Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

dal vangelo secondo Lc 11,47-54

In quel tempo, il Signore disse: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi date la testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri.
Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione.
Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito».
Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo ostilmente e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

Il commento di don Antonello Iapicca
 
A noi, a me e a te che siamo figli di questa generazione, figli della Chiesa di questo tempo concreto, “sarà chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l’altare e il santuario”. Quanti profeti ci sono stati inviati? Quante persone ci hanno annunciato il Vangelo? Quante occasioni per ascoltare e convertirci? E’ bene fare memoria della storia d’amore intessuta dal Signore per noi. E perché noi? Perché Israele e non l’Egitto? Perché tu e non tua cugina? Perché nel mistero del’elezione, tu ed io fossimo il segno di Dio deposto dinanzi agli occhi di chi ci è accanto; un segno di contraddizione capace di annunciare la novità radicale del Vangelo, l’amore impensabile che vuole raggiungere ogni uomo. “Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno”: per chiedere conto a noi di tutta la storia che ci ha preceduti. Che ingiustizia potremmo pensare, vero? Che c’entriamo noi? E invece c’entriamo eccome! Innanzi tutto perché, come gli scribi e i farisei contemporanei di Gesù, ci crediamo anche noi migliori di molti, forse di tutti. Certamente dei pedofili e degli assassini che riempiono i telegiornali. Anche dei profeti ai quali non abbiamo creduto e che abbiamo perseguitato… Ed erano incarnati in nostra moglie, o in un fratello… E poi, proprio perché siamo figli di una lunga storia di salvezza, e i nostri occhi hanno visto miracoli che i profeti e i re avrebbero voluto contemplare e non hanno potuto, una grande responsabilità grava su di noi. Solo un moralista può pensarla come un peso. Un cuore innamorato e grato a Dio per il suo amore immeritato la vive come l’occasione per dare compimento alla propria vita, nella gratuità e nella gratitudine, fragranze soavi che accompagnano sempre un annuncio credibile del Vangelo. Non è dunque una profezia di sventura quella che oggi il Signore ci annuncia. E’ una chiamata a conversione, seria e decisiva. Giunge il momento favorevole della resa dei conti, dove lasciare a Cristo i fallimenti dell’egoismo perché, finalmente, possiamo vivere con amore la missione che ci è stata affidata. Gli scribi e i farisei si erano appropriati della storia di salvezza e delle Grazie ricevute dal Popolo. Avevano rubato la “chiave della scienza” per saccheggiarne i tesori, escludendo perversamente i “poveri” e i “piccoli”. Per questo Gesù rivela la sua missione come quella del Servo che viene a predicare la salvezza proprio agli esclusi, ai peccatori pubblici, agli “affaticati e oppressi”. Offre loro il suo giogo, la Sapienza della Croce, e così fa luce e chiede conto di ogni abuso. E’ Lui stesso la Sapienza crocifissa che chiede conto dell’elezione.
E lo chiede oggi a noi. Ma è amore, è la gelosia che cerca ogni pecora perduta per la negligenza di pastori autoreferenziali, mercenari che hanno usato delle cose sante per saziare le proprie concupiscenze. E qui ci siamo tutti: vescovi, preti, religiosi e suore, padri e madri, catechisti e semplici cristiani. Tutti incatenati all’egoismo figlio della paura di morire; tutti speriamo di scamparla arraffando la Scienza, come un talismano dal quale ottenere prestigio e autorità, visibilità e gratificazione. Tutti come gli scribi e i farisei, ma anche come gli apostoli, sempre in cerca dei primi posti, di sedere alla destra e alla sinistra del Re Messia. Tutti dimenticando che la “scienza” vera è quella della Croce, vergata dal sangue dell’amore che sacrifica se stesso sino alla morte; nessuno cerca questa “scienza”, nessuno sa neanche dove siano le sue “chiavi”. Per questo Gesù viene a chiedere conto a ciascuno di noi della grande menzogna alla quale abbiamo creduto, e con la quale abbiamo ingannato i fratelli. La “scienza” che abbiamo è falsa, è una volgare imitazione, ci gonfia per poi farci scoppiare miseramente. E’ la “scienza” della superbia; con le sue “chiavi” abbiamo “chiuso” la porta del Regno in faccia ai piccoli che ci erano stati affidati. Abbiamo ingannato moglie e marito spacciando per “scienza” d’amore quello che era solo concupiscenza: sacrifici, parole, regali, tutto falso! Tutto per offrire a noi stessi l’affetto dell’altro. E, di fronte alla prima vera difficoltà, abbiamo “chiuso” la porta allo Spirito Santo, perché troppo pericoloso… E abbiamo così impedito a noi e al prossimo di “entrare” nella “casa della conoscenza” (la traduzione esatta dell’originale reso con “scienza”), ovvero la casa dello studio, la yeshiwà dove gli ebrei scrutano la Torah. In essa avremmo sperimentato la comunione autentica che annuncia il Paradiso, e invece sono due mesi che non parliamo. Ed è quello che accade alla Chiesa quando “chiude” le sue porte alle irruzioni dello Spirito, scacciando i carismi che Dio le dona. I farisei e i dottori avevano le “chiavi” di questa casa, “le chiavi della scienza” appunto. Come i vescovi, i presbiteri, i genitori, tu ed io, inviati in ufficio, a scuola o in un ospedale. Che ne facciamo? Ci lasciamo sorprendere dallo Spirito Santo o ci “chiudiamo” impauriti? Lasciamo che l’amore di Dio giunga a chi ci è accanto nelle forme e nei tempi che non avevamo previsto, o “chiudiamo” con superbia la saracinesca perché lo Spirito non è arrivato in orario? Riconosciamolo, quanti “sepolcri” abbiamo aperto alla profezia e ai profeti, che ci hanno annunciato inaspettatamente l’amore vero, quello che non fa sconti al peccato ma ha misericordia del peccatore; quello che annuncia Papa Francesco, e del quale continuiamo a scandalizzarci. Forse anche ieri abbiamo seppellito un profeta. Forse era proprio “Abele”, nostro fratello; forse era nostro figlio, ferito e peccatore, che, in quella sua infinita debolezza, era una profezia del miracolo che l’amore di Dio voleva compiere. E invece abbiamo “chiuso” ogni possibilità, “chiusi” nell’orgoglio di padre ferito… Ma non è finita! Oggi, ora possiamo aprirci alla Grazia, ai carismi che rinnovano la Chiesa e ciascuno di noi, i doni che si nascondono nelle persone e negli eventi più impensati; soprattutto nella Croce, la “chiave” che apre il cuore indurito e chiuso nell’orgoglio. La chiave consegnata a Pietro, per aprire e chiudere, legare e sciogliere, in terra e in Cielo. La chiave consegnata alla Chiesa perché, mossa dallo Spirito, conduca le generazioni ad entrare nella casa eterna di Dio.
 
