La società del divertimento distrae dalla felicità

di Giovanni Fighera da www.lanuovabq.it

Goya,

Nell’operetta morale «Dialogo di Malambruno e Farfarello», dopo aver chiesto la felicità al demone e aver ottenuto una risposta negativa, Malambruno desidererebbe almeno togliere l’infelicità. Farfarello risponde che ciò è impossibile a meno che non smetta di volersi bene. Se ciò che ci procura tristezza è la domanda che sembra non trovare appagamento, è sufficiente smorzare la tensione del desiderio per stare, solo apparentemente, meglio. Ecco perché un assopimento dell’animo è, in generale, piacevole, perché consiste in uno stordimento della ragione, in un annebbiamento delle domande del cuore: «Il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi [… ] un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo procurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede» (Zibaldone).

Nell’operetta morale «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare» il protagonista  nella sua solitudine del convento / manicomio di Sant’Anna chiede allora quali siano i rimedi contro la noia, contro questo pungolo che non ci fa stare tranquilli, ma ci fa sospirare di desiderio. La risposta è «il sonno, l’oppio, il dolore». La società contemporanea sembra essere una fabbrica di assopimento dell’animo. L’oppio di cui parla Leopardi è la droga diffusa in tutte le sue forme nel mondo giovanile e anche in quello più adulto, le forme di felicità chimica, ovvero di stordimento e di distruzione graduale della ragione umana e del fisico. La droga sembra diventare abitudinaria accompagnatrice delle serate di chi vuole divertirsi, trattata come amica. A quale stordimento giunge spesso l’uomo! L’assopimento è, spesso, procacciato attraverso l’alcool, attraverso l’ebbrezza che toglie ogni inibizione e che, nel contempo, stordisce. Il genio familiare cita, però, anche un altro espediente, il sonno, che si può intendere nel senso letterale del termine o in quello metaforico di fuga dalla realtà, costruzione di una campana di vetro all’interno della quale ripararsi e non vivere. Quante forme di sonno esistono, quante forme di annichilimento della coscienza vengono sovente adottate! Il sonno è, però, senza che ricorriamo ad una lettura metaforica, la via immediata cui molti ricorrono per stare meno male. Non a caso chi si sente depresso  si rifugia spesso nel dormire.

Eppure, l’animo spesso predilige forme di assopimento più vitali. Quest’ultima può sembrare un’espressione ossimorica e paradossale, ma non lo è: infatti, l’uomo, volendosi illudere di vivere e pensando che l’intensità della vita dipenda dalla quantità di attività, si riempie  le giornate di occupazioni, satura ogni spazio vuoto, eliminando le occasioni per pensare e per porsi domande. «La vita continuamente occupata» scrive Leopardi nello Zibaldone, «è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro, il provvedere ai suoi bisogni ordinari, ec. ec. ec.) giacché li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose e la speranza di quei piccoli fini […] bastano a riempirlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo». Leopardi è, però, ben cosciente dell’inganno del divertimento e dell’occupazione continua della propria giornata con mille attività. Scrive, infatti, nello Zibaldone: «Né la occupazione né il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco (meno) infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna… Occupata o divertita (sottointeso la vita), ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene né piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perché abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita».

La frenetica vita di oggi sembra la paradigmatica rappresentazione di una risposta che la società contemporanea ha dato alla questione della felicità, risposta pilotata dal potere che induce falsi bisogni e li pone come esigenze fondamentali dell’io. Siamo bombardati da messaggi che ci inducono a pensare in positivo per la moltitudine dei beni di consumo che l’uomo può ottenere, siamo immersi nella civiltà che ci gestisce il tempo libero ora per ora, come nei villaggi turistici dove il nostro divertimento è sentirci dire cosa fare e come occupare le nostre giornate. Riempire il vuoto, mettere a tacere l’horror vacui, che provoca un senso di vertigine, è la parola d’ordine attuale. I più, nella propria dimenticanza, non si avvedono neppure di non essere liberi in questo modo di agire, presuppongono di stare bene, semplicemente perché non sentono più la domanda. Paradossalmente una montagna di piaceri sommerge il vero desiderio.

Nei Pensieri Pascal definisce questo atteggiamento umano di distrazione con il termine divertissement. L’espressione nel suo significato etimologico (dal latino divertere cioè «volgere qua e là, lontano dalla strada principale, dal solco tracciato») ben designa il tentativo, coscientemente o incoscientemente perpetrato, di strapparci dal nostro cuore originario, sede delle domande più autentiche sul significato e sul senso delle cose, attraverso distrazioni, palliativi, piaceri surrogati della felicità che hanno come conseguenza quella di alienarci, di allontanarci da noi stessi, di renderci estranei a noi stessi, di essere sempre fuori da noi così che «la nostra casa risulta disabitata». Per questo Pascal scrive: «Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione». L’uomo passa, così, da un piacere all’altro senza sosta, rimanendo deluso in continuazione, ma sopperendo a questo disinganno con l’immensa varietà dei piaceri. Spesso, non ha tempo di stancarsi dei piaceri, poiché vi si sofferma troppo poco e non ha lo spazio per riflettere sull’incapacità di essi a felicitarci. Ecco perché sovente, invece di approfondire i rapporti, si preferisce passare da un’amicizia all’altra, da un rapporto sentimentale all’altro nella paura che si possa altrimenti cogliere l’inganno di chi affida la felicità ad un bene (come idolo) oppure già nel puro cinismo che fa di ogni cosa un nulla, privo di significato e quindi bene interscambiabile. L’idolatria è l’altra faccia della medaglia su cui è rappresentata la cinica violenza di distruzione dei beni in una spietata iconoclastia: l’idolatria produce la stessa distruzione dell’idolo, quando l’uomo verifica la sua inadeguatezza e, quindi, lo distrugge e lo cambia in un altro idolo. Come si passa da un bene all’altro, così si passa anche da un luogo all’altro, come i ragazzi al sabato sera, in modo da riempire quelle lunghe ore della notte che si vorrebbero interminabili, ma che non si sa come trascorrere.

