MILANO – Per Isabella Ferrari la scelta del personaggio è anche un modo di fare denuncia sociale. Di risvegliare le coscienze. Con il film di Ozpetek, “Un giorno perfetto”, la lente di ingrandimento era puntata sulla violenza alle donne. Quando aveva scelto di essere la voce narrante del documentario “Il primo respiro” si era fatta paladina del parto naturale. Questa volta Isabella punta il dito contro il consumo di cocaina, ma non le piste tirate con biglietti da cento euro nei privé dei locali alla moda di Roma e Milano.Con “Storia di Laura”, film tv in autunno su Raiuno, l’attrice vuole ricordare che il consumo di coca è ormai talmente diffuso che riguarda tutti. Anche la signora della porta accanto. Ne parliamo via Skype. Lei è ospite di una villa sulle dune di Sabaudia con l’amica di sempre, Monica Bellucci. Una casa affollata di ragazzini, dall’ultimo bebè di Monica a Teresa, la maggiore dei figli di Isabella, che di anni ne ha 15. «Poi ci sono gli amichetti. I grandi si prendono cura dei piccoli, una situazione felice. Una casa di bambini e supermamme», dice ridendo.

È buttata sul letto, una maglietta bianca aderente, shorts blu, piedi scalzi. La stanza è inondata dal sole del pomeriggio, il suo viso sul computer appare sempre più bello. Non ha trucco, i capelli sono trattenuti sulla nuca, qualche ciocca sfugge e incornicia il volto di una donna che ha 46 anni ma ne dimostra dieci di meno. Ogni tanto la voce si perde, lei si sposta col computer in terrazza, dà un’occhiata ai bambini sulla spiaggia, inquadra il cane, cerca di farmi vedere il mare. Si diverte come un’adolescente con queste nuove tecnologie, nello stesso tempo continua a scrivere e annotare, su una serie di quadernetti, brani della sua vita, appunti di lavoro, frasi che legge sui giornali. Uno di questi quaderni è dedicato a “Storia di Laura” ed è ricco di racconti, dati, cifre, statistiche. La più recente, divulgata dall’agenzia di Roma per le tossicodipendenze: nel 2009 in città l’incremento dell’uso di cocaina è stato del 30 per cento.

Quello della coca è un mondo che conosceva? «Questa storia, scritta da Ivan Cotroneo proprio per me, è veritiera, poco rassicurante e… incredibile, è stata accettata dalla Rai. Mi ha fatto scoprire un mondo che mi era estraneo. Per me, da giovane, il drogato era quello autodistruttivo che si faceva di eroina, fino alla morte. La coca invece ti illude di potercela fare, di riuscire a stare al mondo. Ti dà un senso di sicurezza e potenza. Ho avuto amici morti di eroina, ma il giro della cocaina proprio non lo conoscevo».

Come si è preparata per il film? «Ho frequentato un Sert, il servizio per le tossicodipendenze, vicino a Firenze. Maria Rosa De Maria, sorella di mio marito, è la psicologa che mi ha introdotto nel centro, mi ha seguito e spiegato».

Che cosa l’ha colpita di più? «Ho incontrato persone normalissime – mai li penseresti drogati – che mi hanno raccontato la dipendenza dalla cocaina come una delle cose più insidiose. Si sono aperti, e mi piace dirlo perchè mi hanno aiutato molto a interpretare Laura. In alcuni di loro ho visto una via di uscita e sono rimasta in contatto con il centro per sapere chi ce la sta facendo. Poi, due persone che lavorano al Sert sono venute sul set varie volte. Le ho chiamate quando Laura decide di andare a disintossicarsi per uscire dalla menzogna e accettare la sua dipendenza. Perché ti sembra sempre di avercela fatta, invece… Si pensa alla cocaina come alla droga per andare a far festa. Ma non è così».

Racconti. «C’è moltissima gente che tira normalmente sul lavoro: per fare meglio la segretaria, per operare i pazienti, per trovare il coraggio di fare il vigile del fuoco. C’entra la fragilità dell’uomo, sempre più stressato, c’entrano la solitudine e l’impossibilità di ammettere la sofferenza. E soprattutto la troppa competizione. La coca sembra farti passare la paura del disagio, nascondere il tuo lato debole».

Non è più esclusiva del mondo dello spettacolo, di aristocratici e ricchi? «È trasversalissima, tocca tutte le fasce sociali. Ho incontrato la ragazza che non stava bene in famiglia, la moglie depressa, il manager che è riuscito a nascondere per anni alla moglie la sua dipendenza e poi ha perso tutto: il lavoro, la famiglia. E ha dovuto annunciare di essere drogato».

E Laura, il suo personaggio? «È una donna borghese, ha raggiunto uno status sociale invidiabile, una bella casa, due figli, un lavoro. Ma a un certo punto perde il controllo della sua vita per un senso di imperfezione. Pensava di dovere essere sempre all’altezza di quella casa, di quel marito, della società frequentata. Dietro una facciata impeccabile, di bei vestiti e gioielli, aveva sviluppato un grande senso di inadeguatezza. Quando un amico le offre un tiro di coca, lei entra nella spirale. Si ritrova in un mare di bugie, e ne soffre, perché è sincera. La sua è una storia di dipendenza che potrebbe raccontare qualsiasi donna della porta accanto».