QUI IL COMMENTO APPROFONDITO
Le parole del Vangelo di oggi chiudono il discorso tenuto nella casa del fariseo e che ha avuto origine dalla sua meraviglia di fronte alla novità di Gesù. Il non lavarsi le mani è stato un atto profetico nella linea di tutti i profeti dell’Antico Testamento. Con quel segno non ha voluto condannare il precetto, ma si è offerto come uno specchio nel quale farisei e dottori della Legge potevano guardare la propria immagine autentica: sono loro quelli che, in realtà, non si lavano le mani; Gesù non fa altro che mostrare e annunciare profeticamente la verità che si nasconde nella realtà che appare. Il precetto compiuto non esprime un contenuto adeguato: si purifica l’esterno mentre il cuore resta pieno di impurità; si pagano le decime di tutti gli ortaggi e si trascurano giustizia e amore. Soprattutto, si disprezza e respinge il profeta che annuncia la verità capace di aprire la strada alla conversione. Così facendo, scribi e farisei si frapponevano tra Gesù ed il Popolo. Il continuo interrogare, mettere a prova, tendere trappole iniettava veleno e mirava a screditare Gesù. Questione di potere e prestigio certamente, ma, soprattutto, rifiuto di Gesù quale Messia. Al punto che, proprio a partire dal discorso in casa del fariseo, si mettono alla caccia di Gesù, che si concluderà nell’uccisione del Profeta.
Si comprendono allora le parole durissime del Signore: la generazione che rifiuta Gesù è quella cui verrà chiesto conto del sangue di ogni profeta e di ogni giusto, perchè ha rifiutato il Profeta annunciato da Mosè; con Lui è giunta la pienezza dei tempi, il compimento di ogni profezia, il culmine della storia d’amore di Dio con il suo popolo. E’ la generazione della quale tutti siamo figli, perchè tutti siamo contemporanei di Gesù. Le sue parole giungono oggi alla nostra vita, scuotono la Chiesa, ci chiamano a conversione. I farisei e i dottori della Legge godevano di grande prestigio, erano le guide spirituali del popolo, detenevano il potere. Insegnavano nella “casa della conoscenza”, la casa dello studio, dove erano chiamati a dare sapore alla Torah, ad attualizzarla perchè Israele potesse accoglierla e vivere alla sua luce. “Entrare nella conoscenza” era sinonimo di entrare nel Regno di Dio: esso si realizzava ovunque si fosse compiuta la volontà di Dio.   Farisei e dottori avevano le chiavi di questa casa – le chiavi della scienza – ma se ne erano appropriati chiudendo la porta della conoscenza e quindi del regno di Dio a se stessi e a quanti la desideravano. Avevano chiuso la porta alla profezia e al Profeta.
La Chiesa che smarrisce o rifiuta la profezia è come il sale che ha perduto il sapore: “I discepoli del Signore sono chiamati a donare nuovo “sapore” al mondo, e a preservarlo dalla corruzione” (Benedetto XVI, Angelus del 6 febbraio 2011). Ma quando il sale perde il sapore è il mondo a dare il suo veleno alla Chiesa corrompendola. E’ quello che succede quando l’Istituzione si chiude in se stessa e non lascia varchi all’irrompere dello Spirito. Come i farisei e i dottori hanno fatto con Gesù. “La Chiesa è fondata sugli apostoli e sui profeti. I profeti della Chiesa primitiva si organizzavano come membri di un collegio. Più tardi il collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati, perché Dio trova, per così dire, più margine di manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. Come gli stessi apostoli erano a loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre le una porta per intervenirePotremmo citare i nomi di grandi personaggi della Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo esercitare il potere in modo profetico. Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla, avvertirla, promuoverla e santificarla. Essi sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa. Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo stesso” (J. Ratzinger).
Chiudere la porta alla profezia, all’interno dell’Istituzione come all’esterno, rifiutare i carismi, significa chiudere la porta della salvezza e della felicità a noi stessi e a quanti, piccoli, poveri e peccatori, attendono fuori della casa della Conoscenza, la Chiesa eletta da Dio perché accolga come una madre anche il più grande peccatore. Peggio, significa rifiutare Cristo: così la Chiesa cessa di essere quello che è riducendosi ad un’istituzione umana governata da criteri mondani, che si specchia in se stessa nel timore di guardarsi nel suo Sposo e convertirsi. Ed è quello che succede alla nostra vita, non lontana da quella dei  farisei e dei dottori della Legge: la perversione di appropriarci del tesoro che ci è affidato e sul quale abbiamo autorità: i figli, il matrimonio, il lavoro, gli affetti, e la Grazia. Guai a voi ci dice dunque il Signore, che rifiutate il soffio dello Spirito, i profeti e gli apostoli inviati per strapparci dalla menzogna. Quanti sepolcri abbiamo aperto alla profezia che è sempre amore vero, quello che non fa sconti al peccato ma ha misericordia del peccatore.
Ma è Lui, il Signore Gesù, che ha cercato e raccolto la chiave. In Lui la chiave della Scienza è divenuta la Croce, la profezia rigettata perché la menzogna non può accogliere la verità. In Lui e’ svelata ogni scienza, quella sublime dell’amore che riscatta e trasforma una vita schiacciata nell’egoismo e nella ricerca di sé, in un dono totale. La Croce è la chiave che apre il cuore indurito e chiuso nell’orgoglio, che scioglie le catene della paura e della menzogna. La chiave consegnata a Pietro, per aprire e chiudere, legare e sciogliere, in terra ed in Cielo. La chiave consegnata alla Chiesa perché, mossa dallo Spirito profetico, conduca le generazioni ad entrare nella casa eterna di Dio: la Croce gloriosa di Cristo che penetra tutto e indica il cammino alla Verità.
Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Mercoledì della XXVIII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,42-46.

Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che avete cari i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo». Uno dei dottori della legge intervenne: «Maestro, dicendo questo, offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!


Il commento di don Antonello Iapicca

“Innalzate una siepe per la Torah” avevano insegnato i Padri al tempo dell’esilio. Essi credevano che sul Sinai, accanto alla Torah scritta, Dio avesse rivelato a Mosè anche la Torah orale; una serie di precetti che raggiungevano ogni aspetto della vita – le “altre cose” che Gesù stesso invita a “non trascurare” – perché in tutto fosse protetta la fedeltà all’Alleanza, la santità (separazione) del Popolo Eletto, il segno di Dio deposto nella Babilonia pagana. E’ cura dei figli pagare la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio per ricordare che tutto è dono del Padre e di nulla ci si può appropriare. Per questo i “guai” severi di Gesù non si riferiscono all’osservanza dei precetti, ma sono fendenti che mirano al cuore: “Guai a voi!”, guai al vostro cuore che “trascura la giustizia e l’amore gratuito di Dio!”. Chi trascura, infatti, non ama, è un ipocrita infedele. Quante volte abbiamo tras-curato, siamo passati oltre la cura dovuta alla moglie, al marito, ai genitori, presi dai nostri inderogabili impegni? Quanti “no” sbrigativi sbattuti in faccia ai figli invece di curare con calma in loro il “si” a Cristo? Come Pietro che passava oltre le parole di Gesù e voleva fermarlo nella sua salita a Gerusalemme: “Questo non ti accadrà mai!”. Pietro, il primo Papa, tu ed io, quando ci mettiamo di traverso e siamo di scandalo ai piccoli nel loro cammino verso il compimento della volontà di Dio. Sì, “guai” a te e a me oggi, che ci lasciamo ispirare pensieri, giudizi e parole da satana.
“Guai a te satana” che inganni tua moglie e tuo marito, i tuoi figli, i fratelli e i fedeli affidati alle tue cure di presbitero, “caricando” sulle loro povere spalle “pesi insopportabili”: sono i moralismi dei quali la nostra concupiscenza scatenata dal fallimento vorrebbe nutrirsi. Siamo, infatti, scandalizzati della nostra e dell’altrui debolezza e impauriti dalla precarietà; come i farisei ci illudiamo di “separarci” dal male che ci circonda scalando “i primi posti nelle sinagoghe” e comprando “i saluti nelle piazze”. Siamo come squali affamati: incapaci di compiere il bene, di amare e “giudicare” cosa sia bene e cosa sia male, secondo il senso originale del termine tradotto con “giustizia”, restiamo vuoti e senza gratificazione. Per questo ci aggiriamo in cerca di cibo capace di saziare la fame dell’uomo vecchio: il successo e il prestigio da una parte, l’obbedienza ai nostri criteri, alle nostre idee e alle nostre imposizioni dall’altra. Tutto per sentirci vivi, mentre tutto ci ripete che siamo morti. Il primeggiare, infatti, è sempre una corsa verso il “sepolcro” dell’irrilevanza. Più cerchiamo di sfuggirla più essa ci risucchia come in una tomba della quale nessuno si accorge, come quelle vecchie che troviamo nelle chiese, sulle quali non si legge più neanche il nome del defunto. Più cerchiamo di “passare avanti” alla volontà di Dio, costruendocene una nostra che vorremmo far passare per sua, più restiamo frustrati. Non siamo noi i creatori di noi stessi, solo Dio può sapere che cosa ci fa bene; Lui sa che la nostra felicità e la nostra realizzazione sta nel seguirlo sui sentieri della misericordia, dell’amore disinteressato che giunge sino al nemico. Quando, invece, ingannati dal demonio, ci fabbrichiamo una legge, essa sarà sempre così inumana e “insopportabile” da schiacciarci. Ma l’abbiamo confezionata, e, ormai scivolati sul piano inclinato della concupiscenza, dobbiamo vederla compiersi in qualcuno, per non morire sotto le macerie del fallimento. Per questo,proporzionalmente ai nostri fallimenti e alle nostre frustrazioni, all’irrilevanza e all’oblio che sperimentiamo, carichiamo sugli altri i “pesi che non abbiamo saputo portare”. Assolutamente fuori misura, figli di un’illusione e di un delirio di onnipotenza tale e quale a quello del demonio, sono pesi che uccidono. E così neanche l’aver oppresso chiunque ci stia accanto ci sazia, perché tra i lacci dei moralismi esigiti e caricati su coniugi, figli e nipoti, le relazioni esplodono e radono al suolo ogni sentimento. La verità è che non amiamo altri che noi stessi; corriamo per raggiungere i primi posti, lasciando indietro le persone che Dio ci ha messo accanto, andando al di là del loro passo, che è l’unica misura dell’amore autentico. Chi ama sa decelerare, sa anche fermarsi, sa addirittura lasciarsi passare avanti da chi ha accanto. Sa aspettare, sa restare in silenzio e dire la parola giusta al momento giusto. Chi ama il figlio non lo sorpassa mai, ma lo guida con l’esempio di chi si fa tutto a tutti per amore; e lo aiuta facendosi ultimo per poterlo sospingere con la misericordia. Così ci ha amati il Signore, servo che ha lasciato passare tutti avanti, rinunciando a se stesso, per farci entrare nel Cielo. Senza la cura attenta del Tu restiamo imprigionati nella solitudine superba dell’Io, sepolcro che ci chiude nella stessa trascuratezza e irrilevanza che abbiamo riservato agli altri. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore; a tornare indietro laddove abbiamo trascurato il fratello per prendere insieme il giogo soave e leggero di Cristo.
Le parole di Gesù del Vangelo di oggi sono lampi di un cuore che arde d’amore. Sgorgano dalle viscere commosse di chi vede i fratelli del suo Popolo affaticati e oppressi sotto un giogo insopportabile. Dietro di esse si scorge l’episodio delle nozze di Cana, nozze senza vino, senza gioia. Secondo il Talmud, iI kiddush – il matrimonio vero e proprio che consente la coabitazione – avviene solo quando si studia la Torah. Le due persone che ogni anno concludono ed inaugurano il ciclo dello studio della Torà ricevono il titolo di “hatan“, sposo. La Torah è la sposa che Dio ha consegnato a Israele sul Sinai. Per questo il Decalogo è chiamato il Cammino della Vita: come in un matrimonio i due non saranno più due ma una sola carne, così ogni figlio di Israele è chiamato ad essere, istante dopo istante, legato alla Torah; nel compimento di ogni precetto egli vive l’intimità e l’amore con Dio nella realtà concreta della propria vita. “L’adempimento di un precetto non è il piegarsi sotto la frusta del legislatore, ma, strettamente inteso, è la felice possibilità di dare un valore eterno a ciò che è transitorio” (N. Oswald).