Potremmo essere tentati di autoescluderci da questi tentativi di assopire l’animo, pensando che droghe, alcool, moltitudini di piaceri riguardino forse altri, non noi. Forse non siamo, però, immuni dalla più comune delle smemoratezze, da quella borghesizzazione della vita, da quel desiderio di una «vita tranquilla» che ci lascia pensare che noi abbiamo già compiuto il nostro dovere, perché abbiamo lavorato ed è, quindi, giusta e meritata la serata di pura dimenticanza, come la vacanza del dolce far niente dopo un anno in cui le giornate sono state saturate dal lavoro e dall’iperattività. È la condizione del gregge, descritta da Leopardi nel «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», un gregge che può oziare senza sentire il pungolo della noia, senza avvertire che siamo nati per Altro, per una felicità piena. Il gregge siamo tutti noi quando soffochiamo le domande sulla vita, quando preferiamo il quieto vivere, quando pensiamo nell’intimo del nostro cuore (senza magari osare confessarlo) che tanto la felicità vera non esiste e che convenga, quindi, godersi la tranquillità senza chiedere di più dalla vita, dagli amici, dal rapporto con la moglie o la fidanzata. Il monito di Dante è, però, severo e risuona nelle nostre orecchie attraverso la voce di Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza».

Arcivescovo di Granada: Attaccano il libro della Miriano? Noi pubblicheremo il sequel

Arcivescovo di Granada: Attaccano il libro della Miriano? Noi pubblicheremo il sequel

Francisco Javier Martínez Fernández da www.tempi.it

«Chi fomenta le polemiche non è interessato alla donna e alla sua dignità. Vuole solo attaccare il popolo cristiano che non si sottomette alla cultura dominante. A breve “Sposala e muori per lei”» 

CostanzaMirianoDopo le difese di Camillo Langone, riceviamo e pubblichiamo il comunicato con cui l’arcivescovo di Granada, Francisco Javier Martínez Fernández, ha voluto rispondere alle critiche che tre partiti iberici e alcuni media hanno rivolto contro la decisione della casa editrice Editorial Nuevo Inicio di tradurre e pubblicare il libro Sposati e sii sottomessa di Costanza Miriano.

Impegni legati alla mia missione mi hanno finora impedito di seguire l’artificiosa polemica a riguardo dalla pubblicazione del libro Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per donne senza paura, scritto dalla giornalista italiana Costanza Miriano, edito in Spagna da Editorial Nuevo Inicio. Non è mia intenzione difendere il libro, che si difende da solo, né tantomeno giustificare il suo titolo o quello del suo sequel (che sarà pubblicato a breve), che forma un dittico con il primo e che si intitolaSposala e muori per lei. Uomini veri per donne senza paura. È questo, infatti, un compito che spetta alla loro autrice, che peraltro, lo ha già fatto più volte, all’interno e al di fuori del libro. C’è forse bisogno, del resto, di ricordare che entrambi i titoli si ispirano quasi letteralmente a un passaggio della Lettera agli Efesini di San Paolo (Ef. 5, 21), e che la sottomissione e la donazione – l’amore – di cui si parla in quel passaggio non hanno nulla a che vedere con le relazioni di potere che avvelenano le relazioni tra l’uomo e la donna (e non solo quelle tra l’uomo e la donna) nel contesto del nichilismo contemporaneo? Nemmeno ho la pretesa di giustificare la posizione della casa editrice, che ha una propria voce e che sta svolgendo il suo compito diffondendo un’opera che – ne sono al corrente – sta aiutando molte persone.

Dal campo pastorale ed ecclesiale, che è quello che a me compete, desidero soltanto segnalare che l’opera è stata positivamente accolta dall’Osservatore Romano come “evangelizzatrice” e che la sua autrice Costanza Miriano è stata recentemente invitata a partecipare al seminario sulla dignità della donna, organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici in occasione del XXV anniversario della pubblicazione della Lettera Apostolica del Beato Giovanni Paolo II Mulieris Dignitatem. La lettura dei due libri, inoltre, è stata raccomandata dal Pontificio Consiglio per i Laici e dal Pontificio Consiglio per la Famiglia.

