di Francesco M. Valiante

Per i cristiani non può valere solo la logica del “profitto più alto al più basso costo possibile”:  nessun coinvolgimento perciò in operazioni commerciali o imprenditoriali che sacrificano alla convenienza economica le esigenze della giustizia e della carità. Lo sostiene l’economista coreano Thomas Hong-Soon Han, dal novembre scorso revisore internazionale della Prefettura degli Affari Economici, l’organismo a cui spettano la vigilanza e il controllo sulle amministrazioni che dipendono dalla Santa Sede. In questa intervista al nostro giornale lo studioso traccia un primo bilancio della sua esperienza in Vaticano e legge i recenti sviluppi della crisi mondiale alla luce delle indicazioni  della Caritas  in  veritate di  Benedetto XVI.

Al Sinodo dei vescovi sulla parola di Dio lei ha chiesto più rigore etico nella gestione dei beni materiali da parte della Chiesa. Quale era il senso di quell’appello?

La mia richiesta si riferiva al modo concreto con cui la Chiesa dà la sua testimonianza evangelica nella vita di ogni giorno. Non era rivolta solo alla gerarchia, ma anche ai laici, in particolare a tutti coloro che da cristiani si dedicano ad attività economiche e hanno responsabilità nel campo imprenditoriale, commerciale o contrattuale. Bisogna sempre porsi un interrogativo di fondo:  qual è lo stile di vita che vogliamo portare in queste attività? È chiaro che come cristiani non possiamo seguire soltanto la logica del profitto più alto al più basso costo possibile.

Che cosa significa in concreto?

Le faccio un esempio. Poniamo il caso che un ente ecclesiastico indica un appalto per costruire un edificio. Io dico che le offerte non devono essere valutate soltanto in base alla convenienza economica. Bisogna vedere che cosa c’è dietro i costi di realizzazione proposti da una determinata ditta:  quali sono le condizioni di lavoro, qual è il livello dei salari, insomma come viene realizzata concretamente la giustizia nell’organizzazione dell’attività produttiva.

Dopo di che?

Se per esempio si verificano situazioni di sfruttamento dei lavoratori, è evidente che accettare l’offerta vorrebbe dire per la Chiesa rendersi corresponsabile – sia pure solo indirettamente – di quella logica ingiusta. Perciò un’offerta del genere va bocciata. Del resto, questo è l’unico mezzo di pressione che abbiamo per convincere i responsabili  di un’impresa a rispettare le condizioni della giustizia e della carità.

In proposito lei ha ammesso che nel passato i comportamenti dei cristiani non sono stati sempre inappuntabili.

È vero, non sempre. È facile cedere alla tentazione di ottenere anzitutto condizioni favorevoli dal punto di vista economico. A volte questo viene giustificato in nome delle esigenze della carità:  il risparmio in un settore – si dice – può significare maggiore disponibilità per altre attività sociali e umanitarie. Però si dimentica che in ogni caso “la carità esige la giustizia”, come scrive il Papa nella Caritas in veritate.

Dal 22 novembre 2008 lei è revisore internazionale della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede. In cosa consiste il suo lavoro?

La Prefettura ha un collegio internazionale dei revisori composto da cinque laici di vari Paesi del mondo, che si riuniscono due volte all’anno. Il nostro compito principale è quello di esaminare bilanci preventivi e consuntivi della Santa Sede e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per offrire indicazioni in vista di una migliore gestione economica e patrimoniale.

Si tratta di indicazioni vincolanti per l’approvazione di questi bilanci?

No, ma devo riconoscere che la Prefettura è sempre molto attenta alle nostre osservazioni.

A voi spettano valutazioni solo economiche o anche etiche?

Non ci sono limiti al nostro giudizio. Del resto, un bilancio non è solo uno strumento tecnico:  è il risultato di un modo di intendere e di gestire i beni economici. E noi dobbiamo dire la nostra anche su questo, altrimenti rischiamo di fermarci alla superficie delle cose. “Ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale” ricorda Benedetto XVI nella sua enciclica sociale. Con una battuta, direi che valutare le cose unicamente in termini di efficienza non è molto efficiente.

Le è capitato di esaminare bilanci che contenessero voci censurabili dal punto di vista morale?

No. Tenga presente, comunque, che noi non esaminiamo tutti i dettagli delle singole operazioni, come i costi indiretti di cui parlavo prima. In base ai dati fornitici, possiamo indicare le linee generali che devono essere seguite. E questo già è molto importante.