“Innalzate una siepe per la Torah” (Av. 1,1) era un principio che muoveva dalla storia e dalla realtà: “Si trattava di adattare a tempi nuovi, a nuovi problemi e a mutati stili di vita le molte direttive, imposizioni, comandamenti ed esortazioni dell’Antico Testamento” (C. Thomas,Teologia cristiana dell’ebraismo). L’occupazione romana, la prossimità con i popoli pagani e le relazioni necessarie che ne derivavano, la cultura ellenistica incipiente, tutto ciò, insieme ad altri elementi, costituiva l’acqua nella quale l’Israele contemporaneo di Gesù si trovava a nuotare. Era il problema di sempre: come mantenersi puri, ossia fedelmente uniti a Dio nell’Alleanza, in mezzo al paganesimo. Di qui il bisogno di assicurare il compimento della Torah attraverso una serie di precetti che raggiungessero ogni aspetto della vita, perché nulla fosse esposto al pericolo della contaminazione. Per i farisei e i dottori della Legge, “una singola prescrizione, una Halachah, era un’illustrazione particolare della volontà divina, applicata ad un singolo caso, e in quanto tale essa era vincolante per tutti coloro che riconoscevano la Torah come somma autorità e si impegnavano a camminare lungo la via da essa prescritta” (C. Thomas, ibid.). L’autorità di tali insegnamenti scaturiva dall’idea teologica secondo la quale accanto alla Torah scritta, Dio avrebbe rivelato a Mosè sul Sinai anche la Torah orale, la siepe innalzata a protezione. E Gesù sembra accettarlo quando afferma “… senza trascurare le altre“: è bene pagare la decima su tutti gli ortaggi, come è importante benedire Dio per ogni attività intrapresa: tutto è suo dono e di nulla possiamo appropriarci. Le decime erano una siepe che proteggeva dall’oblio di questa verità fondamentale; dimenticando di essere creatura si finisce con il credersi Dio. Ma una siepe circonda il giardino, non cresce al centro di esso: è da stolti curare una siepe e dimenticare la casa che essa protegge. Il Signore ha fatto l’interno e l’esterno, la siepe e la casa, la Torah e la Tradizione orale! La sapienza consiste nel curare la Torah senza dimenticare la “siepe”: i precetti sono per difendere la purezza del cuore, la sua intimità con Dio. Solo così l’attenzione meticolosa che non dimentica nessuno dei 613 precetti includendo anche i minimi – che Gesù loda – è segno della cura per la giustizia e l’amore di Dio, l’amicizia con Lui, la primogenitura che definisce il senso della nostra vita. Diversamente, esagerando e mettendo la siepe al posto che non le spetta, essa si converte in un moralismo senza anima: “La lettera uccide, lo Spirito dà la vita” (2 Cor 3, 6).

Per questo i “guai” non si riferiscono nè alla “siepe” nè all’osservanza dei suoi precetti. I “guai” sono fendenti che mirano al cuore. “Guai a voi! Guai al vostro cuore che dimentica e trascura!”: “Guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto : non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Guardatevi dal dimenticare l’Alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilita con voi…” (Deut. 4,9.23). Quante volte ci lasciamo assillare dai problemi contingenti dimenticando quanto i nostri occhi hanno visto. Erigiamo una siepe per proteggerci dal paganesimo che ci assedia: la scuola che troppo spesso insidia i nostri figli, le loro amicizie, la televisione, internet e i social networks; ma dimentichiamo il potere di Colui che ci ha posti in mezzo a Babilonia come un candelabro. Come già Israele al tempo di Gesù anche noi viviamo in un’acqua torbida capace di inquinare senza rendercene conto. Cerchiamo di seguire la volontà di Dio, ma la paura e l’ansia che ci assediano ci impediscono di alzare lo sguardo per avere una visione di fede autentica sugli eventi e nevrotizziamo le situazioni per sganciarle dalla precarietà. Dimentichiamo lo Spirito per fermarci alla lettera: quando parliamo e cerchiamo di aiutare i figli, o i fratelli nella fede, spesso fissiamo regole e ci adiriamo, imponiamo pesi che noi non portiamo neanche con un dito. Diciamo e non facciamo, non tanto perché trasgrediamo i precetti anzi, come i dottori della Legge, le regole le rispettiamo meticolosamente; quanto piuttosto perché non carichiamo insieme con gli altri lo stesso giogo, non facciamo nostra la loro debolezza e stanchezza, non abbiamo compassione. Così ogni precetto, valido e importante per non farsi del male, diviene un peso insopportabile, un moralismo asfissiante, che allontana dal cuore il desiderio stesso del bene da difendere. Quanti moralismi in giro, in televisione come nelle nostre famiglie… E’ in fondo questo il senso dell’amore ai primi posti: la recondita superbia che nasce dall’oblio della propria realtà.Chi cerca affetto, saluti e primi posti, è sempre o un moralista o un lassista, vanità che scaturiscono dall’inganno. L’equilibrio e l’autenticità dell’esistenza – la giustizia e l’amore di Dio – sgorgano sempre dall’umiltà di chi si conosce e per questo parla sempre cuore a cuore, indicando all’altro l’Unico che davvero può riscattare e proteggere e dare gioia alla vita. “Quando il Signore tuo Dio avrà scacciato i popoli dinanzi a te, non pensare: A causa della mia giustizia, il Signore mi ha fatto entrare in possesso di questo paese; mentre per la malvagità di queste nazioni il Signore le scaccia dinanzi a te. No, tu non entri in possesso del loro paese a causa della tua giustizia, né a causa della rettitudine del tuo cuore; ma il Signore tuo Dio scaccia quelle nazioni dinanzi a te per la loro malvagità e per mantenere la parola che il Signore ha giurato ai tuoi padri, ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Sappi dunque che non a causa della tua giustizia il Signore tuo Dio ti dà il possesso di questo fertile paese; anzi tu sei un popolo di dura cervice” (Deut. 9,3ss). Si entra nella Terra promessa, nella vita santa e giusta per la pura misericordia di Dio, per la sua fedeltà alla promessa, all’elezione con la quale ci ha raggiunti. L’infrazione della Legge è sempre frutto dell’oblio della primogenitura, della superbia che dimentica la debolezza, si fa forte della propria presunta giustizia, e impedisce di abbandonarsi alla fedeltà di Dio.