Questi termini di paragone nella vicenda indicano, con maggior chiarezza di certi commenti della stampa, che la posizione della casa editrice su questi due libri è in accordo con l’insegnamento della Chiesa, e che altre raccolte della stessa, dove sono pubblicati anche libri di autori non cattolici, intendono essere un “areopago” della nuova evangelizzazione, uno spazio di dialogo e di riflessione sulla fede cristiana nel contesto del mondo contemporaneo. Per questo motivo la casa editrice rappresenta un umile ma prezioso strumento pastorale al servizio della Nuova Evangelizzazione. Le sue pubblicazioni, infatti, sono contraddistinte dall’amore all’uomo, all’umano, la cui pienezza si rivela e si comunica in Cristo, oltre che da una grande libertà rispetto al dogmatismo della cultura dominante. In questo contesto, pertanto, la polemica generata da questo libro – il cui contenuto è in accordo con gli insegnamenti sull’amore sponsale di Giovanni Paolo II, ma che non pretende essere nulla di più se non la preziosa testimonianza di amore e libertà di una donna cristiana di oggi – risulta tanto ridicola quanto ipocrita. Ogni persona moderatamente informata sa perfettamente, a questo punto, che il libro, e anche la mia povera persona, non siamo altro che un pretesto. Coloro i quali fomentano e agitano questa polemica sono mossi da altri interessi e altri motivi, che non sono precisamente la difesa della donna o la preoccupazione per la sua dignità. Si tratta, piuttosto, di attaccare l’unica istituzione – l’unico settore della società, l’unico segmento di popolo vivo – che resiste ad ogni tentativo di addomesticazione da parte di quel rullo che è la cultura dominante: il popolo cristiano. Questo è il vero ostacolo, tutto il resto sono scuse. Persino il momento scelto per sollevare tutto il rumore che si è fatto è stato scelto in funzione di questo fine.

Miriano - Sposati e sii sottomessaTanto la storia della letteratura, quanto, in questo momento, gli scaffali delle librerie, sono pieni di libri che, talvolta in modo ironico, talaltra con la massima serietà – effettiva o presunta che sia –, insultano o si prendono gioco di sacre verità, dal matrimonio alla maternità, dalla libertà di educare a un significato profondo del vivere alla realtà della fede che professa gran parte del nostro popolo. Per di più, questi insulti e prese in giro godono della protezione della libertà di espressione. Libertà di espressione che – mi sia permesso ricordarlo – è un’invenzione cristiana. Solo in un terreno cristiano, infatti, avrebbero potuto fiorire tutte le grandi critiche alla religione del XIX secolo – Feuerbach, Nietzsche, Comte, Freud e Marx, solo per ricordare alcune di quelle più importanti –, alla Chiesa, che oltretutto è da sempre disposta a ricerverle con gratitudine nella misura in cui esse documentino un tentativo di ricerca del vero. Al di fuori del grande fiume della tradizione cristiana il futuro della libertà nel nostro mondo è ben più nero.

Il giudizio e l’opinione personale circa l’opera che ha destato le polemiche, così come è per qualsiasi altra opera letteraria di ogni tipo essa sia, o circa qualsiasi pronunciamento della persona, sono, ovviamente, liberi e legittimi, ma non l’offesa, l’insulto, la calunnia. Né quest’opera né alcuna mia dichiarazione hanno mai giustificato in alcun modo, scusato e ancor meno promosso un solo atto di violenza contro la donna. Mentre, invece, favoriscono e facilitano la violenza contro la donna una legislazione che liberalizza l’aborto e ugualmente tutti quegli interventi che indeboliscono o addirittura eliminano il matrimonio, nella misura in cui tendono a lasciar cadere tutta la responsabilità di un’eventuale gravidanza interamente sulla donna, lasciata a se stessa ed escludendo il maschio da ogni forma di responsabilità. So che l’autrice ha già chiesto a chiunque volesse rivolgere simili accuse al suo libro di farlo con precisione, specificando la pagina e il paragrafo dove dovesse essere contenuto un qualsiasi tipo di giustificazione o scusante di una pur minima forma di violenza nei confronti della donna, perché, al netto delle gratuite squalifiche che qualcuno può fare e delle grossolane manipolazioni, è consapevole che nessuno potrà trovarne. Come nemmeno potrà trovarne nelle mie parole. Semplicemente perché simili affermazioni che taluni gratuitamente mi attribuiscono non sono mai state da me pronunciate né da altri uomini di Chiesa a me vicini né tantomeno appartengono alla tradizione cristiana. Chi mi accusa può farlo soltanto fraintendendo le mie parole, il cui contenuto è noto e pubblico, anche perché la mia predicazione deve svolgersi sempre in pubblico, dalla cattedra episcopale che la Chiesa mi ha affidato.

Il grande inganno della rivoluzione sessuale svelato da un romanzo che è meglio di mille studi sociologici

“La doppia vita dei coniugi Horn” di Anne Lise Marstrand-Jorgensen descrive perfettamente il fallimento dell’utopia anni Sessanta e le sue disastrose conseguenze
di Lucetta Scaraffia da www.tempi.it 

anne-lise-marstrand-jorgensen-la-doppia-vita-dei-coniugi-hornTratto dall’Osservatore Romano – L’autrice dei due bellissimi volumi biografici dedicati a Ildegarda di Bingen cambia totalmente argomento: nel suo nuovo romanzo (La doppia vita dei coniugi Horn, Milano, Sonzogno, 2013, pagine 544, euro 19,50) Anne Lise Marstrand-Jorgensen racconta la storia di una famiglia danese degli anni Sessanta travolta dalla rivoluzione sessuale. Anche se il romanzo – come sempre scritto con grande maestria ed estremamente coinvolgente — termina con un ringraziamento a «coloro che hanno fatto sì che tutti noi oggi abbiamo maggiori possibilità di scelta di una volta», e dunque anche se l’autrice in fondo sembra simpatizzare per lo spirito rivoluzionario, in realtà l’intreccio costituisce una inequivocabile accusa contro i danni e le sofferenze che una utopia, sbagliata come tutte le utopie, ha potuto causare.

