire sempre». La preghiera di Gesù nell’episodio di Lazzaro continua e, quando è tolta la pietra dall’ingresso della tomba, presenta «uno sviluppo singolare ed inatteso». Dopo avere ringraziato il Padre, Gesù aggiunge: «Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Gv 11, 42). Gesù qui ci «vuole condurre alla fede, alla fiducia totale in Dio e nella sua volontà, e vuole mostrare che questo Dio che ha tanto amato l’uomo e il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito (cfr Gv 3, 16), è il Dio della Vita, il Dio che porta speranza ed è capace di rovesciare le situazioni umanamente impossibili. La preghiera fiduciosa di un credente, allora, è una testimonianza viva di questa presenza di Dio nel mondo, del suo interessarsi all’uomo, del suo agire per realizzare il suo piano di salvezza».

Le due preghiere di Gesù oggetto della meditazione del Pontefice, quella della guarigione del sordomuto e quella della risurrezione di Lazzaro, «rivelano che il profondo legame tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo deve entrare anche nella nostra preghiera. In Gesù, vero Dio e vero uomo, l’attenzione verso l’altro, specialmente se bisognoso e sofferente, il commuoversi davanti al dolore di una famiglia amica, Lo portano a rivolgersi al Padre, in quella relazione fondamentale che guida tutta la sua vita. Ma anche viceversa: la comunione con il Padre, il dialogo costante con Lui, spinge Gesù ad essere attento in modo unico alle situazioni concrete dell’uomo per portarvi la consolazione e l’amore di Dio». Questo vale anche per noi: «La relazione con l’uomo ci guida verso la relazione con Dio, e quella con Dio ci guida di nuovo al prossimo». Così, «la nostra preghiera apre la porta a Dio, che ci insegna ad uscire costantemente da noi stessi per essere capaci di farci vicini agli altri, specialmente nei momenti di prova, per portare loro consolazione, speranza e luce».