Invece, proprio per paura della precarietà spirituale, ci convinciamo paradossalmente di potercela fare e ci stringiamo in una corazza di regole che impediscano l’errore, e ci rendiamo schiavi di un pericoloso pelagianesimo; Sant’Agostino osservava come l’eretico Pelagio accoglieva solo il dono minore, cioè l’insegnamento, l’esempio da seguire, negando però quello maggiore, il dono dell’”inspiratio dilectionis”, l’attrattiva della carità. Secondo l’allora Card. Ratzinger, i pelagiani “vogliono essere in ordine, non perdono ma giusta ricompensa. Non speranza ma sicurezza. Con un duro rigorismo… vogliono procurarsi un diritto alla beatitudine. Manca loro l’umiltà essenziale per ogni amore, l’umiltà di ricevere doni al di là del nostro agire e meritare… questo pelagianesimo è un’apostasia dall’amore e della speranza, ma in profondità anche dalla fede. Il cuore dell’uomo diventa allora duro verso se stesso, verso gli altri e infine verso Dio. Il nucleo di questo pelagianesimo è una religione senza amore” (J. Ratzinger, Guardare Cristo). Una religione senza gioia, senza l’attrattiva della carità, le nozze di Cana senza vino. Come educare, trasmettere la fede, annunciare il Vangelo in simili condizioni? Non è l’amore ma la paura a erigere una siepe di no che spesso umiliano il si che solo muove la vita verso il suo compimento nell’amore. Circondiamo la vita di sterili no figli della paura che trasforma la speranza in angoscia “e questa a sua volta partorisce quella ricerca di sicurezza in cui non può esserci alcuna incertezza” (J. Ratzinger, ibid.). Tentiamo allora di sottrarre i nostri figli alla precarietà che, sola, genera il santo timore di Dio – “la paura di offendere l’amato, di distruggere le basi dell’amore” – sul quale stende le sue radici la siepe eretta a difesa dell’amore. Ci comportiamo come quei farisei e dottori della Legge che, per sfuggire alla debolezza, avevano reso superfluo l’amore paziente di Dio pronto ad aiutare, a perdonare, a ricreare. E non ci rendiamo conto che, rifiutando la debolezza e la precarietà che ci costituiscono, lasciamo fuori dalla nostra vita Colui che, solo, può riscattarci dai fallimenti inevitabili che feriscono le nostre storie. Il compito dell’educazione cristiana “deve essere quello di purificare la paura, di collocarla nel suo giusto punto e di integrarla nella speranza e nell’amore, così da diventare una protezione e un aiuto per essi…  Chi ama Dio sa che esiste solo una reale minaccia per l’uomo, il pericolo di perdere Dio” (J. Ratzinger, Ibid.). Il cristianesimo è la religione del , dell’accoglienza di una volontà d’amore manifestata innanzi tutto come misericordia: il  di Dio all’uomo, il  di Maria a Dio, il  di Cristo alla consegna di se stesso. E in questo grande fiume di sì affluiscono i torrenti dei nostri  quotidiani, di quelli dei nostri figli, come il consenso nuziale che vincola nell’amore gli sposi. Sì colmi di gioia nell’accoglienza stupita e grata della Torah, della Legge che incarna, istante dopo istante, l’amore.  che sgorgano dall’esperienza che Dio è autore della storia, che vi è Lui dietro ogni evento, che la sua fedeltà ci conduce al mare della felicità autentica e ci difenderà sempre.

La radice del problema è nel cuore, al centro del giardino, nelle fondamenta della casa. Le siepi che erigiamo, in se stesse buone, non servono a nulla sino a che la casa da proteggere è un sepolcro chiuso sulla morte; un sepolcro con le sembianze di una casa e così chiunque si avvicina non si avvede di contaminarsi! Pensiamo di aiutare e invece scandalizziamo e ci giochiamo autorità e confidenza. Perché abbiamo dimenticato l’Alleanza, la storia di salvezza che Dio ha fatto con noi: il giudizio di misericordia con il quale ci ha amati e ci ha tratti dal sepolcro. E’ questo il cuore della Torah che irrora la vita di giustizia e amore, i frutti dello Spirito. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore; fare memoria di come Lui ci ha salvati e protetti, rincorrendoci mille volte sui sentieri del paganesimo. E così riconoscere nella “siepe” l’amore di Dio, geloso e pieno di compassione. Esso ci libera dal carcere grigio e frustrante di leggi incompiute, di desideri inappagati, di ideali spezzati. Il suo amore compie ogni legge, perché ogni Legge trova compimento nel suo amore. Accettare ogni giorno la precarietà, nell’attesa, colma di speranza e timore, del suo aiuto, della sua misericordia, del suo amore capace di fare del fallimento più cocente un successo strepitoso.

 
 
 

Un altro commento

E’ vero, ammettiamolo: siamo sempre alla ricerca di chi possa darci ragione, di chi, al nostro passare, si sbracci nei saluti. Desideriamo essere riconosciuti, stimati, apprezzati. Il sindacato del nostro Io lavora ventiquattro ore su ventiquattro. E quanti scioperi e manifestazioni se restiamo senza il “meritato” e “giusto” salario affettivo. Quante mogli la sera guardano in cagnesco i propri mariti appena rientrati in grave ritardo. E quanti mariti si chiudono in un abbraccio con il TG pur di non spiccicare una parola. Quanti pesi caricati sulle spalle di chi ci è vicino, moralismi e leggi che vorremmo poter compiere ma che, sperimentandone l’impossibilità, intristiti nella frustrazione, esigiamo veder compiuti dagli altri. “Guai a voi!” grida oggi il Signore a ciascuno di noi; guai, perchè cerchiamo male il bene che ci spetta, cerchiamo nella carne e nel mondo, cisterne screpolate, quello che proprio non possono darci. Cerchiamo sicurezze che diano sostanza alla nostra esistenza, leggi e regole che garantiscano stabilità agli affetti, alla famiglia, all’amicizia, all’amore. Stendiamo una rete di ideali e di sogni, scriviamo e riscriviamo la Costituzione della nostra vita, elemosinando a quattro regolette il segreto della felicità e di una vita senza problemi. Cerchiamo di dare il paradiso alla nostra vita e lo riduciamo a qualcosa di grigio ed insapore intrappolato tra codici e regolamenti che la carne e la sua debolezza smentiscono in ogni istante. Fuggiamo la precarietà terrorizzati, e facciamo della nostra vita una caricatura, ed un sepolcro imbiancato. Come i farisei e i dottori della Legge che hanno fatto della Scrittura e della Tradizione una corazza opprimente e umiliante, che, invece di difendere dal peccato, ha finito per sbarrare la strada all’amore e alla misericordia. Per sfuggire alla debolezza, la Legge ha reso superfluo l’amore paziente di Dio pronto ad aiutare, a perdonare, a ricreare.

Così per le nostre vite. Per sfuggire la precarietà spirituale ancor prima di quella economica o fisica, stabiliamo una ragnatela di regole e di principi ideali con i quali crediamo di assicurarci giornate tranquille, famiglie più o meno normali. E non ci rendiamo conto che, rifiutando la debolezza e la precarietà che ci costituiscono, lasciamo fuori dalla nostra vita Colui che, solo, può riscattarci dai fallimenti che, inevitabili, feriscono le nostre storie. “Perchè spendete per ciò che non è pane”? Venite a me dice il Signore, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Perchè il Suo giogo d’amore, la sua croce che schiude le porte al Paradiso, è per noi sempre, anche e soprattutto quando di nulla siamo meritevoli. Il suo amore colora e dà sapore alle nostre vite, liberandole dal carcere grigio e frustrante di leggi incompiute, di desideri inappagati, di ideali spezzati. Il suo amore compie ogni legge, perchè ogni Legge trova compimento nel suo amore. Accettare ogni giorno la precarietà nell’attesa, colma di speranza, del suo aiuto, della sua misericordia, del suo amore capace di fare del fallimento più cocente un successo strepitoso.