Alice ed Eric sono una giovane coppia innamorata, due coniugi belli che apparentemente hanno tutto: tre figli sani e intelligenti, una bella villa in un sobborgo residenziale, un tenore di vita superiore a quello di cui godevano nelle famiglie d’origine. Alice ha rinunciato al lavoro per seguire figli e famiglia, ma non le dispiace: l’inquietudine viene da Eric, che ha partecipato da giovane a manifestazioni per la pace, in cui ha sperimentato l’ebbrezza di vivere e cooperare personalmente a un cambiamento della società, e ora si trova stretto in una vita così perfetta ma anche ripetitiva e come già tutta definita. L’incontro con un ex-compagno di studi divenuto hippy – che si fa chiamare Sufi e vive in una comune dal nome significativo di Paradiso – lo porta a desiderare la libertà sessuale, ma non nel modo tradizionale dell’adulterio nascosto, ma come prospettiva da vivere sinceramente, insieme con la moglie. Alice spaventata dalla proposta resiste per un po’ ma poi, per paura di perdere Eric, accetta e viene coinvolta in una serie di rapporti che la sconvolgono. Nel trascorrere del tempo, si accorge che mentre per lei la situazione diventa insostenibile, per Eric il desiderio di libertà si amplia sempre di più. Quando Alice gli chiede di rinunciare a questo gioco pericoloso, per tornare alla loro vita normale, Eric le risponde con un tradimento, questa volta anche affettivo, realizzato di nascosto. Alice comprende e non vede altra soluzione che il suicidio.

La seconda parte del libro è la difficile storia del vedovo e dei bambini dopo la morte di Alice: il dolore aspro dei primi tempi, e poi una forma di normalità che nasconde per i figli pesanti fardelli che li portano a commettere errori da cui è difficile emergere. La più colpita risulta essere proprio la primogenita, Marie-Louise, la più somigliante alla mamma e la più giudiziosa, quella che si occupava diligentemente dell’andamento domestico: a sedici anni, incinta del preside del suo istituto, abbandonerà la scuola per occuparsi del bambino, in solitudine. La seconda figlia, la più intelligente e ribelle, a modo suo ripercorre la via del padre avvicinandosi al mondo hippy, mentre il figlio piccolo diventa violento e taciturno. Davanti a questo sfacelo, però, Eric risponde ancora una volta con una scelta “rivoluzionaria”: decide di lasciare tutto per andare in India per sei mesi, con il gruppo hippy di Sufi.

In questo romanzo è raccontato, come non possono fare testi storici o sociologici, il dolore che provoca la scelta utopica in una famiglia normale: non è che le famiglie tradizionali trabocchino di felicità, ma almeno i figli sono protetti dalle esperienze più estreme e il tessuto familiare non viene lacerato. Eric invece, seguendo l’utopia e una forma un po’ egoistica di sincerità, ispira le sue scelte solo alla realizzazione di se stesso, senza vedere i bisogni e le debolezze delle persone di cui è direttamente responsabile. In un delirio di onnipotenza, pensa che sia possibile avere tutto: libertà e famiglia, responsabilità e avventura.

L’aspetto più interessante del romanzo è quello che collega il benessere nuovo di cui godono le famiglie di cui si parla, frutto del boom degli anni Sessanta, alla ricerca di nuove esperienze e nuove utopie. Come se fosse proprio la delusione davanti al fatto che il benessere tanto sospirato non coincide con la felicità a spingere alcuni verso queste nuove e pericolose esperienze. In una società secolarizzata, in cui non c’è spazio per l’anima e la ricerca di Dio, la delusione può solo spingere verso l’utopia. Alice, negli ultimi giorni di dolore, ricorda con nostalgia la vita modesta ma tranquilla dei suoi genitori, una coppia unita soprattutto dalla comune lotta quotidiana per la sopravvivenza economica, ma non per questo priva di tenerezza reciproca.

Nonostante il ringraziamento dell’autrice faccia pensare a una sua adesione al progetto di liberazione sessuale, il romanzo individua – con una lucidità che manca a molti scritti scientifici – il malessere che ha dato alimento all’utopia, e le conseguenze di questa perdita di senso della responsabilità dei legami sociali di un mondo che suggerisce a ciascuno solo la ricerca della realizzazione di sé.

L’ideologia del gender una minaccia per la famiglia

L’ideologia del gender una minaccia per la famiglia

Avevo deciso di non trattare l’argomento per evitare di incorrere in possibili inconvenienti, ma poi ho pensato, da che cosa devo guardarmi, alla fine sono soltanto un“ripetitore”, come quegli strumenti che negli anni 70 si mettevano in un punto più alto del paese per poi far arrivare il segnale sui tetti delle varie case provvisti di televisore.