A lei, Isabella, la dipendenza fa paura? «Senza dubbio. È sempre in agguato e la conosco bene: dalle grandi storie d’amore, a mia madre. Ma io spero sempre in altri miracoli, non nella coca: spero nell’amore, nella religione, anche nella psichiatria, nell’amicizia. Tutti noi abbiamo bisogno di mezzi per accettate l’imperfezione che fa parte dell’essere umano. Credo che la coca sia l’unico non-miracolo scambiato per miracolo».

Questa diffusione di massa, quanto è influenzata dai modelli che ci arrivano da giornali e tv? «La coca non ti fa sentire la mediocrità che a volte sei costretto a vivere. La mediocrità oggi non è ammessa. Devi adeguarti a un modello prepotente che viene dalla televisione. In questa società tutti hanno bisogno di affermarsi, di non perdere mai. In tv vediamo tette rifatte, donne perfettissime. Mai la normalità, che è sempre imperfetta, asimmetrica. È un mondo irreale ma visibile, inquina la vita di tutti i giorni, gli occhi dei nostri figli».

Illude le persone anche a letto? «La coca serve anche la sera, per fare i gagliardi con gli amici, per corteggiare una donna. Sicurezza e potenza, come dicevo. Infatti spesso è legata a un grande consumo di Viagra. Non li leggo i giornali dove si raccontano gli scandali, il mondo delle veline, delle chiusure delle discoteche… Quello che è successo a Laura non l’ho capito andando nelle discoteche di Milano ma incontrando persone normali. A me interessava la storia di una moglie ideale, che diventa tossicodipendente per una malintesa voglia di vivere. Una dipendenza che non ha colpe e si porta sempre dietro altro, il consumo di psicofarmaci. Questa donna dovrà ricostruire la sua identità, scoprire quello che voleva veramente, ed era quello che aveva sempre avuto».

Com’è possibile combattere la diffusione di questa droga? «La coca si trova in un attimo e ovunque. Dietro c’è un mondo criminale, un giro di soldi inimmaginabile. C’è soprattutto il potere delle mafie con costosissime tecnologie, per produrre e distribuire, che danno guadagni enormi. Nonostante gli sforzi della polizia, sarà difficile interrompere questo flusso di guadagno».

A lei è mai stata offerta? «Devo ammettere una mia totale impossibilità di assumere droghe. Sono troppo sensibile. Al secondo bicchiere di vino già perdo il controllo. E, non amando perdere il controllo, è ovvio che io non posso diventare una potenziale cliente».

Non mi ha risposto: le è mai stata offerta? Lei è entrata a 17 anni nel mondo spettacolo. «Sembrano tempi antidiluviani rispetto a quelli di oggi. Da ragazzina andavo in discoteca il sabato, ma mai vista cocaina, mai il pericolo di una bibita con dentro la pasticca. Anche quando sono arrivata a Roma, no, mai me l’hanno offerta. Forse una volta l’uso della cocaina era più discreto. Poi dipende da chi frequenti».

Ha una figlia di 15 anni. Ha paura? Come la controlla? «I genitori non si accorgono di nulla. Nello stesso tempo ci sono, quindi possono fare la loro parte. Per me significa parlare di tutto, degli articoli sui giornali… Vuol dire coinvolgerli dal punto di vista politico, artistico, umano. Non si può vivere di paura ma penso che la famiglia sia molto potente, nel bene e nel male».

Secondo lei la famiglia non si accorge se il figlio si fa? «Probabilmente sì, se si tratta di eroina o di canne. Ma la cocaina è una droga che nascondi molto bene, e l’ho imparato con questo film. Ho incontrato ragazzine che mi dicevano: mia madre non ha mai capito, il datore lavoro neanche, io però la notte non dormivo, dovevo prendere gli psicofarmaci, poi la mattina facevo molta fatica a rimettermi in moto e quindi avevo bisogno di altra coca».
Come artisti, oggi siete sui tappeti rossi, domani attendete la telefonata per una parte. Questo può creare il bisogno di una spinta, anche chimica, per affrontare la fame di successo? In questo periodo c’è crisi. Alcuni attori come Margherita Buy proclamano di sentirsi disoccupati… «Mi fa sorridere sentire Margherita che si definisce disoccupata, ma è un segnale che ha fatto bene a dare. È la migliore conferma di quello che sta succedendo al cinema italiano. Conosco tanti attori che sono partiti a fare i camerieri a Edimburgo. Ci sono situazioni gravi. Dico sempre agli amici attori e registi: facciamo insieme dei film anche piccoli, autoproduciamoci, affrontiamo strade che prima ci sembravano difficili, può essere che siano vincenti».

Mai scoraggiarsi, insomma. «Tra non molto, ad esempio, ricomincio con il teatro: andrò in scena per sei mesi, rischiando tantissimo ogni sera. Da gennaio con Ennio Fantastichini saremo al Manzoni di Milano con “Il catalogo” di Jean-Claude Carrière. Ma la mia è energia personale, altro che spinta chimica! Io sono fatta così, mi sento più giovane oggi di quando avevo vent’anni. Ho molta voglia di vivere. È il motivo per cui faccio questo mestiere».
21 settembre 2010

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