di Massimo Introvigne da La Bussola Quotidiana
Nell’udienza generale del 25 aprile, Benedetto XVI ha proseguito la sua «scuola della preghiera» continuando la catechesi sulla Chiesa nascente e sulle «situazioni impreviste, nuove questioni ed emergenze a cui ha cercato di dare risposta alla luce della fede, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo».


Nella catechesi odierna
 il Pontefice ha mostrato come la vera carità cristiana debba sempre essere strettamente unita alla preghiera e alla contemplazione, per evitare il rischio di ridursi a un semplice attivismo più o meno umanitario. L’episodio che il Papa ha preso in esame è narrato nel capitolo sesto degli Atti degli Apostoli: «il numero dei discepoli […] andava aumentando, ma quelli di lingua greca iniziavano a lamentarsi contro quelli di lingua ebraica perché le loro vedove venivano trascurate nella distribuzione quotidiana». Di fronte a questa disputa, che era importante e rischiava di creare serie divisoni, gli Apostoli decidono di riunire tutti i discepoli. «In questo momento di emergenza pastorale risalta il discernimento compiuto dagli Apostoli. Essi si trovano di fronte all’esigenza primaria di annunciare la Parola di Dio secondo il mandato del Signore, ma – anche se è questa l’esigenza primaria della Chiesa – considerano con altrettanta serietà il dovere della carità e della giustizia, cioè il dovere di assistere le vedove, i poveri, di provvedere con amore alle situazioni di bisogno».

In questo momento «due realtà che devono vivere nella Chiesa – l’annuncio della Parola, il primato di Dio, e la carità concreta, la giustizia -, stanno creando difficoltà e si deve trovare una soluzione, perché ambedue possano avere il loro posto, la loro relazione necessaria». Gli Apostoli, alla fine, trovano questa soluzione: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4).

Il primo insegnamento 
che il Papa ne trae è che «esiste da quel momento nella Chiesa, un ministero della carità. La Chiesa non deve solo annunciare la Parola, ma anche realizzare la Parola, che è carità e verità». Secondo insegnamento: «questi uomini non solo devono godere di buona reputazione, ma devono essere uomini pieni di Spirito Santo e di sapienza, cioè non possono essere solo organizzatori che sanno “fare”, ma devono “fare” nello spirito della fede con la luce di Dio, nella sapienza nel cuore, e quindi anche la loro funzione – benché soprattutto pratica – è tuttavia una funzione spirituale». Questo elemento è importantissimo per il nostro tempo, che spesso fraintende la carità degradandola a puro «fare» e quindi a puro umanitarismo. «La carità e la giustizia non sono solo azioni sociali, ma sono azioni spirituali realizzate nella luce dello Spirito Santo». Esaminiamo meglio quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli: «vengono scelti sette uomini; gli Apostoli pregano per chiedere la forza dello Spirito Santo; e poi impongono loro le mani perché si dedichino in modo particolare a questa diaconia della carità». Il Pontefice vi scorge un parallelo evangelico con «quanto era avvenuto durante la vita pubblica di Gesù, in casa di Marta e Maria a Betania. Marta era tutta presa dal servizio dell’ospitalità da offrire a Gesù e ai suoi discepoli; Maria, invece, si dedica all’ascolto della Parola del Signore (cfr Lc 10,38-42)».

Si sbaglierebbe
 a vedere in questo episodio, come in quello degli Atti degli Apostoli, solo un richiamo al primato della vita spirituale, che pure è presente. In realtà, «in entrambi i casi, non vengono contrapposti i momenti della preghiera e dell’ascolto di Dio, e l’attività quotidiana, l’esercizio della carità». Potrebbe sembrare che sia così dalle parole di Gesù: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno, Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42). E anche da quelle degli Apostoli: «Noi… ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,4). In queste espressioni c’è certamente l’affermazione della «priorità che dobbiamo dare a Dio». Ma nello stesso tempo certamente non è «condannata l’attività per il prossimo, per l’altro». Quella che è criticata da Gesù e dagli Apostoli è una carità che rifiuta di «essere penetrata interiormente anche dallo spirito della contemplazione». Come fa spesso, il Papa cita sant’Agostino (354-430), il quale spiega che «questa realtà di Maria è una visione della nostra situazione del cielo, quindi sulla terra non possiamo mai averla completamente, ma un po’ di anticipazione deve essere presente in tutta la nostra attività».

In qualche modo, perché non si riduca a semplice umanitarismo, nella carità deve sempre «essere presente anche la contemplazione di Dio. Non dobbiamo perderci nell’attivismo puro, ma sempre lasciarci anche penetrare nella nostra attività dalla luce della Parola di Dio e così imparare la vera carità, il vero servizio per l’altro, che non ha bisogno di tante cose – ha bisogno certamente delle cose necessarie – ma ha bisogno soprattutto dell’affetto del nostro cuore, della luce di Dio». Il Pontefice cita pure, a proposito dell’episodio di Marta e Maria, sant’Ambrogio (339 o 340-397): «Cerchiamo di avere anche noi ciò che non ci può essere tolto, porgendo alla parola del Signore una diligente attenzione, non distratta: capita anche ai semi della parola celeste di essere portati via, se sono seminati lungo la strada. Stimoli anche te, come Maria, il desiderio di sapere: è questa la più grande, più perfetta opera». Per sant’Ambrogio è sempre necessario che «la cura del ministero non distragga dalla conoscenza della parola celeste» e dalla preghiera.