 Quindi mi appresto a ripetere, cominciando dall’ottimo convegno organizzato da Alleanza Cattolica, il 5 ottobre scorso a Milano su “Ideologia del gender e unioni civili omosessuali. Un itinerario contro la famiglia”. Sono intervenuti di fronte a una sala gremita di quasi quattrocento persone, il reggente nazionale vicario di Alleanza Cattolica Massimo Introvigne, Assuntina Morresi, Domenico Airoma, Alfredo Mantovano e Tugdual Derville, portavoce de La Manif Pour Tous. Subito dopo il convegno è proseguito con la tavola rotonda con la partecipazione di alcuni rappresentanti politici, dal senatore Maurizio Sacconi agli onorevoli Eugenia Roccella, Alessandro Pagano e Gregorio Gitti, moderatore il giornalista Andrea Morigi. Il convegno oltre a discutere della proposta di legge sull’omofobia, presentata come necessaria per proteggere gli omosessuali da violenze e aggressioni, che vanno certamente condannate senza riserve e punite severamente. Intendeva prendere in esame la nuova ideologia del “Gender”, apparsa negli ultimi anni, una vera “rivoluzione antropologica”.

 A questo proposito papa Benedetto XVI in un discorso alla Curia Romana, del 21 dicembre 2012, ricorda le parole famose della teorica del femminismo francese, Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne nait pas femme, con le devient”)In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma ‘gender’, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è un dato originario della natura e che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi”.

 In pratica questa è una nuova rivoluzione che può essere vista come una delle più grandi sfide a cui la Chiesa deve affrontare nella sua storia. Naturalmente non solo la Chiesa, ma l’ideologia del gender minaccia tutta la società e la persona umana stessa.

 “La profonda erroneità – afferma Benedetto XVI – di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela”. Peraltro per Benedetto XVI si tratta di una rivolta contro Dio e così “non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: ‘Maschio e femmina Egli li creò’ (Gen I,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschi e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà”. E’ una scelta faustiana dove l’uomo concreto muore: “Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale”. Ognuno con la sua libertà si fa da solo e così si giunge “a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio”.

 Per avere un quadro più completo della questione propongo un testo che ho letto in questi giorni, si tratta di Paper Genders, il mito del cambiamento di sesso, di Walt Heyer, pubblicato quest’anno dalla casa editrice milanese, Sugarcoedizioni (pp. 169, e 16,80)

 L’autore nell’introduzione ci tiene a scrivere che il libro non è stato patrocinato da nessuna organizzazione o movimento politico o aggregazione ecclesiale, ma è stato imposto dalla sua esperienza personale,“vissuta in netto contrasto con l’imperversante esaltazione del successo del cambiamento di genere da parte dei media e dei gruppi attivisti”. Continua Heyer, “ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro è stato il mio desiderio personale di aiutare le persone trasngender, facendo luce sul lato oscuro del cambiamento di genere”.

 Per i lettori del libro Heyer ricorda che “I disturbi dell’identità di genere (Gender Identity Disorders – GID) sono complessi e non ancora del tutto compresi”. Infatti il libro, proprio per l’argomento, ha una valenza abbastanza scientifica e specialistica, che riguarda le più disparate problematiche mediche e psicologiche.

 Sempre nell’introduzione, Heyer sostiene che chi“cambia genere non dovrebbe essere disprezzato o vessato solo perché noi non siamo in grado di comprendere le sue sofferenze (…)Per evitare il suicidio e il rimpianto ha bisogno di sostegno, compreso quello dei medici e psicologi che lo sorreggono nell’estenuante conflitto, che evolve verso una crisi dell’identità di genere”.

 Pertanto secondo Heyer “il tasso di suicidi tra i trans gender risulta essere di quasi il dieci volte superiore a quello della popolazione generale”. Heyer nel testo mette in discussione la procedura di “chirurgia del cambiamento di sesso”, “un termine fuorviante, perché è impossibile cambiare, attraverso la chirurgia estetica e gli ormoni, il genere di nascita di chiunque. Sulla carta, però, il cambiamento si può eseguire  facilmente e, in effetti, è solo qui che si registra il cambiamento di sesso: sui certificati di nascita e sulle patenti di guida”. Ecco perché Heyer li chiama paper genders (generi sulla carta), perché l’unico cambiamento avviene sulla carta.

 Il libro ripercorre tutto il programma di chirurgia del cambiamento di sesso a partire da chi ha iniziato l’esperimento, il dott. Alfred Kinsey, proseguito da Harry Benjamin e poi da John Money, tutti legati da un filo comune, la pedofilia. Il testimone successivamente passò al dott. Paul Walker. Ad oggi scrive Heyer negli Stati Uniti si trovano circa venti chirurghi che eseguono interventi sui genitali per cambiare sesso.