Lefebvriani e Santa Sede: fine del dialogo

Lefebvriani e Santa Sede: fine del dialogo

di Matteo Matzuzzi da www.lanuovabq.it

Negoziato

Arriva da Kansas City, Stati Uniti, quella che con ogni probabilità sarà la conclusione negativa della lunga trattativa per riportare la Fraternità San Pio X (i lefebvriani) in piena comunione con Roma. È lì che, intervenendo nel corso di un’assemblea che si è tenuta nello scorso fine settimana, il superiore Bernard Fellay ha chiuso lo spiraglio del negoziato: «Abbiamo davanti a noi un vero modernista», ha detto riferendosi a Papa Francesco. È Bergoglio, infatti, l’oggetto della riflessione del successore di monsignor Marcel Lefebvre. Con lui, il gesuita “preso quasi alla fine del mondo”, non ci potrà essere dialogo. E i motivi sono tanti, troppi anche per i più ottimisti e fiduciosi sul fatto che il cammino intrapreso da Benedetto XVI possa concludersi con successo. «La situazione della Chiesa è un vero e proprio disastro, e questo Papa la sta rendendo diecimila volte peggio», ha tuonato Fellay. Rispetto a Ratzinger, il cambiamento è netto: «All’inizio del pontificato di Benedetto XVI avevo detto che la crisi della Chiesa sarebbe continuata, ma che il Papa stava cercando di metterci un freno. Francesco – dice il superiore della Fraternità lefebvriana, ha tagliato le corde del paracadute che il teologo bavarese aveva applicato alla Chiesa». Il futuro non può che essere nero, per Fellay: «Stiamo vivendo tempi spaventosi, se l’attuale Papa continuerà ad agire nel modo in cui ha iniziato, dividerà la chiesa. Sta esplodendo tutto. A quel punto, la gente dirà che è impossibile che lui sia il Papa, lo rifiuterà». Viene evocato, in modo esplicito, il rischio di uno scisma.

Oltre alle frasi di Francesco sul “Summorum Pontificum” (il motu proprio del 2007 con cui Benedetto XVI regolava la corretta celebrazione della messa tridentina secondo il messale di Giovanni XXIII), che risponderebbe solo all’esigenza di «aiutare alcune persone che hanno questa sensibilità», a finire nel mirino dei lefebvriani sono le frasi del Papa sulla coscienza contenute nell’intervista concessa a Eugenio Scalfari: «La coscienza deve essere sempre formata secondo la legge di Dio, il resto è spazzatura», ha chiarito Fellay, precisando che nelle parole di Jorge Mario Bergoglio si scorge solo “un relativismo assoluto”. È il suo adattamento al mondo a non piacere, l’uso che fa dell’accomodatio ignaziana. «Riflettendo su ciò che accade, ringraziamo Dio che lo scorso anno ci ha preservato da ogni tipo di accordo». Viene fatta risalire al settembre 2012, infatti, la vera interruzione dei contatti con Roma. In quelle settimane arrivava a Econe la lettera preparata dal Vaticano e sottoposta alla firma di Fellay. Un testo in cui Ratzinger poneva come condizione per la riconciliazione il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II. Una clausola irricevibile, per gli eredi di Marcel Lefebvre: «Quel giorno dissi che era impossibile sottoscrivere l’ermeneutica della continuità. Il Concilio non è in continuità con la Tradizione, è una cosa fuori dalla realtà».

Nei mesi scorsi, da più parti si segnalava come la mancata firma da parte della Fraternità scismatica fosse stata un’occasione mancata, probabilmente irripetibile alla luce del cambio della guardia sul Soglio di Pietro. Mai (si diceva) ci sarebbe stato un altro Pontefice così disponibile verso una ricomposizione come lo era stato Benedetto XVI, il quale si era spinto a garantire ampie concessioni alla piccola comunità tradizionalista pur di sanare la ferita, compresa la controversa remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati nel 1988 da Lefebvre senza l’autorizzazione della Santa Sede. Con Francesco, infatti, le distanze sembrarono ampie già dalla sera stessa dell’elezione. Il Papa neoeletto che rifiutava gli orpelli della Tradizione (a partire dalla mozzetta di velluto rosso, la croce pettorale d’oro e le scarpe rosse) e che si definiva semplicemente vescovo di Roma, capo della diocesi che presiede nella carità le altre chiese. Una vocazione all’ecumenismo destinata a diventare cifra saliente del pontificato, si disse allora. Proprio di quell’ecumenismo che secondo Bernard Fellay «tanti disastri ha arrecato alla chiesa».

Un segno di distensione poteva essere letto nella scelta di Bergoglio di nominare monsignor Guido Pozzo segretario della Pontificia commissione “Ecclesia Dei”, l’organismo creato da Giovanni Paolo II nel 1988 volto a favorire il rientro nella Chiesa cattolica dei lefebvriani. Pozzo, d’orientamento conservatore, era già stato segretario di quella commissione dal 2009 al 2012, quando Benedetto XVI lo aveva promosso Elemosiniere. Lo scorso agosto, però, il ritorno alle origini (seppur da arcivescovo titolare di Bagnoregio): dopo solo otto mesi, Francesco cambia l’Elemosiniere e rimanda mons. Pozzo all’Ecclesia Dei. Basta con gli elemosinieri “che firmano pergamene tutto il giorno” – così ha detto Francesco incontrando i familiari di Konrad Krajewski, il successore di Pozzo. Ma dopo un anno in cui tutto è rimasto fermo, la ricomposizione pare improbabile. Lo stesso Guido Pozzo ha sempre ricordato che l’elemento fondamentale per tornare a sedersi attorno a un tavolo è il pieno riconoscimento del Magistero dei papi dal Concilio in poi. Senza quel , ogni accordo è impossibile.

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Lunedì della XXVIII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,29-32
 
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone. Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona».
Il commento di don Antonello Iapicca
 
Come le folle anche noi ci “accalchiamo” per carpire da Gesù un «segno» che ci dia “il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io” (J. Ratzinger). Ci illudiamo di chiedere a Dio un “segno” per orientare verso di Lui le scelte ma, quando non sono soddisfatte le nostre passioni, si svela la “malvagità” che coviamo nel cuore. Il volto scuro come Caino, e gelosie, invidie, ira e rancori capaci di uccidere il fratello per vendicarsi di Dio. Stentiamo a convertirci, nonostante nella Chiesa «Uno più grande di Giona» bussi ogni giorno alla nostra vita; è Cristo vivo nel suo Corpo che, con pazienza e misericordia, ci ammaestra con la predicazione e ci nutre con i sacramenti. Grazie al “segno di Giona”, all’annuncio del Vangelo in quel momento difficile della nostra vita, siamo stati salvati, e siamo salvi ora: il matrimonio è rinato, ed è nato il piccolo che neanche un pazzo avrebbe potuto immaginare. «Meritevoli d’ira» come questa «generazione malvagia», per Grazia siamo stati raggiunti dal suo amore e scelti come una primizia per divenire il «segno del Figlio dell’uomo» per ogni uomo. Ma che ne abbiamo fatto della nostra primogenitura? Forse l’abbiamo truccata per adattarla ai nostri desideri, e siamo scivolati in un’ipocrisia insopportabile. Per questo i pagani ci giudicheranno, come tutti coloro che hanno disprezzato le grazie ricevute per accogliere il Messia e convertirsi. I pagani subentreranno ai primogeniti che hanno rigettato la primogenitura per un piatto di lenticchie, duemila anni fa come oggi. Attenzione quindi, perché esiste il «giorno del giudizio», la vita non è un gioco e poi “tana libera tutti”…. Ci sarà un giorno nel quale gli uomini saranno giudicati, e i cristiani ancor più approfonditamente… Il giorno in cui i pagani si «alzeranno» e ci «giudicheranno» per non esserci convertiti; a loro sarebbero bastate le «briciole cadute dalla nostra tavola»… Ma il «giorno del giudizio» è anticipato nella storia, è anche «oggi»: al lavoro, a scuola, al bar, tra i parenti, la sofferenza di chi non ha conosciuto Cristo ci «giudica» in attesa del segno della nostra conversione, la fede adulta che si fa amore. Il collega di ufficio, lontano dalla Chiesa e nemico dei preti, con una situazione familiare fallimentare eppure incapace di accettarlo, che a sentirlo sembra vivere la migliore delle vite possibili; ebbene, proprio lui “si alzerà” dal suo tavolo di lavoro e ti chiederà aiuto. A te, che ha sempre disprezzato, insultato ed emarginato, a te chiederà luce e consolazione per non impazzire di fronte all’incidente che si è portato via il figlio sedicenne. Se non ti sarai convertito oggi non potrai dargli nulla, e dovrai rimandarlo a mani vuote; e la tua vita, alla quale Dio ha voluto legare la sua, precipiterà all’inferno, nella solitudine dove sono condannati a vivere quanti non hanno accolto l’amore e non hanno potuto diffonderlo. Proprio tu, Che ai suoi occhi appari come un cristiano… E così con tua moglie, i tuoi figli, che ti giudicheranno vuoto come una zucca…

