Nell’esperienza del credere fondamentale il «come»
di Francesco D’Agostino
Tratto da Avvenire

Perché l’espressione ‘cattolico adulto’ mi appare equivoca e irritante?  In primo luogo perché la percepisco come sottilmente discriminante.

Se misurati a partire da questa categoria, i credenti che non facessero parte degli ‘adulti’, cioè del gruppo delle persone responsabili, capaci di intendere e di volere, dovrebbero essere considerati alla stregua di ‘minorenni’, cioè come bambini fondamentalmente irresponsabili, privi di discernimento e quindi bisognosi dell’aiuto degli ‘adulti’ per vivere correttamente la loro fede. In secondo luogo, perché (dobbiamo prenderne atto) quella di ‘cattolico adulto’ è una qualifica che un soggetto ordinariamente si autoattribuisce, con una buona dose di narcisismo. Ma con quale legittimazione? Il problema naturalmente non sta nel sostenere o nel negare che esistano cattolici ‘adulti’ e cattolici ‘minorenni’ (è chiaro che possono esistere!), ma nello stabilire a chi spetti il compito di individuare gli uni e gli altri e in base a quali criteri. Il problema non è piccolo, perché, come è evidente, se i cattolici ‘adulti’ sono buoni, quelli non adulti sono da ritenere addirittura troppo immaturi, per essere giudicati sia buoni che cattivi. Ad alcuni potrà apparire che sto ponendo una questione non solo molto facile a risolversi, ma ormai risolta da tempo. Si deve ritenere adulto, lodevolmente adulto, il cattolico che prima di ogni altra voce ascolta i dettami della propria coscienza; colui che sia quindi portato a sospettare nei confronti di chi gli chieda docilità e adesione a tesi o a pratiche che egli non senta sue; colui che sia pronto quindi a dire di no a richieste (vengano queste dalla voce del parroco o dal magistero del Papa) che gli appaiano non solo indebite, ma semplicemente non convincenti. Andrebbe, in buona sostanza, ritenuto ‘adulto’, colui per il quale l’ubbidienza non è (più o almeno necessariamente) una virtù. Ai cattolici non adulti altro non resterebbe quindi che ‘crescere’, lentamente e pazientemente. Questo discorso, pur apparentemente così suggestivo, non funziona.

Come in altri casi, infatti, in questo discorso si confonde l’esperienza politica, alla quale davvero possono partecipare esclusivamente soggetti ‘adulti’ (nel senso sopra descritto), con l’esperienza ecclesiale, che ha una natura profondamente diversa. È da questa confusione che deriva l’immagine caricaturale che viene inevitabilmente elaborata a carico dei cattolici ‘non adulti’, presentati come dei bambini o come degli sciocchi, il cui unico orizzonte si trova a essere quello di un’ubbidienza passiva, se non cieca, all’autorità della Chiesa e ai suoi pastori. Le cose non stanno così. Vivere, da cattolici, la fede significa avere la consapevolezza che nessuno può credere ‘da solo’. L’esperienza della fede è esperienza di comunione: credere ‘in’ è indissolubile dal credere ‘con’. Ecco perché la voce della coscienza (voce preziosa e irrinunciabile, che mai deve essere manipolata o soffocata) non può essere assunta in una chiave solipsistica, come è evidente in coloro che della coscienza fanno un oracolo interiore, privato, incomunicabile.

Ascoltare la voce della Chiesa (cioè della comunità alla quale si appartiene e quindi la voce dei pastori, del magistero, del Papa, che di questa comunità sono parte prioritaria, nella logica del servizio alla verità) non significa soffocare la propria voce interiore o assumere atteggiamenti infantilmente passivi, ma capire che quel continuo dialogo ecclesiale, al quale tutti i fedeli sono chiamati a partecipare, non è dialogo tra chi è adulto e chi adulto non è, ma tra fratelli che condividono le stessa speranza e vanno insieme alla ricerca di quale, tra le tante che si offrono, sia la via giusta da percorrere. Non esistono veri cattolici che siano legittimati, in quanto cattolici, a qualificare se stessi come ‘adulti’: l’esperienza di una fede, chiamata a vivere nella comunione ecclesiale, non offre giustificazione alcuna a simili atteggiamenti narcisistici.