 Heyer desidera che la pubblicazione del libro favorisca una nuova comprensione del fenomeno e serva come guida per la prevenzione dei suicidi delle persone trans gender. Il libro smaschera il facile ottimismo che è stato ad arte veicolato dai mass media intorno al cambiamento di genere, ma che molti si pentono, non lo diranno mai.

di  DOMENICO BONVEGNA

L’ideologia immigrazionista giustifica l’invasione di massa

L’ideologia immigrazionista giustifica l’invasione di massa

Nel precedente intervento, auspicavo, dopo il giusto dolore per la strage di eritrei e somali a Lampedusa, un’azione attenta di conoscenza della questione immigrazione per evitare reazioni emotive. Pertanto la prima cosa da fare è studiare bene il problema. Il professore Massimo Introvigne è un esperto sociologo che oltre a studiare le Religioni si occupa anche di queste questioni.  Avvalendomi del suo testo “Islam. Che cosa sta succedendo?” , della Sugarcoedizioni, Introvigne raccomanda di saper leggere bene i numeri dell’immigrazione, per non sbagliare previsioni. E cita Michele Tribalat, una che li ha letti bene, e che ha scritto un ottimo testo, “Les Yeux grands fermes. L’immigration en France”,(“A occhi ben chiusi. L’immigrazione in Francia”, Denoel, Parigi 2010)Un libro che purtroppo rischia di non essere letto da nessuno secondo Introvigne.

 Tribolat avendo lavorato per molti anni negli uffici statistici francesi, presenta ricerche originali, ma con un gergo specialistico. “E’ un peccato, perché i dati che la Tribolat presenta sono tali da indurre a ripensare l’intera questione dell’immigrazione”. In pratica l’esperta francese sostiene che “da almeno quindici anni molti dati offerti al pubblico francese sull’immigrazione sono falsi”. La Tribolat, incalza: “La falsificazione non è il risultato di errori: è deliberata – talora perfino imposta per legge – e ha lo scopo di evitare che l’opinione pubblica francese si allarmi per il numero troppo alto degli immigrati e diventi ‘razzista’”.

 Esiste un’ossessione anti-razzista, che ha permesso a qualcuno di mentire ai francesi, una specie di “menzogna sedicente pedagogica, che dovrebbe appunto evitare il diffondersi di tesi razziste e imporre ‘il dogma di una visione necessariamente positiva dell’immigrazione’.Si arriva al punto che l’immigrazione viene sacralizzata e a nessuno è permesso di dissentire, e  neanche fare dibattiti ragionevoli. L’esperta francese ha iniziata a porre  una domanda semplice: “quanti immigrati arrivano ogni anno in Francia?” E qui in pratica le statistiche sono state manipolate.

 Intanto la Tribolat smonta qualche luogo comune come il fatto che l’immigrato non viene più in Francia per cercare lavoro, il 63% a partire del 2006 entra per ricongiungimento familiare. Altro luogo comune smontato è che “l’immigrazione è necessaria all’economia europea”, che, “gli immigrati risolvono i problemi pensionistici causati dalla denatalità e ‘fanno lavori che nessun europeo vuole fare’.

 Comunque sia esistono ricerche che mostrano che in economia non esistono regole o teoremi validi riguardo all’immigrazione europea. Un dato è certo, la mano d’opera poco qualificata è nociva all’economia: gli immigrati spesso fanno lavori a prezzi stracciati, alterando il mercato del lavoro, in particolare, a danno dei cittadini non immigrati più poveri, e poi tra l’altro pagano contributi pensionistici modesti. Certo può capitare anche mano d’opera qualificata tra gli immigrati, ma dal punto di vista morale, bisogna ammettere però che questo è devastante per i Paesi d’origine.

 La Tribolat, è stata accusata di “fanatismo demografico”, e di essere “malata”, quando ha proposto di misurare la popolazione complessiva che origina direttamente o indirettamente da fenomeni d’immigrazione. Certo se fosse vero che certe città francesi, un terzo della popolazione è composta da immigrati, l’impatto sull’opinione pubblica sarebbe devastante.

 Gli studi dell’esperta francese, che non cita quasi mai l’Italia, potrebbero essere utili anche per il nostro Paese, “ce n’è abbastanza per importare anche da noi un sano realismo che induca a diffidare di statistiche, quando si tratta d’immigrazione, troppo spesso riviste al ribasso o edulcorate”.

 C’è una corrente di pensiero diffusa nella cultura europea, alimentata dai media di ogni specie, che ha permesso di sottovalutare il fenomeno, mi riferisco all’immigrazionismo, una subdola ideologia. Il professore Introvigne della propaganda  immigrazionista,  individua cinque tesi che analizza e confuta. La 1° tesi è quella di carattere quantitativo: gli immigrati sono ancora una minoranza, è inutile allarmarsi, c’è posto per tutti. Sono ragionamenti che emergono negli ambienti della Caritas/Migrantes, che producono utili rapporti annuali, ma spesso con commenti immigrazionisti. Secondo Introvigne questi ragionano come se sono di fronte a una fotografia, invece l’”immigrazione è un processo – scrive Introvigne – e dunque è necessario guardare non alla fotografia o al singolo fotogramma ma la film”. Ogni anno gli immigrati aumentano a un ritmo vertiginoso, vogliamo arrivare come in Olanda? Su tredici milioni di residenti, oltre tre sono immigrati extra-comunitari. O in Svezia su nove milioni, quasi due sono immigrati.