Ma c’è speranza, proprio oggi: basta non difenderci, lasciarci giudicare e convertirci, ascoltare e accogliere la predicazione. Questo significa smetterla di crederci a posto, o almeno non poi così male, e ricordare la “cenere” dalla quale siamo stati tratti. Accettare di essere andati per la vita come i niniviti, senza distinguere la destra dalla sinistra, sbattendo sui muri della discomunione mentre credevamo di aver imboccato la strada giusta dell’amore. Purtroppo dietro a quella scelta non vi era lo Spirito Santo ma l’inganno del demonio: accettiamolo, convertiamoci una volta per tutte, riconosciamo che quella presa di posizione ha ucciso nostra moglie; che quel criterio ha ferito e umiliato nostro figlio; che quel progetto che abbiamo idolatrato ha escluso e allontanato il fratello. Umiliamoci allora, e “vestiamoci di sacco” anche noi come gli abitanti di Ninive; digiuniamo di parole e cibi, umiliamo il corpo con il quale abbiamo ucciso e scandalizzato. E, con il cuore contrito come quello di Davide, riconosciamo di aver peccato e accettiamo le conseguenze, come uomini adulti, finalmente. Solo così potremo, come la Regina di Saba, muoverci dagli “estremi confini della terra” dove siamo scappati ingannati dal demonio, e tornare a Cristo, alla Sapienza fatta carne. E da Lui implorare con sincerità il discernimento che plasma in noi occhi nuovi per guardare gli eventi con fede adulta, che sa identificare nella storia i segni di Cristo. Convertirsi oggi è smettere di chiedere capricciosamente e infantilmente che persone e fatti siano piegati ai rantoli della nostra concupiscenza; e chiedere la Sapienza della Croce, l’unica capace di svelare i segreti della storia e delle vicende della nostra vita, di quella dei figli e di ogni uomo. Per ottenerla occorre però accettare la nostra debolezza, anche la nostra carne capricciosa, e consegnarla alla misericordia di Cristo, insieme con tutto noi stessi, così come siamo. Gettiamoci tra le sue braccia, lasciamoci crocifiggere e nascondere nelle sue piaghe: le sue carni ferite, i “segni” dei chiodi sono le “uscite di sicurezza” che possiamo attraversare senza paura, per passare dalla carne allo Spirito, e “convertire” i peccati in Grazia. Lasciamoci immergere nella fonte della sua misericordia dove cresceremo sino alla fede adulta capace di discernere. Attingiamo ai sacramenti, ascoltiamo, scrutiamo e meditiamo la Parola, mettiamoci all’ultimo posto. Lasciamo che Gesù, in ogni istante, ci faccia una sola cosa con Lui, perché nell’ultimo giorno, il dolore di chi ha atteso di vedere in noi un segno di speranza, possa giungere in Cielo dicendo a tutti di averlo visto Cristo, di averlo incontrato nella nostra predicazione e testimonianza. E così potremo entrare insieme e con loro, e con loro godere eternamente delle delizie del nostro Sposo.


Come le folle anche noi ci “accalchiamo” per carpire da Gesù un «segno» che ci dia “il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io” (J. Ratzinger). Quante volte chiediamo un segno per orientare le nostre vite e restiamo delusi, interdetti dinanzi al silenzio di Dio. “Chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»?” (Giac. 4,3-5). Infedeli, adulteri e con il cuore perverso chiediamo male, anche quando ci inginocchiamo per chiedere luce sul nostro cammino: il nostro cuore è amico del mondo e cerca di pervertire la voce di Dio. Chiediamo per soddisfare le nostre passioni, fossero anche rivestite di religiosità. Il nostro cuore è così spesso impuro perché è schiavo! “Alla radice di tale richiesta sviata di un segno, c’è l’egoismo, la mancanza di purezza di un cuore che non aspetta nulla di Dio se non il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io. Tale forma di religiosità è rifiuto fondamentale di conversione. Eppure, quante volte anche noi dipendiamo dal segno del successo! Quante volte chiediamo il segno e rifiutiamo la conversione!” (J. Ratzinger, Ritiro predicato in Vaticano, 1983). Il volto scuro come Caino, e gelosie, invidie, ira e rancori capaci di uccidere il fratello per vendicarsi di Dio. Stentiamo a convertirci, nonostante nella Chiesa «Uno più grande di Giona» bussi ogni giorno alla nostra vita; è Cristo vivo nel suo Corpo che, con pazienza e misericordia ,ci ammaestra con la predicazione e ci nutre con i sacramenti; che ci chiama a conversione facendosi carne nei fratelli, nell’annuncio del Vangelo, negli eventi della storia. La Chiesa ci ha annunciato e testimoniato vero e credibile il “segno di Giona”: per noi è morto Cristo, per noi è risorto ascendendo vivo dalle fauci della morte, segno del perdono definitivo di ogni nostro peccato. Per questo segno siamo stati salvati, siamo salvi ora, e il matrimonio è rinato, ed è nato il piccolo che neanche un pazzo avrebbe potuto immaginare. «Meritevoli d’ira» come questa «generazione malvagia», per Grazia siamo stati raggiunti dal suo amore e scelti come una primizia per divenire il «segno del Figlio dell’uomo» per ogni uomo.

Ma che ne abbiamo fatto della nostra primogenitura? Forse l’abbiamo truccata per adattarla ai nostri desideri. L’abbiamo “pervertita”, come Gesù definisce questa generazione nel parallelo al brano odierno del Vangelo di Matteo. “Pervertire” significa, secondo l’etimologia latina, volgere il bene in maleChiedere un segno è volgere il bene della storia che Dio prepara in un male che Egli ci provoca. E’ l’inganno satanico che ha ferito l’anima dei progenitori. E’ la fonte del peccato che chiude la strada all’opera di Dio. Nonostante i segni compiuti nella storia di Israele, la generazione che si accalcava attorno a Gesù, cercava in Lui lo strumento per piegare gli eventi al proprio favore carnale. Una generazione perversa diviene sempre, di conseguenza, adultera: chi cambia il bene in male tradirà l’Autore del bene per “giacere” con l’autore del male. Ogni giorno ne facciamo esperienza, in famiglia, la lavoro, ovunque. Non ci convertiamo, essendo schiavi dei nostri ideali, progetti, criteri. E chiediamo segni che ci diano ragione e certezze, e scivoliamo in un’ipocrisia insopportabile. Per questo i pagani giudicheranno coloro che hanno disprezzato le grazie ricevute per accogliere il Messia e convertirsi. I pagani, subentreranno ai primogeniti che hanno rigettato la primogenitura per un piatto di lenticchie, duemila anni fa come oggi.

Attenzione però, perché esiste il «giorno del giudizio», quando i pagani si «alzeranno» e ci «giudicheranno» per non esserci convertiti; a loro sarebbero bastate le «briciole cadute dalla nostra tavola»… Il collega di ufficio, lontano dalla Chiesa e nemico dei preti, con una situazione familiare fallimentare eppure incapace di accettarlo, che a sentirlo sembra vivere la migliore delle vite possibili; ebbene, proprio lui “si alzerà” dal suo tavolo di lavoro e ti chiederà aiuto. A te, che ha sempre disprezzato, insultato ed emarginato, a te chiederà luce e consolazione per non impazzire di fronte all’incidente che si è portato via il figlio sedicenne. Se non ti sarai convertito oggi non potrai dargli nulla, e dovrai rimandarlo a mani vuote; e la tua vita, alla quale Dio ha voluto legare la sua, precipiterà all’inferno, nella solitudine dove sono condannati a vivere quanti non hanno accolto l’amore e non hanno potuto diffonderlo. Proprio tu, Che ai suoi occhi appari come un cristiano… E così con tua moglie, i tuoi figli, che ti giudicheranno vuoto come una zucca… Quel «giorno» è anche «oggi»: al lavoro, a scuola, al bar, tra i parenti, la sofferenza di chi non ha conosciuto Cristo ci «giudica» in attesa delle «briciole», il segno della nostra conversione, la fede adulta che si fa amore. Ma c’è speranza, proprio oggi: basta non difenderci, lasciarci giudicare e convertirci. Questo significa smetterla di crederci a posto, o almeno non poi così male, e ricordare la “cenere” dalla quale siamo stati tratti. Accettare di essere andati per la vita come i niniviti, senza distinguere la destra dalla sinistra, sbattendo sui muri della discomunione mentre credevamo di aver imboccato la strada giusta dell’amore. Purtroppo dietro a quella scelta non vi era lo Spirito Santo ma l’inganno del demonio: accettiamolo, convertiamoci una volta per tutte, riconosciamo che quella presa di posizione ha ucciso nostra moglie; che quel criterio ha ferito e umiliato nostro figlio; che quel progetto che abbiamo idolatrato ha escluso e allontanato il fratello.