Ma quando la Chiesa gestisce in prima persona attività economiche e commerciali non rischia di perdere di vista i suoi doveri spirituali e pastorali?

Il metro di valutazione dev’essere sempre il Vangelo. Dunque, la prima cosa da tener presente è che la Chiesa è il luogo dove si adora Dio e non “mammona”, il denaro, come ha ricordato di recente il Papa. La seconda cosa è considerare tutto dal punto di vista della missionarietà. Se un’iniziativa serve a promuovere la missione, allora va bene.

E come si fa a essere missionari attraverso un’attività commerciale?

Dando un esempio soprattutto in termini di sobrietà e di solidarietà. L’importante è rimanere fedeli all’insegnamento evangelico senza lasciarsi irretire dalla logica del mondo. Penso che sia molto eloquente in proposito l’ammonimento di Gesù:  “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”.

Che cosa deve fare la Chiesa per non farsi coinvolgere eccessivamente da queste attività?

Suggerirei due cose. Anzitutto di lasciarle gestire a professionisti laici. E poi di evitare la tentazione di ampliarle sempre di più:  il rischio è che una parte della struttura ecclesiastica finisca per trasformarsi in una sorta di ente commerciale, per non dire in un grande supermarket.

A giudicare da questi nove mesi di esperienza al servizio della Santa Sede, è cambiato qualcosa nello stile di vita della Chiesa dopo il suo intervento al Sinodo o c’è ancora da fare?

Nella Chiesa c’è sempre da fare:  Ecclesia semper reformanda. Del resto, io non ho dubbi sul fatto che la Chiesa era ed è già impegnata sulla strada che ho indicato. Il mio appello voleva essere solo un contributo in questa direzione. La Chiesa è in cammino da duemila anni e continua a camminare, ad andare avanti, sia pure talvolta a piccoli passi. Certo, non sempre i frutti si vedono; ma sono convinto che comunque la buona volontà non viene mai meno.

Da economista cattolico, che giudizio dà sulle cause dell’attuale crisi economica?

Già dieci anni fa c’è stata una fase di recessione, anche se circoscritta ai Paesi asiatici. Ma ora la crisi è diventata universale, perché in questo decennio l’economia mondiale si è progressivamente globalizzata. E così i suoi effetti si avvertono in tutto il pianeta. La differenza rispetto a quella precedente è che stavolta è scoppiata nel Paese considerato la locomotiva dello sviluppo mondiale:  gli Stati Uniti. In questo io vedo un aspetto positivo, “un’opportunità” come ha detto il Papa. Improvvisamente il mondo si è accorto che anche un gigante economico apparentemente solido può fallire. E ha cominciato a chiedere il perché.

Qual è la risposta?

Bisogna andare in profondità. La radice di questa crisi sta in un deficit morale. Il capitalismo non funziona senza una base etica. E il gigante crolla quando le sue fondamenta non sono costruite sui principi morali. Sul biglietto del dollaro c’è scritto In God we trust, “Noi confidiamo in Dio”. Per l’appunto:  se il mercato si basa unicamente sull’interesse egoistico e non “confida in Dio”, fallisce.

Per superare la crisi sono sufficienti regole più rigide e controlli più severi, od occorre un cambiamento radicale del sistema?

Posta così, credo che la questione sia difficilmente risolvibile. A chi giudica sufficiente la prima soluzione vorrei far notare:  nel momento in cui aumentano le regole e i controlli, già non si può più parlare di capitalismo allo stato puro o di libero mercato in senso stretto. E a quelli che propendono per la seconda ipotesi chiederei di essere più espliciti:  qual è l’alternativa concreta a questo sistema?

Un intellettuale cattolico come Ernst-Wolfgang Böckenförde sostiene che il capitalismo ha un ineliminabile “carattere disumano” e che la dottrina sociale della Chiesa deve elaborare “una radicale contestazione” del sistema in nome del principio di solidarietà. Che ne pensa?

In linea di principio potrei anche essere d’accordo. Tuttavia bisogna essere chiari. Criticare questo sistema è facile:  dobbiamo sempre impegnarci a realizzare un’organizzazione economica migliore di quella attuale. Però, ripeto, qual è l’alternativa? Spesso si parla di “terza via”. Ma di cosa si tratta in concreto? Non dimentichiamo, in ogni caso, che la Chiesa non condanna il capitalismo in se stesso, anche se afferma che l’economia di mercato deve indirizzarsi verso un fine e un senso che abbiano al centro la persona e la sua dignità. La Caritas in veritate è molto chiara in proposito.