 Sono dati che conoscono anche gli immigrazionisti, ma ci invitano a fare un duplice atto di fede: in futuro ci saranno meno immigrati e che quelli presenti o in arrivo nel nostro continente faranno sempre meno figli. Mi sembra un ottimismo fuori luogo.

 La 2° tesi è che accogliere grandi quantità d’immigrati è un imperativo morale. Lo sostengono politici di sinistra, ma a volte anche di destra, che intendono in questo modo, risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Per l’Europa è una specie di contributo morale obbligatorio, una “penitenza per i peccati del colonialismo”. “Ma, a prescindere dal fatto che presentare il colonialismo come soltanto dannoso e malvagio è piuttosto unilaterale e storicamente discutibile, non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa e più proficuo per il Terzo Mondo trasferire da noi milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine”.

 Un argomento etico usato molto in Italia, è quello dell’asilo politico, così chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico, o vittima di gravi sperequazioni economiche, avrebbe diritto all’asilo politico, praticamente, scrive Introvigne, “la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto”. Invece c’è un argomento etico contrario per opporsi all’immigrazionismo: “fondato sul rispetto dei diritti delle maggioranze, non meno importanti di quelli delle minoranze”. Peraltro la maggior parte dei cittadini dell’Unione Europea nei sondaggi e anche nelle elezioni si dichiara contraria ai progetti immigrazionisti. Recentemente in Norvegia, il partito conservatore della signora Erna Solberg ha stravinto le elezioni. Pertanto bisogna tenere conto della volontà popolare oppure no?

 Il 3° argomento degli immigrazionisti è di tipo economico. Si dice che l’Europa, a causa della denatalità, ha bisogno d’immigrati, non importa da dove, e in ogni caso ci sono “lavori che nessun europeo vuole fare”, che possono essere svolti dagli immigrati. E’ vero l’Europa ha un drammatico problema demografico, ormai siamo una civiltà moribonda. Ma non c’è la certezza che l’aumento indiscriminato degli immigrati sia la soluzione.

 Il 4° argomento è quello sociale. Il welfare europeo è in profonda crisi, perché ci sono troppi vecchi pensionati e pochi giovani che pagano i loro contributi agli enti previdenziali. Così i teorici immigrazionisti pensano che gli immigrati extra-comunitari possono risolvere il problema. Ma sono pie illusioni perché solitamente gli immigrati hanno lavori poco remunerati, quindi pagano contributi relativamente bassi.

 Il 5° argomento sostenuto dagli immigrazionisti è la tesi che la religione degli immigrati sia indifferente. Chiunque sa che la religione ha delle conseguenze sociali, un conto sono i peruviani che portano per le strade in processione la statua della Madonna e un conto sono i musulmani che magari mescolano alle loro preghiere invettive contro gli USA e l’Occidente.

Mi fermo so benissimo che il tema ha bisogno di ulteriori approfondimenti, sarà per un’altra occasione.

di DOMENICO BONVEGNA

                                                                                       

 

Il diavolo, “l’Oscuro Signore”

Il diavolo, “l’Oscuro Signore”

di Domenico Bonvegna

Scrivere un libro sul diavolo per consolare chi lo legge, sembra una contraddizione, ma non lo è per don Pietro Cantoni, docente di filosofia e teologia presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore (LU).

Il libro è L’Oscuro Signore. Introduzione alla demonologia, pubblicato recentemente dalla SugarcoEdizioni ( www.sugarcoedizioni.it ) di Milano, 137 pagine per consolare il lettore. Qualcuno potrebbe pensare “che abbiamo sbagliato argomento: come si fa ad essere consolati nella contemplazione del regno delle tenebre e dei suoi abitanti?” Tra l’altro don Cantoni sostiene che si può essere consolati anche leggendo la fantastica opera del“Signore degli Anelli”, o leggendo il sublime viaggio della “Divina Commedia”, nonostante queste opere siano popolate da oscuri personaggi.

Del resto oggi viviamo in un mondo pieno di tribolazioni e per questo c’è un forte bisogno di essere consolati, a questo scopo possono aiutarci le esortazioni, le predicazioni, ma anche facendo teologia. Presentando il libro nel mese scorso presso la sala affollatissima“don Albertario” della parrocchia di San Gottardo a Milano, don Pietro, per gli amici “don Piero”, ha precisato che il diavolo non bisogna prenderlo troppo sul serio, sopravvalutarlo, ma neanche sottovalutarlo, parlandone poco o addirittura negandone l’esistenza come si è fatto per troppo tempo all’interno della Chiesa. Infatti, Cantoni nella prefazione, fa proprio l’ammonimento dell’elfo Elrond a proposito del mago Saruman: “E’ pericoloso studiare troppo minuziosamente le arti del Nemico, con buone o cattive intenzioni”. (J. R. R., Tolkien, Il Signore degli Anelli, p. 303) Peraltro fare troppo pubblicità al diavolo non va bene perché oltre che“pericoloso è anche inutile, l’essenziale sta infatti nella contemplazione del Vittorioso e della sua vittoria e da essa trarre tutte le conclusioni veramente utili”.

Del resto il demonio, L’Oscuro Signore, in fondo è sconfitto e anche noi lo possiamo sconfiggere nella misura in cui, con la fede, ci affidiamo interamente all’Uomo più forte di lui che è Gesù nostro Signore.