Per guarire il cuore “malvagio” di noi ancora figli di questa generazione, vi è un solo segno: quello di Giona. In Cristo, infatti, possiamo essere strappati a questa generazione per divenire figli di Dio, con un cuore libero e abbandonato alla volontà di Dio. Un figlio non chiede un segno, non ne ha bisogno; chiede quanto suggerito dal Figlio nella preghiera che ci ha insegnato: chiamando Dio Papà – Abbà, un figlio chiede, come Salomone, la Sapienza per discernere i segni che già sono dati nel tessuto della storia. E discernere presuppone un cuore aperto alla conversione, a lasciare i propri schemi, a cambiare opinione, a far posto al pensiero di Dio. Umiliamoci allora, e “vestiamoci di sacco” anche noi; digiuniamo di parole e cibi, umiliamo il corpo con il quale abbiamo ucciso e scandalizzato. E, con il cuore contrito come quello di Davide, riconosciamo di aver peccato e accettiamo le conseguenze, come uomini adulti, finalmente. Solo così potremo implorare con sincerità il discernimento che plasma in noi occhi nuovi per guardare gli eventi con fede adulta, che sa identificare nella storia i segni di Cristo. E’ Lui il segno, qui, nella nostra vita concreta, come lo fu Giona per i niniviti, come quel giorno dinanzi alla folla che si accalcava, vi è Gesù Cristo. La sua vita, la Parola di Dio sulle sue labbra, e la chiamata a conversioneIn quell’Uomo vivo di fronte a loro vi era il segno capace di guarire e ridonare fedeltà e rettitudine di intenzione. Il segno capace di destare il desiderio di convertirci, di accogliere la sapienza che dia il discernimento. Per questo Lui ci attira ogni giorno nel deserto della nostra storia, ad “impattare” con la sua persona; nell’incontro con Lui affiorano i dubbi, i timori, le debolezze e i limiti della nostra carne. La sua presenza che si fa prossima smaschera l’adulterio e la perversione che si fa mormorazione ed esigenza. Gesù è oggi il segno, la misericordia che guarisce e ci ricrea vergini e casti per sposarci con Lui nella fedeltà e nell’amore; è Gesù il segno che ci dischiude gli occhi perché possiamo discernere in Lui il Messia che attendiamo. Lui, il segno incarnato nella nostra vita che ci svela ogni istante come una meraviglia del suo amore, dove trovare la vera pace.

Convertirsi oggi è smettere di chiedere capricciosamente e infantilmente che persone e fatti siano piegati ai rantoli della nostra concupiscenza; e abbandonare la nostra debolezza, anche la nostra carne capricciosa, consegnandola alla misericordia di Cristo. Gettiamoci tra le sue braccia, lasciamoci crocifiggere e nascondere nelle sue piaghe: le sue carni ferite, i “segni” dei chiodi sono le “uscite di sicurezza” che possiamo attraversare senza paura, per passare dalla carne allo Spirito, e “convertire” i peccati in Grazia. Lasciamoci immergere nella fonte della sua misericordia dove cresceremo sino alla fede adulta capace di discernere. Attingiamo ai sacramenti, ascoltiamo, scrutiamo e meditiamo la Parola, mettiamoci all’ultimo posto. Lasciamo che Gesù, in ogni istante, ci faccia una sola cosa con Lui, perché nell’ultimo giorno, il dolore di chi ha atteso di vedere in noi un segno di speranza, possa incontrare Lui, speranza delle genti, e non ci chiuda le porte del Paradiso.

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Giovedì della XXVII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13

Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».

Il commento di don Antonello Iapicca

La parabola di oggi è un midrash di Gesù sul Padre Nostro; con le parole che ne seguono, fa chiarezza su cosa sia, essenzialmente, la preghiera. Essa è questione di vita o di morte, così come è fondamentale essere figli di un Padre. Se non sappiamo dire a Dio Abbà – Papà, vivremo come orfani, sempre in cerca di un’origine e di un senso, vuoti e frustrati. Per questo Gesù ci spiega la sua preghiera partendo dall’esperienza fondamentale di ogni uomo, il bisogno nel quale nasciamo tutti: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti“. Un “amico” è giunto sulla soglia della nostra casa, nel mezzo del suo cammino, e ha chiesto ospitalità. In oriente essa è sacra, e per un ebreo costituisce uno degli appelli più pressanti della Torah. Il nome stesso “‘ibri”, “ebreo”, che i popoli confinanti davano a Israele e da lui accolto come suo, significa “abitante al di là della frontiera”, cioè straniero. Ogni ebreo ha il dovere sacro dell’ospitalità “… perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Es 22,20; 23,9). Per un ebreo, l’Egitto è il “luogo dell’angoscia” dal quale il Signore lo ha tratto in salvo, senza alcun merito. Per questo, in ogni viandante riconoscerà se stesso, e, facendo memoria della sua storia, farà nei suoi riguardi quanto ha Dio ha fatto con lui. Ma l’uomo della parabola non può! Non ha il pane necessario ogni giorno, l’alimento sostanziale per accogliere il suo amico – quello che Gesù invita a chiedere nel Padre Nostro. Forse ha dimenticato di prepararlo, o ne ha consumato la provvista. La Scrittura descrive così l’amico: “L’amico fedele è solido rifugio, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore” (Cfr. Sir 6). Forse dovremmo chiederci se davvero ci sta a cuore la sorte dell’amico che bussa alla nostra porta; o, addirittura, se è davvero nostro amico… “C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura” (Sir 6). Allora, vediamo, mio marito è mio amico? E mio figlio? E’ mia amica mia madre o mia sorella? Sono “amici” nel senso illuminato dalla Scrittura? “Altri me stesso” come lo fu Gionata per Davide, al punto di legare indissolubilmente la sua vita a quella del suo amico: “l’anima di Gionata s’era già talmente legata all’anima di Davide, che Gionata lo amò come se stesso. Gionata strinse con Davide un patto, perché lo amava, come se stesso” (1Sam.18,1;3,4). Niente a che vedere con la caricatura post-sessantottina dei genitori amici dei figli, niente di sdolcinato, anzi: Gionata è morto per Davide, perdendo tutto. Questo è un amico. Dovremo forse ammettere che, proprio perché in fondo pensiamo sempre a noi stessi anche quando crediamo di amare gli altri, non andiamo a importunare l’altro amico per sfamare l’amico. Siamo presi tra due amici dei quali forse non conosciamo nulla, i bisogni dell’uno e la generosità dell’altro. Con uno siamo egoisti e narcisi, dell’altro dubitiamo perfino dell’amicizia, e non siamo certi che possa darci il pane di cui abbiamo bisogno. Per tutto questo non ci siamo mai svegliati di notte per pregare in favore del matrimonio, dei figli o di un collega.

Ma non a caso è il cuore della notte, come quella in cui Dio ha “liberato i figli di Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto” (Exultet di Pasqua). E’ notte, siamo schiavi, non sappiamo amare, dubitiamo e mormoriamo. Il Signore ci chiama oggi a farci, come l’uomo della parabola, pellegrini e andare a bussare, umilmente, alla porta dell’Amico: dobbiamo chiedere quello che non abbiamo per essere quello che dovremmo essere. Dobbiamo aprire gli occhi e accettare di essere ancora stranieri in terra d’Egitto, nell’angoscia, per sperimentare di nuovo l’opera di Dio. Gesù ci invita a fare memoria della Pasqua, e ricordare la nostra storia ed entrare così nella verità. E’ dalla verità infatti, sinonimo di umiltà, che sgorga la preghiera autentica, fiduciosa, audace, radicata nella certezza di non essere delusi. E la verità è il bisogno estremo di chi non ha nulla, il nostro. Non abbiamo il pane per sfamare l’amico che bussa alla nostra porta; siamo senza amore per la moglie, il marito, i figli, i colleghi. Non possiamo accogliere quanti, stanchi e affaticati, cercano in noi ospitalità: il riposo del perdono, la consolazione di una parola, la tenerezza dell’ascolto. Non possiamo farci carico della loro stanchezza, dei loro peccati. Non possiamo accogliere Cristo che bussa alla porta celato nel bisogno del fratello. Per questo non possiamo far altro che “cercare, chiedere e bussare” per “ottenere” quello che ci manca: lo Spirito Santo. C’è un amico che bussa alla nostra vita e ha bisogno di pane; e c’è un Amico che può darcelo. Pur essendo padri cattivi – “schiavi”, secondo l’etimologia del termine “cattivi” – sino ad ora abbiamo dato “cose buone” ai nostri figli, il pane che sazia la carne, il solo che sanno dare i padri schiavi della carne. Forse consigli, forse denaro, e lo studio, e i vestiti. Così come a tutti quelli che ci sono vicini: succedanei dell’amore, regali che saziano solo fugacemente. A maggior ragione, in virtù della sua bontà e della sua misericordia, il nostro Amico, “il Padre celeste”, “ci darà lo Spirito Santo”. Questo è il frutto compiuto della Pasqua, l’alito della vita eterna che ha risuscitato il Figlio e che il Padre vuole donarci perché possiamo donarci come pane. In ogni notte che ci avvolge impedendoci di vedere l’amico che abbiamo vicino possiamo “importunare” l’Amico perché “L’amico ama in ogni circostanza; è nato per essere un fratello nella avversità” (Pr 17,17): tuo figlio sta divorziando? Non sopporti più tua suocera o tua moglie? Hai paura e non ce la fai ad avere rapporti aperti alla vita? Hai paura della vecchiaia? L’artrosi ti ha rubato speranza e pace? Alzati durante la notte, gettati in ginocchio, e “bussa” alle porte del Cielo dove il Signore è entrato vittorioso sulla morte, e prega dicendogli che “Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato”. E’ la “notte beata, che sola ha meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Mezzanotte, il cuore delle nostre tenebre vuote, è l’ora in cui pregare e sperimentare che “Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti” (Exultet di Pasqua). Questa è la notte in cui brilla la luce della Pasqua, quando il nostro Amico ci dona il suo Spirito, e con esso la sua vita e il suo amore.