Non si tratta dunque
 di dare meno spazio alla carità rispetto alla preghiera, ma di vivere la carità nella preghiera. «I Santi, quindi, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra preghiera e azione, tra l’amore totale a Dio e l’amore ai fratelli». Benedetto XVI cita, ancora, san Bernardo (1090-1153), definito «un modello di armonia tra contemplazione ed operosità», il quale, «nel libro “De consideratione“, indirizzato al Papa Innocenzo II [?-1143] per offrigli alcune riflessioni circa il suo ministero, insiste proprio sull’importanza del raccoglimento interiore, della preghiera per difendersi dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione in cui ci si trova e il compito che si sta svolgendo. San Bernardo afferma che le troppe occupazioni, una vita frenetica, spesso finiscono per indurire il cuore e far soffrire lo spirito». Anche questo, nota il Pontefice, «è un prezioso richiamo per noi oggi, abituati a valutare tutto con il criterio della produttività e dell’efficienza».

Non si tratta di svalutare la carità, insiste il Pontefice, ma di viverla nella luce di Dio che sola gli conferisce il suo vero significato. «Il brano degli Atti degli Apostoli ci ricorda l’importanza del lavoro – senza dubbio viene creato un vero e proprio ministero -, dell’impegno nelle attività quotidiane che vanno svolte con responsabilità e dedizione, ma anche il nostro bisogno di Dio, della sua guida, della sua luce che ci danno forza e speranza. Senza la preghiera quotidiana vissuta con fedeltà, il nostro fare si svuota, perde l’anima profonda, si riduce ad un semplice attivismo che, alla fine, lascia insoddisfatti». Il Pontefice suggerisce di tornare a una «bella invocazione della tradizione cristiana da recitarsi prima di ogni attività»: «Actiones nostras, quæsumus, Domine, aspirando præveni et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur», cioè: «Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostro parlare ed agire abbia sempre da te il suo inizio e in te il suo compimento». Nel brano degli Atti degli Apostoli, una volta che i sette sono stati scelti gli Apostoli «non si limitano a ratificare la scelta di Stefano e degli altri uomini», ma «dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). Anche successivamente, in occasione dell’elezione di Paolo e Barnaba, il gesto si ripete: «dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono» (At 13,3). Così, si «conferma di nuovo che il servizio pratico della carità è un servizio spirituale. Ambedue le realtà devono andare insieme». Questa imposizione delle mani preceduta dalla preghiera mostra che «non si tratta semplicemente di conferire un incarico come avviene in un’organizzazione sociale».

Siamo di fronte 
invece a «un evento ecclesiale in cui lo Spirito Santo si appropria di sette uomini scelti dalla Chiesa, consacrandoli nella Verità che è Gesù Cristo: è Lui il protagonista silenzioso, presente nell’imposizione delle mani affinché gli eletti siano trasformati dalla sua potenza e santificati per affrontare le sfide pratiche, le sfide pastorali. E la sottolineatura della preghiera ci ricorda inoltre che solo dal rapporto intimo con Dio coltivato ogni giorno nasce la risposta alla scelta del Signore e viene affidato ogni ministero nella Chiesa». Quell’antico «problema pastorale che ha indotto gli Apostoli a scegliere e ad imporre le mani su sette uomini incaricati del servizio della carità, per dedicarsi loro stessi alla preghiera e all’annuncio della Parola, indica anche a noi il primato della preghiera e della Parola di Dio, che, tuttavia, produce poi anche l’azione pastorale». Lo indica anzitutto ai vescovi e ai sacerdoti. «Per i Pastori questa è la prima e più preziosa forma di servizio verso il gregge loro affidato. Se i polmoni della preghiera e della Parola di Dio non alimentano il respiro della nostra vita spirituale, rischiamo di soffocare in mezzo alle mille cose di ogni giorno: la preghiera è il respiro dell’anima e della vita».

E dalla meditazione sul brano degli Atti degli Apostoli emerge anche un «altro prezioso richiamo»: «nel rapporto con Dio, nell’ascolto della sua Parola, nel dialogo con Dio, anche quando ci troviamo nel silenzio di una chiesa o della nostra stanza, siamo uniti nel Signore a tanti fratelli e sorelle nella fede, come un insieme di strumenti che, pur nella loro individualità, elevano a Dio un’unica grande sinfonia di intercessione, di ringraziamento e di lode». È la stessa sinfonia che deve unire carità e contemplazione.