Il testo del professor Cantoni si apre con una lunga introduzione dove affronta l’annosa questione del Male e del Bene, quindi del “primo peccato”, il peccato dell’Angelo che don Pietro definisce “la più colossale catastrofe della Storia, anzi della metastoria”. Al suo confronto quella di Hiroshima e Nagasaki, sono ben poca cosa. Quello dell’Angelo ribelle è un peccato irrimediabile, è un “inferno eterno”, di questa ribellione Dio non ha nessuna colpa.Tuttavia indagare su questa catastrofe non è ozioso perché ha anche delle conseguenzeattuali.

L’Angelo ribelle pecca non tanto perché vuole diventare come Dio, ma per il rifiuto del “gratis di Dio”. Un odio a Dio perché ha deciso l’incarnazione come un dono verso l’uomo, e quindi un odio a Gesù Cristo: “certamente le bestemmie, le profanazioni, i dileggi che si appuntano con insistenza morbosa sulla persona del Redentore non sono facilmente spiegabili con le leggi ordinarie della psicologia e sociologia umane”.

A questo punto si comprende anche perché il dogma dell’incarnazione abbia giocato un ruolo decisivo nella Storia delle eresie, “è l’eresia capitale che soggiace a tutte le altre”. Il peccato dell’Angelo secondo Tertulliano, S. Cipriano e Sant’Agostino è un peccato di invidia per l’uomo. Leggendolo così si possono capire gli orrori della Storia, in particolare, quelli recenti,“le guerre totali dei Lager, dei Gulag e dell’abbrutimento morale e fisico di masse sterminate di uomini, non possono che risultare più comprensibili. Nella loro umana irrazionalità evocano un sinistro odio per l’uomo in quanto tale e per l’uomo nella sua carne. Anche la cronaca -scrive Cantoni – riceve una luce nuova, dove l’odio che oggi si sta sempre più manifestando nei confronti della differenza sessuale in quanto tale si svela per quello che è: un rigetto irrazionale e ultimamente diabolico dell’uomo nella sua carne”.Certo il peccato del diavolo è radicale molto più grave rispetto a quello dell’uomo che può avvicinarsi per malvagità si pensi al satanismo, al magismo. Pertanto per don Pietro possiamo assistere ad una imitatio Christcosì come consapevolmente ci potrà essere una imitatio Diaboli.

Alla lunga introduzione seguono cinque capitoli: il I°, Gli Angeli tra teologia e filosofia. Il II° capitolo, La negazione del demonio e della sua azione nella teologia contemporanea. Il III° capitolo, Il regno di satana: l’inferno eterno. Nel IV° e V° capitolo Cantoni affronta lo spinoso problema della possessione diabolica e dell’azione demoniaca in generale, e poi I criteri diagnostici per uscirne. Il testo di Cantoni è teologicamente ricco, anche se l’argomento non è facile e penso, facendo parlare Vittorio Messori, al credente “di base”al “cattolico medio”al “semplice praticante” che poco o nulla sa di teologia. E’ opportuno fare qualche riflessione in merito alla negazione dell’esistenza del Demonio all’interno della Chiesa Cattolica. Nel 1969, con la pubblicazione del libretto di Herbert Haag, intitolato Abschied vom Teufel, cioè “Commiato dal diavolo”, tradotto in Italia dalle edizioni Queriniana di Brescia. All’edizione italiana è stato aggiunto al titolo un punto interrogativo, che non è un dettaglio, per don Pietro, per cui diventa: “Liquidazione del diavolo?”. La tesi di Haag è semplice: “il demonio non esiste, è soltanto un simbolo, il simbolo della malvagità nel mondo”.

Al libro dell’esegeta tedesco risponde il Papa in persona, il venerabile Paolo VI nel novembre del 1972, il professor Cantoni lo trascrive completamente, perché è troppo importante, “è uno schema che possiamo definire tipico del magistero pontificio, una sintesi di quello che il magistero ordinario ed universale della Chiesa ha sempre fermamente insegnato”.

“Uno dei bisogni maggiori (della Chiesa) è la difesa da quel male, che chiamiamo il demonio. Il Papa dopo aver indicato i diversi passi evangelici che indicano la presenza del demonio, scrive che il principale è “Satana, che vuol dire l’avversario, il nemico(…) E’ il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo Essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana”.

E ricordando la parabola evangelica del buon grano e della zizzania, Paolo VI descrive il demonio in maniera mirabile: “E’ lui il perfido ed astuto incantatore, che in noi sa insinuarsi, per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare(…)L’influsso del Demonio, “ch’egli può esercitare sulle singole persone, come su comunità, su intere società, o su avvenimenti, un capitolo molto importante della dottrina cattolica da ristudiare, mentre oggi poco lo è”. Il Papa in conclusione dopo aver ribadito che lo stato di grazia ci preserva dal peccato e dall’invisibile nemico, ci esorta a riprendere la virtù del soldato. “Il cristiano dev’essere militante; dev’essere vigilante e forte; e deve talvolta ricorrere a qualche esercizio ascetico speciale per allontanare certe incursioni diaboliche; Gesù lo insegna indicando il rimedio nella preghiera e nel digiuno”.