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Mercoledì della XXVII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,1-4.
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione». 
Il commento di don Antonello Iapicca
 
Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”, di chi segue il Signore e sperimenta la necessità impellente di pregare. E, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque, una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre. Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce.
Proprio le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Per Lui, come per ciascuno di noi, era preparato un cammino: esso ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore.
Tra gli ulivi del Getsemani, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore, la stessa compassione, era Figlio: nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, e il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare.
Per questo, quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, perché solo in essa si può vivere sino in fondo. Pregare, dunque, è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi: è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli occorre essere figli, perché ogni vocazione nasce dal battesimo: prima si è cristiani e poi preti, suore o genitori. E per essere figli di Dio, ovvero cristiani, non possiamo restare un istante senza pregare. Ma abbiamo sperimentato nella nostra vita la paternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita. In essa, invece, possiamo imparare a vivere “misticamente” ogni evento, con uno sguardo di fede e innamorato, capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare il Vangelo al mondo è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività: non una parola, non un gesto  che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo Spirito di Gesù Cristo si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale chiedere a Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me, che cosa mi dici di fare perché si compia ciò che è tuo“?
QUI IL COMMENTO ESTESO

Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”. Chi segue il Signore sperimenta la necessità impellente di pregare. Ma, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre.

Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce. I “discepoli” dei rabbini, infatti, imparavano non solo dalle parole, ma anche dalla loro vita e dal loro esempio. Per imparare entravano a servizio del maestro: allo stesso modo, per imparare a pregare, è necessario servire Cristo e consegnargli la vita, perché Lui, l’unico Maestro, ha offerto ai suoi discepoli gratuitamente le sue parole e la propria vita; e non solo come esempio, ma come un dono da accogliere.

La preghiera del Padre Nostro è il tesoro di sapienza che il Rabbì Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli, la preghiera rivelata nella stessa sua vita. Le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Lo era per natura, come ciascuno di noi è figlio naturale del suo padre nella carne. Ma vi era per lui, come per ciascuno di noi, un cammino che coinvolge la libertà, perché l’identità con il padre superi il livello biologico e divenga un’identità che abbracci la persona nella sua totalità. Questo cammino ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. Questo percorso ha bisogno di una serie di atteggiamenti: guardare, ascoltare, domandare, a volte anche discutere e litigare… Qualcosa di vero, impastato di polvere e sudore, come la nostra storia di ogni giorno. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore. Può sembrare paradossale, perché obbedienza “è una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana.” (Benedetto XVI, Lectio sul sacerdozio nella Lettera agli Ebrei, nell’incontro con i parroci ed i sacerdoti di Roma, 18 febbraio 2010).

Per questo, quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, quella che anche Lui ha imparato dalle sue sofferenze. Pregare è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi. Pregare è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’obbedienza che incarna l’amore autentico. Proprio nel Getsemani, al culmine di una vita consumata nell’obbedienza al Padre, Gesù rivela come la libertà sia condizione ineludibile dell’amore e raggiunga la sua perfezione proprio nell’obbedienza: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv. 10, 17-18). Gesù offre la sua vita liberamente rispondendo così al comando del Padre; Egli riconosce nella volontà paterna un’opera così grande e urgente – quella per la quale è venuto al mondo – da assorbire in sé stessa la propria volontà, sino al punto di identificarla con quella di suo Padre. La libertà è stata come il veicolo attraverso il quale la volontà del Figlio si è disciolta in quella del Padre, rivelando così la somiglianza perfetta tra i due. La libertà legata profetizzata da Isacco nel celebre episodio della aqedà, il Targum del capitolo 22 del Libro della Genesi:

“Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme con cuore integro. Isacco si rivolse al

padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». E rispose Abramo: davanti al Signore, Lui ha preparato per se l’agnello per l’olocausto e se non, tu sarai l’agnello che
è per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt’e due insieme con cuore integro; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare Isacco suo figlio. Rispose Isacco e disse al Abramo suo padre: Padre mio, legami bene, affinché non ti colpisca con calci e la tua offerta non diventi inadatta da parte tua e poniamo fiducia nella fossa della distruzione che sta arrivando al mondo.. Gli occhi di Abramo erano sugli occhi di Isacco e gli occhi di Isacco si muovevano verso gli angeli dall’alto. E Abramo non li vide. In questo momento uscì la voce divina dai cieli e disse: Venite! Guardate due esseri unici che sono nel mio mondo. Uno sta per immolare e uno sta per essere immolato. Quello che sta per immolare non esita e quello che sta per essere immolato ha steso il suo collo” (Targum Neophiti).
La completa identità tra Abramo ed Isacco è profezia e immagine di quella rivelata da Gesù nel Getsemani: Tutt’e due insieme con cuore integro, due esseri unici, l’uno legato all’altro in una medesima volontà. E’ dunque la volontà il tratto somatico che rivela la somiglianza tra Padre e Figlio: “Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei Cieli”. La perfetta libertà è rivelata nel legame indissolubile della perfetta obbedienza: Padre e Figlio sono entrambi legati nel medesimo volere, l’amore perfetto, sino alla fine. Nel Getsemani Gesù ha offerto se stesso, liberamente e senza condizioni, alla Croce preparata dal Padre. Tra quegli ulivi, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore integro, la stessa compassione, era Figlio. nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: dall’arresto allo spirare sulla Croce tutto sarà naturale, il compiersi del suo essere figlio. 
 
Il discepolo che ascolta accoglie, nella preghiera, l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli e vivere secondo la volontà di Dio nella quale siamo stati chiamati, non possiamo restare un istante senza pregare. Anche quando si fa pesante, si vorrebbe far altro, esattamente come in una relazione d’amore che si nutre, proprio nei momenti difficili, della consegna all’altro. Ecco, attraverso la preghiera ci consegniamo a Cristo, per vivere immersi nel suo Abbà. Abbiamo sperimentato nella nostra vita lapaternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita.

La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, ed il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare. Con il Padre Nostro Gesù ci chiama a vivere la sua vita, ad essere discepolo per imparare, seguendo le sue orme, ad essere figlio: “nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo, così che diventiamo veramente il suo corpo” (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazareth. Seconda parte). Dicendo Padre Nostro siamo chiamati a dire Padre di Gesù e Padre mio, e Padre di ogni mio fratello. E’ questa la buona notizia annunciata da Gesù alla Maddalena perché la trasmetta ai suoi discepoli: “io salgo al Padre mio e Padre vostro!”. Il cammino al Cielo è ormai dischiuso e la via crucis che ci attende ogni giorno è il cammino alla beatitudine eterna dell’amore di Dio. Il Padre Nostro è il nostro respiro quotidiano consegnato al respiro di Dio, per imparare l’obbedienza dalle cose che patiamo, divenire figli somiglianti del Padre, lo stesso cuore per vivere eternamente del suo amore.

Il Padre Nostro è la preghiera del figlio che segue le orme di suo Padre. Per questo è la preghiera di Gesù. E la nostra. In essa impariamo a vivere “misticamente” ogni evento, che non è fuggire in un’alienazione pseudo-spirituale, ma con uno sguardo di fede e innamorato capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività. Tutto nasce dall’Abbà ripetuto come un sigillo su ogni relazione e ogni evento. Non una parola, non un gesto che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo spirito di Gesù Cristo che ha vissuto tutto nell’obbedienza piena di amore a suo Padre, si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale cercare da Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me?”.