Allora come si esce da questo impasse?

Cominciamo col riconoscere onestamente che lo spirito del capitalismo non va d’accordo con quello del Vangelo. Il cuore del cristianesimo è l’amore per gli altri. Il nucleo del capitalismo, invece, è la competizione, che è l’antitesi dell’amore.

Quindi  bisogna  andare  oltre  questo  sistema?

Attenzione, la cosa non è così scontata come sembra. Storicamente i tentativi di costruire un’economia senza competizioni e conflitti si sono rivelati un’illusione:  pensiamo al fallimento dei sistemi socialisti. Direi di più:  la stessa Chiesa primitiva descritta negli Atti degli apostoli aveva realizzato un modello di vita comunitaria basato sulla condivisione dei beni e quindi sull’assenza di spirito di competizione, ma anche questo modello di fatto non ha avuto seguito.

E allora siamo al punto di partenza.

Infatti. Dobbiamo ripartire dalla fonte, dall’origine di tutto:  il peccato originale. Da qui nasce nell’uomo quell’egoismo che non va d’accordo con l’insegnamento del Vangelo.

Quindi è una questione di uomini e non di strutture?

Direi di entrambi, ma in primo luogo di uomini. Giovanni Paolo ii ha parlato più volte di “strutture di peccato”. Però bisogna chiedersi:  di chi è la responsabilità del peccato? Dell’individuo. Quindi è dal livello personale che deve avere inizio la conversione. E da lì, poi, si può arrivare alla riforma delle “strutture di peccato”.

Qual è il primo passo da fare?

Cominciamo a formare le coscienze ai valori evangelici. Questo è il compito principale della dottrina sociale della Chiesa e a questo mira anche la nuova enciclica di Benedetto XVI.

Ma gli imprenditori cattolici non dovrebbero avere già questo tipo di formazione?

Purtroppo non sempre è così. Quello che spesso manca, per esempio, è la coscienza della “responsabilità sociale” che deriva dalle loro attività. Nessuna impresa è un’isola. E chi oggi non ne tiene conto – avverte il Papa nella Caritas in veritate – è destinato al fallimento:  non solo come singolo imprenditore ma come ingranaggio di un sistema che coinvolge azionisti, banche, lavoratori, fino ad arrivare ai consumatori.

A proposito di questi ultimi, che cosa possono fare di fronte a un simile meccanismo?

Possono fare molto se diventano consapevoli delle conseguenze del loro stile di vita e delle loro scelte pratiche. Anche il semplice gesto di acquistare qualcosa può avere conseguenze importanti sul piano economico:  nessuna scelta è neutra. E non vale nulla obiettare:  “Io sono solo uno dei sei miliardi di persone che vivono sulla terra, il mio gesto non conta niente”. Sta proprio a noi iniziare per primi, perché ciascuno nel suo piccolo può cambiare il mondo.

E quindi cambiare il sistema.

Lo ripeto:  a me questo sembra un falso problema. Mi importa piuttosto che la logica del profitto si concili con quella dell’amore e della giustizia. La produttività dev’essere orientata al bene delle persone, sulla base della carità e secondo criteri di solidarietà. Insomma un’economia guidata, con regole ben gestite. Chiamiamola come vogliamo:  economia di comunione, per esempio. Alla fine non è questione di etichette ma di fatti. Bisogna agire concretamente, non limitarsi a discussioni teoriche. La Chiesa e i cristiani devono essere i primi a farlo.

In che modo?

Io ho molto apprezzato, per esempio, il fatto che la Conferenza episcopale italiana abbia promosso la colletta di solidarietà per sostenere le famiglie in difficoltà. Certo, la Chiesa non è in grado materialmente di aiutare tutti i bisognosi. Però può dare il buon esempio ai suoi fedeli, mostrando appunto che per amare non bastano le parole:  occorrono i fatti.

Ma così non si rischia di trasformare la Chiesa  in  una  sorta  di  agenzia  umanitaria?

Noi non siamo una ong o un ente caritativo. L’azione dei cristiani si basa sulla carità, ma scaturisce dalla verità:  caritas in veritate, appunto. Non possiamo prescindere dall’incarnazione di un Dio che si è fatto uomo per amore degli uomini. Questa è carità perfetta. La verità della nostra fede acquista più credibilità se testimoniata dall’amore.

(©L’Osservatore Romano – 22 agosto 2009)